L'onere della toga
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L'onere della toga

  1. 282 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'onere della toga

Informazioni su questo libro

Monza, estate 1988, una casa prende fuoco: è l'avvertimento della 'ndrangheta a un teste perché non riveli nulla al magistrato che già allora indagava sulle infiltrazioni mafiose al Nord. Milano, tribunale: il sostituto procuratore ascolta il dramma di una ragazza tenuta per anni in schiavitù, sfruttata e prostituita. E poi San Marino: un luogo caratteristico e ameno per tanti, ma non per i Pm di Forlì che indagano sull'evasione fiscale e per questo ricevono silenziose pressioni e velate minacce. La vita quotidiana dei magistrati ? fatta di tante storie come queste. La scelta di battersi in nome della legge comporta rischi, paure e rinunce, quasi sempre sconosciuti all'opinione pubblica. In questo libro, Lionello Mancini dà voce a cinque toghe e alle loro storie di caparbietà, lotta, fatica e ideali forti, offrendoci allo stesso tempo un quadro esaustivo del mondo giudiziario italiano, utile a comprendere cosa significhi oggi, in questo Paese, lottare ogni giorno per un po' di Giustizia.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817050135
eBook ISBN
9788858648452

1
Lucia Musti

Giovedì 2 marzo 2006. Lucia Musti è in casa quando squilla il telefono.
«Pronto?» risponde Chiara, 15 anni, la figlia nata dal primo matrimonio e che vive con la magistrato e il suo secondo marito. «Mamma, è per te!» dice la ragazza allungando il braccio con la cornetta in mano.
«Sì? Chi parla?»
«A Luci’, ciao so’ io» dice dall’altra parte del filo la voce familiare di Giovannini, il collega dall’inconfondibile cadenza romanesca.
«Ciao Valter.»
«A Luci’, ma lo sai che si so’ portati via un bambino a Parma?»
«No, non lo sapevo.»
«Mah… vedi mai che è una roba nostra. Senti, ti volevo chiedere: chi di noi è di turno alla Dda?»
«Io o te, ma non ne sono sicura. Elisabetta l’ha fatto la settimana scorsa, quindi… Domattina vado in ufficio e controllo.»
Può sembrare strano che, quel giovedì di sette anni fa, Lucia Musti non sapesse chi fosse di turno alla Direzione distrettuale antimafia, la «Dda» nel gergo di Procura. Può sembrare strano, ma non lo era nemmeno tanto. Un turno lungo sette giorni, non di rado testimoniato solo dal cellulare di servizio che passa da un collega a un altro, un numero di telefono cui le forze dell’ordine devono rivolgersi per segnalare i casi di competenza. Anche se è una regione estesa, ricca e densamente popolata, in Emilia-Romagna esiste la sola Corte d’Appello di Bologna, cioè un unico distretto. Così, se i carabinieri di Salsomaggiore sorprendono dei delinquenti pronti a una rapina, per prima cosa li sbattono dentro e fanno rapporto al Pm di turno a Parma. Se poi, dai controlli, vien fuori che la banda è formata da persone che appartengono a una cosca o che hanno precedenti per mafia, allora i militari devono avvertire la Dda di Bologna, che apre un fascicolo, indaga e si occupa del caso fino al processo.
Alle Direzioni distrettuali antimafia, nate dall’idea di Giovanni Falcone, la legge ha via via assegnato altri compiti – anche non legati al crimine organizzato –, comunque sempre inerenti a reati molto gravi come i sequestri di persona a scopo di estorsione, la riduzione in schiavitù, il traffico organizzato di rifiuti. Ma anche con l’allargamento di competenze, si può ben comprendere come, nella paciosa Bologna, possa capitare di perdere il conto di turni così specifici. Anche se ovviamente è tutto scritto e organizzato perché la Polizia giudiziaria e i colleghi delle Procure della regione sanno sempre con chi parlare in caso di necessità.

Turno

Quando viene risucchiata dal rapimento di Tommaso Onofri, un piccolino di 18 mesi, Lucia Musti è da tre anni in servizio alla Dda di Bologna.
Nata per caso a Sabaudia, in Lazio, ma di sangue pugliese; magistrato dall’83 e da vent’anni Pubblico ministero, Lucia ha capelli biondi, è minuta, scattante, forte di una indiscussa capacità di lavoro e di un eloquio diretto, che non lascia spazio a equivoci. Può insomma vantare un modo di fare che la fa preferire a molti suoi colleghi dagli uomini e donne che un Pubblico ministero dirige ogni giorno, quando indaga o quando sbriga quel po’ di necessaria burocrazia che accompagna anche questa professione.
Ma è soprattutto nelle indagini che si coglie più netta la filigrana di un Pm, e quella di Lucia è filigrana buona: sarà per il padre carabiniere, sarà per la sua insopprimibile curiosità, sarà perché quel lavoro c’è chi lo ama e lo impara subito – come lei – e chi invece mai. Del resto, non le erano mancate esperienze «pesanti», come i tre anni spesi a Lanusei tra omicidi e sequestri di persona, o nella stessa Emilia, tra le efferatezze dei Bambini di Satana e i serial killer della Uno Bianca.
Certo, Bologna non è mai stata Reggio Calabria né Palermo. Non lo è nemmeno oggi e difficilmente potrà diventarlo, anche se i problemi non mancano.
Nel 2006 alla Dda c’erano soltanto tre magistrati, guidati dal Procuratore aggiunto Silverio Piro. Più che altro, sotto le Due Torri i Pm davano una mano a colleghi di trincee scavate molto più a sud, in distretti in cui si deve prestare attenzione a come si parla anche tra le mura dell’ufficio. Posti in cui per strada si gira con l’elmetto.
Per lo più, in Emilia-Romagna si scoprono e si annusano le tracce calde lasciate dagli opulenti affari locali, dalle società che aprono e chiudono in tre settimane (e vai a capire se hanno dipendenti e lavoro), dagli appalti pubblici per mense, pulizie, case, strade, vinti sempre dalle stesse ditte campane o siciliane.
In quegli anni, il turno esterno in Dda durava una settimana, quindi a Lucia toccava ogni quindici giorni. In pratica, dopo una settimana, il collega «smontante» passava all’altro il cellulare di servizio, al quale le chiamate di Polizia, Carabinieri e Guardia di finanza, quando c’erano, non si susseguivano a un ritmo propriamente frenetico.
Lucia si era seduta alla scrivania e subito aveva chiamato il collega di Parma Pietro Errede, di turno esterno al momento del sequestro. Un contatto di prammatica che sarebbe stato perfezionato – o lasciato cadere – a seconda dei contorni che avrebbe assunto la vicenda.
Fino a quel momento, per quanto riguardava il rapimento di Tommy, a parte le sommarie cronache sui giornali, non c’erano elementi che facessero pensare a un reato da Dda. Sì, d’accordo, sembrava fosse avvenuto un sequestro di persona, ma poteva trattarsi di una rapina andata troppo oltre, di una storiaccia di famiglia, del gesto di un pazzo.
Il fatto era avvenuto la sera prima a Casalbaroncolo, una frazione campagnola a una decina di chilometri da Parma. Verso l’ora di cena, in un casale sperduto in mezzo al bosco e in corso di ristrutturazione, la famiglia Onofri era stata aggredita da due uomini mentre era a tavola. Dopo aver staccato la corrente elettrica agendo sul contatore provvisorio del cantiere, i malviventi erano piombati in cucina con il viso coperto da un casco da motociclista, avevano legato con del grosso nastro adesivo i polsi del padre, della madre e del ragazzo più grande, Sebastiano, di 8 anni. Poi avevano strappato dal seggiolone il piccolo Tommaso ed erano scappati via tenendolo stretto in braccio. Perché proprio lui? Tommy il cucciolo di famiglia, Tommy paffuto, Tommy dagli occhi chiari e i riccioli biondi. Tommy malato di epilessia. I due malviventi, stando al racconto degli Onofri, non avevano detto una sola parola, avevano giocato sul fattore sorpresa e uno dei due – forse – brandiva un coltello.

Telefax

«Ciao Errede, come va? Sono la collega Musti, ti chiamo dalla Dda di Bologna. Volevo solo dirti che sono io la tua referente semmai avessi bisogno di qualcosa per il rapimento. Ma dimmi un po’, come siamo messi? Cosa sappiamo?»
Errede, di origini pugliesi, al suo primo incarico, aveva fornito qualche ragguaglio da cui la collega più esperta aveva percepito la grande concitazione che regnava a Parma, la tranquilla cittadina al centro di una provincia che più provincia non si può, un grande paese in cui basta molto meno del sequestro di un bambino per riempire di chiacchiere i bar e di titoloni i giornali locali.
Il clamore del fatto era sicuramente enorme, lo testimoniavano i caratteri cubitali di tutte le locandine nelle edicole; la «Gazzetta», cioè il vangelo di Parma, aveva già sguinzagliato i migliori cronisti per seguire il caso del piccolo Tommy. I genitori, con il loro avvocato, erano su tutti i tg a disperarsi e a implorare i rapitori di non far mancare a Tommy le medicine di cui aveva assoluto bisogno: «Per favore!» dicevano mostrando la scatola dei farmaci. «Per favore, dategli le medicine alle ore giuste, senza sbagliare e senza dimenticarvene. Grazie!»
«Ma tu guarda che coincidenza» aveva pensato Lucia, perché quello sciroppo le aveva ricordato uno dei tanti farmaci che prendeva il padre. «Dev’essere proprio malato, quel povero bambino…»
Dopo l’inutile caccia all’uomo che si era scatenata nelle ore successive al sequestro, la Procura di Parma aveva «messo sotto» un po’ di telefoni (si dice proprio così nei commissariati e nelle Procure), ma ancora non si capiva cosa fosse realmente accaduto e dunque le utenze da intercettare erano tante, il criterio di selezione necessariamente vago. Cos’altro? No, la famiglia non è ricca; sì, il padre di Tommy è il direttore di un ufficio postale e anche rappresentante di un sindacato di PosteItaliane; no, nemici noti non paiono averne. Magari nel giro di qualche ora il bimbo paffuto e malato sarebbe stato restituito. I sequestri di persona Lucia li aveva visti a Lanusei, in Ogliastra, dove era stata giudice istruttore quando aveva solo 27 anni. All’epoca il Codice affidava ai giudici istruttori il compito di indagare e ancora adesso, che di anni ne ha più di 50, lei ricorda bene quei rapimenti: veniva portata via e tenuta nascosta per mesi gente benestante o con parenti benestanti. Gente sana, non certo malata: comprare le medicine è rischioso, specie se le malattie sono «speciali», non comuni. E infine, per gestire un sequestro, Lucia sa che serve un gruppo di persone fidate, con tanto di medici a disposizione, perché l’ostaggio deve restare vivo e in salute. Se muore, non vale più niente…
In quei momenti, invece, Tommy era già morto e malamente sepolto sotto pochi centimetri di terriccio umido di bosco, in strada del Traglione, in riva a un fosso. Ai suoi rapitori erano saltati i nervi dopo nemmeno due ore.
La prima giornata del sequestro era trascorsa così, nel nulla dell’attesa. Lucia aveva sbrigato lavoro d’ufficio, si era occupata come sempre di suo padre e della figlia; solo, aveva prestato più attenzione di quanto fosse solita fare alle varie edizioni del tg. Perché intanto, a Parma, tutto taceva.
Poco dopo, però, la scena era cambiata completamente.
Con un telefax spedito nel cuore della notte e che Lucia avrebbe trovato l’indomani mattina in ufficio, una collega della Procura di Reggio Calabria, Beatrice Ronchi, informava «chi di competenza», che un collaboratore di giustizia detenuto sulla punta dello stivale, aveva fatto chiamare urgentemente un giudice, perché sapeva qualcosa sul rapimento di Casalbaroncolo, di cui aveva appreso guardando i telegiornali della notte. A sentire la notizia, l’uomo si era ricordato che pochi mesi prima, mentre si trovava in semilibertà a Parma, aveva raccolto voci a proposito di un gruppo di balordi che stavano preparando il rapimento della moglie e del figlio del direttore di un ufficio postale, un uomo pieno di soldi.
C’erano alcune differenze con l’accaduto, la mamma non era stata portata via: ma era possibile – anzi, probabile – che si trattasse proprio di quel caso.
Tre telefonate, molto diverse tra loro.
Era cominciato così, la mattina di quel sabato 4 marzo, un delirio che si sarebbe concluso solo il 1° aprile.
La prima telefonata, appena arrivata in ufficio e informata del telefax, l’aveva fatta Lucia. Aveva voluto anticipare alla Procura di Parma che ora esisteva a Bologna il fascicolo Dda «Sequestro di persona a scopo di estorsione ai danni di Onofri Tommaso»; li aveva informati che aveva già disposto il trasferimento immediato a Parma del collaboratore di giustizia calabrese e avvertito Errede che loro due avrebbero dovuto vedersi al più presto. Sarebbe salita lei a Parma e presto gli avrebbe fatto inviare le comunicazioni formali, ma intanto gliene aveva voluto parlare perché non c’era tempo da perdere.
Appena abbassata la cornetta, era arrivata la seconda telefonata.
«La dottoressa Musti?»
«Sono io.»
«Buongiorno dottoressa, qui è la casa di riposo. Suo padre non sta bene, ha un’epatite, va ricoverato in ospedale perché ha bisogno di cure che noi non possiamo garantire. Venga subito, per favore…»
La voce al telefono era pacata e gentile, ma l’effetto era stato quello di un pugno allo stomaco. Mentre la sua testa era già a Parma, le gambe l’avevano portata in pochi minuti alla casa di riposo.
Da tempo suo papà comunicava senza parole comprensibili, più spesso con il solo sguardo; il povero vecchio, malato da vent’anni, aveva già perso l’uso delle gambe. Lì, nel corridoio della casa di riposo – tra una chiamata e l’altra per trovare un letto d’ospedale – Lucia si affacciava alla sua stanza e provava pena per l’uomo che ora aveva bisogno proprio di lei perché la sorella minore Emma, avvocato, viveva da tempo in Sicilia, con il marito e il figlio.
L’ufficio, la sua abitazione, la casa di riposo: tutto nel raggio di 500 metri. In quel triangolo si svolgeva la sua vita di impegni di lavoro, di cure familiari – «c’è sempre stata in tavola una minestra calda per mia figlia e mio marito, anche nei momenti di lavoro folle» – e della degenza del vecchio padre colpito da una grave malattia neurologica debilitante. Alto ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, con la divisa cucita sulla pelle – come amano dire nell’Arma –, un senso del dovere ferreo, per anni agli ordini del generale Dalla Chiesa, un amore paterno serrato in un concetto di disciplina d’altri tempi, il padre di Lucia era scampato a mille agguati ma, a soli 55 anni, non era riuscito a sfuggire a quello tesogli da una neuropatia più cattiva dell’Alzheimer…
La vibrazione del cellulare silenziato aveva annunciato la terza telefonata. «Magari abbiamo trovato il letto d’ospedale» aveva pensato Lucia alzandosi di scatto e allontanandosi dal capezzale del padre, per parlare senza disturbarlo.
Invece sullo schermo stava lampeggiando il nome «Piro Dda», il Procuratore aggiunto, il suo capo.
«Ciao Lucia, che stai facendo? Sei a Parma?»
«No, Procuratore, sono ancora a Bologna. Ho un’emergenza.» Gli aveva detto quale. Poi lo aveva informato nel dettaglio del fax da Reggio, di cui gli aveva già parlato appena lo aveva ricevuto, sommariamente. Aveva anche riassunto le attività svolte fino a quel momento, dall’apertura del fascicolo Dda alle ultime telefonate con Parma.
«Ora sono qui con mio padre, per questo parlo piano. Sto aspettando di sapere se mi hanno trovato una stanza in ospedale.»
Il suo capo era chiaramente stupito, contrariato, lo aveva capito perché aveva già provato un paio di volte a interromperla.
«Ma come sei a Bologna?! Ah, sì, tuo padre… mi dispiace. Però… tu capisci, vero? Se non vai subito a Parma devo mandare qualcun altro: a Casalbaroncolo c’è mezza Italia, ci sono il Servizio centrale operativo [Sco] della Polizia, il Raggruppamento operativo speciale [Ros] dei Carabinieri. Insomma bisogna prendere in mano la cosa e non possiamo non dare il nostro aiuto. Allora? Vai?»
Lucia voleva bene al suo capo, una persona perbene che stimava e da cui era stimata, basta leggere le note di servizio che le aveva sempre dedicato. Lo sapeva, i capi sono così: quando fai bene il tuo lavoro, tieni i piedi in mille scarpe e gli occhi su settecento fascicoli all’anno; quando risolvi in poche ore un caso che ha fatto gridare di orrore i giornali locali, ma senza smarcarti dal turno di udienza delle direttissime; quando gli avvocati non vanno a lamentarsi perché tu non li ricevi e quando ti metti in ghingheri per sostituirlo a una cerimonia in Prefettura, allora negli occhi del capo vedi la gratitudine e l’affetto, ti pare di aver costruito con lui un legame che nessuno potrà mai scuotere; tu e il tuo capo siete un tutt’uno, una squadra efficiente per cui non ci sono ostacoli insuperabili e le soluzioni prima o poi arrivano.
Per questo aveva provato delusione e fastidio quando la sua voce concitata l’aveva raggiunta al cellulare. Con il cuore e la testa ingombri del padre, la voce del capo nel silenzio della casa di riposo le era parsa il fendente sferrato da un amico dal quale ti aspetti invece sostegno e comprensione.
Ma così sono i capi, e Lucia non dimentica quello che ha imparato da lui, anche quella mattina. Perché si impara tanto a forza di sorrisi e gratificazioni quanto di calci e ferite sanguinanti.
«Vado subito, Procuratore. Non preoccuparti. Vado subito.» E aveva chiuso il telefono stizzita per tanta ingiusta indifferenza. Ma aveva deciso. Era insieme arrabbiata ma anche serena. In fondo, suo padre avrebbe fatto lo stesso, anzi lo aveva fatto mille volte: perché il dovere è dovere.
Per fortuna, poco dopo era saltato fuori un letto al Sant’Orsola e si era anche resa disponibile la donna che da anni assisteva privatamente l’anziano genitore; era pronta a stare con lui, anche ad accompagnarlo sull’ambulanza nel trasferimento dalla casa di riposo alla clinica.
Un salto a casa per cambiarsi d’abito, per avvertire di persona la figlia del nuovo impegno che l’avrebbe tenuta lontana per qualche ora o anche più e una telefonata alla polizia perché le mandasse un’auto che l’accompagnasse a Parma.

Muratori

A Parma, la prima tappa era stata la Questura, precisamente gli uffici della Squadra mobile dove i funzionari avevano convocato il papà di Tommy per sentirlo nuovamente sulla dinamica della maledetta serata. E quello era stato il primo incontro con Paolo Onofri: lo aveva potuto osservare mentre, seduto nell’ufficio del dirigente della Mobile, ricostruiva per la terza o quarta volta l’accaduto di due sere prima, l’incursione e il ratto avvenuti nella cucina di casa.
Aveva ragione, Piro: a Parma c’erano tutti. Sia per la gravità del fatto, sia perché in due giorni la grancassa mediatica era diventata martellante. Era arrivato persino Gilberto Calderozzi, il capo del Servizio centrale operativo della polizia, un uomo esperto e affabile, con la sigaretta accesa perennemente in bocca; c’erano i capi del Ros, venuti da Bologna per dare manforte agli uomini di stanza nell’area; e proprio a Parma ha sede il Reparto investigativo speciale (Ris), l’avveniristica sezione scientifica dell’Arma agli ordini del suo storico comandante, il colonnello Luciano Garofano.
Strano uomo, l’Onofri, aveva subito pensato Lucia. Grande, grosso, i modi guasconi. Non esitava né bal...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Prefazione di Giuseppe Pignatone
  6. Introduzione
  7. 1. Lucia Musti
  8. 2. Marco Ghezzi
  9. 3. Fabio Di Vizio
  10. 4. Alessandra Dolci
  11. 5. Cuno Jakob Tarfusser
  12. Ringraziamenti