Memorie
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Memorie

  1. 400 pagine
  2. Italian
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Informazioni su questo libro

La vita e le imprese, dalla giovinezza alla maturità, di uno dei più noti eroi del Risorgimento. Scritte a più riprese tra il 1849 e gli anni dell'esilio a Caprera, queste Memorie autobiografiche presentano un Garibaldi diverso e forse più grande di quello che ci consegna la leggenda: non un eroe proteso esclusivamente all'azione, ma una personalità dotata di acuto senso politico e di autentico genio militare, accompagnati sempre da un profondo impegno morale. Non solo, rivelano anche un insospettato talento di scrittore, che sa rendere con immediatezza quasi visiva eventi drammatici, grazie a un linguaggio tanto ribelle alle regole quanto aderente alla realtà. Completano l'opera alcuni Scritti politici che si riferiscono al periodo post-unitario e contengono importanti interventi di Garibaldi su questioni di attualità.

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Informazioni

REVISIONE DELLE MIE MEMORIE

Caprera, 7 decembre 1871

PRIMO PERIODO

1807-1848

I MIEI GENITORI

Io non devo dar principio a narrare della mia vita senza far cenno de’ miei buoni genitori, il di cui carattere ed amorevolezza tanto influirono sull’educazione mia e sulle disposizioni del mio fisico.
Mio padre, figlio di marino e marino lui stesso dall’età più tenera, non avea certamente quelle cognizioni di cui sono fregiati gli uomini del suo ceto nella generazione nostra.
Giovine, aveva servito sui bastimenti di mio avo; più avanti, aveva comandato bastimenti propri.
Vari erano stati i periodi della di lui fortuna, e non di rado, lo udii raccontare che più agiati avrebbe potuto lasciarci. Io però le sono riconoscentissimo del come mi ha lasciato, ben persuaso, ch’ei nulla trascurò per educarmi, anche in tempi, ove scaduto di fortuna, l’educazione dei figli disagiava certo l’onestissima sua esistenza.
Se mio padre, poi, non mi fece dare più colta educazione, esercitare nella ginnastica, scherma, ed altri esercizi corporei, fu piuttosto colpa dei tempi; in cui grazie agli istitutori chercuti, propendevano piuttosto a far della gioventù tanti frati e legali, anziché buoni cittadini, capaci di professioni virili ed utili, ed atti a servire il loro devastato paese.
D’altronde era sviscerato l’amor suo pei figli, e quindi temente non si spingessero a bellici divisamenti.
Tale trepidazione dell’amato mio padre, prodotta da soverchio affetto, è forse l’unico rimprovero da farli, giacché per timore di espormi troppo giovane ai disagi ed ai pericoli del mare, egli mi trattenne, contrariamente all’indole mia, sino verso i quindici anni senza permettermi di navigare.
E non fu savia determinazione, essendo io, oggi, persuaso che un marino deve cominciare la carriera giovanissimo, se possibile prima degli otto anni, essendo in tale pratica maestri i genovesi e gl’inglesi massime.
Far studiare i giovani destinati al mare, a Torino, o a Parigi, ed inviarli a bordo oltre i vent’anni, è sistema pessimo. Io credo meglio far fare i loro studi a bordo e la pratica di navigazione nello stesso tempo.
E mia madre! Io asserisco con orgoglio poter essa servir di modello alle madri. E credo con questo aver detto tutto.
Uno dei rammarichi della mia vita sarà quello di non poter far felici gli ultimi giorni della mia buona genitrice, la cui vita ho seminato di tante amarezze colla mia avventurosa carriera.1
Soverchia è forse stata la di lei tenerezza per me. Ma non devo io all’amor suo, all’angelico di lei carattere, il poco di buono che si rinviene nel mio?
Alla pietà di mia madre verso il prossimo, all’indole sua benefica e caritatevole, alla compassione sua gentile per il tapino, per il sofferente non devo io forse la poca carità patria, che mi valse la simpatia e l’affetto de’ miei infelici ma buoni concittadini?
Oh! abbenché non superstizioso certamente, non di rado, nel più arduo della strepitosa mia esistenza, sorto illeso dai frangenti dell’Oceano, dalle grandini del campo di battaglia... mi si presentava, genuflessa, curva, al cospetto dell’Infinito, l’amorevole mia genitrice, implorando per la vita del nato dalle sue viscere!... Ed io benché poco credente all’efficacia della preghiera, n’ero commosso! felice! o meno sventurato!

I MIEI PRIMI ANNI

Nacqui il 4 luglio 1807 in Nizza marittima, verso il fondo del porto Olimpio, in una casa sulla sponda del mare.
Io ho passato il periodo dell’infanzia, come tanti fanciulli, tra i trastulli, le allegrezze ed il pianto, più amico del divertimento che dello studio.
Non aprofittai il dovuto delle cure, e delle spese in cui s’impegnarono i miei genitori2 per educarmi. Nulla di strano nella mia giovinezza. Io ebbi buon cuore, ed i fatti seguenti benché di poca entità, lo provano.
Raccolto un giorno al di fuori un grillo, e portatolo in casa, ruppi al poveretto una gamba nel maneggiarlo: me ne addolorai talmente, che, rinchiusomi nella mia stanza, io piansi amaramente per più ore.
Un’altra volta, accompagnando un mio cugino a caccia nel Varo,3 io m’era fermato sull’orlo d’un fosso profondo, ove costumasi d’immergervi la canapa, ed ove trovavasi una povera donna lavando panni.
Non so perché, quella donna cadette nell’acqua a testa prima,4 e pericolava la vita. Io, benché piccolino ed imbarazzato con un carniere, mi precipitai, e valsi a trarla in salvo.
Ogni qual volta poi trattossi della vita d’un mio simile, io non fui restio giammai, anche a rischio della mia.
I primi miei maestri furon due preti; e credo l’inferiorità fisica e morale della razza italica provenga massime da tale nociva costumanza. Del sig. Arena, terzo mio maestro d’italiano, calligrafia, e matematica, conservo cara rimembranza.
Se avessi avuto più discernimento ed avessi potuto indovinare le future mie relazioni cogli inglesi, io avrei potuto studiare più accuratamente la loro lingua, ciocché potevo fare col mio secondo maestro il padre Giaume, prete spregiudicato, e versatissimo nella bella lingua di Byron.
Io ebbi sempre un rimorso di non aver studiato dovutamente l’inglese, quando lo potevo, rimorso rinato in ogni circostanza della mia vita in cui mi son trovato cogli inglesi.
Al terzo laico istitutore il sig. Arena, io devo il poco che so, e sempre conserverò di lui cara rimembranza, soprattutto per avermi iniziato nella lingua patria, e nella storia romana.
Il difetto di non esser istruiti seriamente nelle cose, e nella storia patria è generale in Italia, ma in particolare a Nizza, città limitrofa, e sventuratamente tante volte sotto la dominazione francese.
In cotesta mia città natìa, sino al tempo in cui scrivo (1849), non molti sapevano d’esser italiani; la grande affluenza di francesi, il dialetto che tanto si somiglia al provenzale; e la noncuranza de’ governanti nostri, del popolo, occupandosi solo di due cose: depredarlo e toglierli i figli per farne dei soldati, tutti motivi da spingere i nizzardi all’indifferentismo patriottico assoluto, e finalmente a facilitare ai preti ed a Buonaparte lo svellere quel bel ramo della madre pianta nel 1860.5
Io devo dunque, in parte, a quella prima lettura della nostra storia, ed all’incitamento di mio fratello maggiore Angelo,6 che dall’America mi raccomandava lo studio della mia, e più bella tra le lingue, quel poco che sono pervenuto ad acquistarne.
Io terminerò questo primo periodo della mia vita colla laconica narrazione d’un fatto, primo saggio dell’avventure avvenire.
Stanco della scuola, ed insofferente d’un’esistenza stanziaria, io propongo un giorno a certi coetanei compagni miei di fuggire a Genova, senza progetto determinato, ma in sostanza per tentare fortuna. Detto, fatto: prendiamo un battello, imbarchiamo alcuni viveri, attrezzi da pesca; e voga verso levante. Già erimo all’altura di Monaco, quando un corsaro,7 mandato dal mio buon padre, ci raggiunse, e ci ricondusse a casa, mortificatissimi.
Un abate avea svelato la nostra fuga. Vedete che combinazione: un abate, l’embrione d’un prete, contribuiva forse a salvarmi, ed io tanto ingrato da perseguire quei poveri preti. Comunque un prete è un impostore; ed io mi devo al santo culto del vero. [...]

I MIEI PRIMI VIAGGI

Oh! come tutto è abbellito dalla giovinezza ardente di lanciarsi nelle avventure dell’incognito! Com’eri bella, o Costanza !8 , su cui dovevo solcare il Mediterraneo, quindi il Mar Nero, per la prima volta!
Gli ampi tuoi fianchi, la snella tua alberatura, la spaziosa tua tolda e sino al tuo pettoruto busto di donna,9 rimarranno impressi sempre nella mia immaginazione.
Come dondolavansi graziosamente quei tuoi marini sanremesi, vero tipo de’ nostri intrepidi liguri!
Con che diletto, io mi avventava al balcone per udire i loro popolari canti, gli armonici loro cori. Essi cantavano d’amore e m’intenerivano. m’inebbriavano, per un affetto allora insignificante. Oh! se mi avessero cantato di patria, d’Italia, d’insofferenza, di servaggio! E chi aveva insegnato loro ad esser patrioti, italiani, militi della dignità umana? Chi ci diceva a noi giovani, che v’era un’Italia, una patria da vendicare, da redimere? Chi? I preti, unici nostri istitutori! [...]
Intanto l’addolorata madre mia, preparavami il necessario per il viaggio a Odessa, col brigantino10 Costanza, capitano Angelo Pesante di Sanremo, il miglior capitano di mare, ch’io m’abbia conosciuto. [...]
Feci il mio primo viaggio a Odessa. Cotesti viaggi son diventati così comuni, che inopportuno sarebbe lo scriverne.
Il mio secondo viaggio lo feci a Roma, con mio padre, a bordo della propria tartana,11 Santa Reparata.
Roma! E Roma... non dovea sembrarmi se non la capitale d’un mondo! Oggi, la capitale della più odiosa delle sètte!
La capitale d’un mondo, dalle sue ruine, sublimi, immense, ove si ritrovano affastellate le reliquie di ciò ch’ebbe di più grande il passato!
Capitale d’una sètta, un dì, di seguaci del Giusto, liberatore di servi! istitutore dell’uguaglianza umana, da lui nobilitata, benedetto da infinite generazioni, con sacerdoti, apostoli del diritto de’ popoli; oggi degenerati, trattanti, vero flagello dell’Italia, che vendettero allo straniero settanta e sette volte!
No! La Roma, ch’io scorgevo nel mio giovanile intendimento, era la Roma dell’avvenire; Roma! di cui giammai ho disperato: naufrago, moribondo, relegato nel fondo delle foreste americane!
La Roma dell’idea rigeneratrice d’un gran popolo! Idea dominatrice, di quanto potevano ispirarmi il presente ed il passato, siccome dell’intiera mia vita! [...]
Roma è il simbolo dell’Italia una, sotto qualunque forma voi la vogliate. E l’opera più infernale del papato era quella di tenerla divisa, moralmente e materialmente.12

ALTRI VIAGGI

Alcuni viaggi ancora io feci con mio padre: quindi un viaggio a Cagliari, col capitano Giuseppe Gervino, brigantino Enea.
In quel viaggio fui spettatore d’un tremendo naufragio, la di cui memoria mi rimane incancellabile.
Al ritorno di Cagliari, erimo giunti sul capo di Noli,13 e come noi, vari bastimenti, fra i quali un felucio14 catalano.
Da vari giorni minacciava il libeccio, e grossissimo n’era il mare; quindi, si scagliò il vento con tanta furia da farci appoggiare in Vado15 essendo pericoloso di entrare nel porto di Genova con tale uragano.
Il felucio da principio galleggiava mirabilmente, e sostenevasi, da far dire ai nostri marinari più provetti: esser preferibile trovarsi a bordo di quello.
Ma dolorosissimo spettacolo, dovea presentarci ben presto, quella sventurata gente!... Un orrendo maroso rovesciò il loro legno, e non vidimo più che alcuni individui sul suo fianco superiore, stender le braccia, e sparire travolti nel frangente d’un secondo più terribile ancora.
Avea luogo, la catastrofe, verso il nostro giardino di destra,16 quindi impossibile ajutare i miseri naufraghi.
I barchi che dietro di noi venivano, furono pure nell’impossibilità di soccorrerli, essendo troppa la violenza della bufera, e l’agitazione del mare: e miseramente perivano nove individui della stessa famiglia (ciocché si seppe poi). Alcune lacrime sgorgarono dagli occhi dei più sensibili, al miserando spettacolo, esauste presto dall’idea del proprio pericolo.
Da Vado in Genova, quindi in Nizza; ove principiai una serie di viaggi in Levante ed altrove, con bastimenti della casa Gioan.
Viaggiai a Gibilterra ed alle Canarie, col Coromandel, nave del sig. Giacomo Galleano, comandata dal suo nipote capitan Giuseppe dello stesso nome, di cui conservo grata memoria.
Tornai poi ai viaggi di Levante. Ed in uno di quelli col brigantino Cortese, capitano Carlo Semeria, rimasi ammalato a Costantinopoli. Il bastimento partì; e, prolungandosi la malattia più del creduto, io mi trovai alle strette.
In qualunque circostanza di strettezza o di pericolo, mai mi sono sgomentato.
Io ho avuta molta fortuna nell’incontro d’individui benevoli da interessarsi alla mia sorte. [...] La guerra accesa tra la Russia e la Porta contribuì a prolungare il mio soggiorno in Costantinopoli.17 In tale periodo, mi successe per la prima volta impiegarmi a precettore di ragazzi, offertomi dal sig. Diego, dottore in medicina, e che mi presentò alla vedova Timoni, che ne abbisognava.
Entrai in quella casa maestro di tre ragazzi, e profittai di tale periodo di quiete per studiare un po’ di greco, dimenticato poi, siccome il latino che avevo imparato nei prim’anni.
Ripresi quindi a navigare, imbarcatomi col cap.no Antonio Casabona: brigantino Nostra Signora delle Grazie.
Quel bastimento fu il primo ch’io comandai da capitano, in un viaggio a Maone, e Gibilterra,18 di ritorno, a Costantinopoli.
Io salterò la narrazione del resto de’ miei viaggi in Levante, non essendomi accaduto in quelli cosa importante.
Amante passionato del mio paese, sin dai primi anni, e insofferente del suo servaggio, io bramavo ardentemente iniziarmi nei misteri del suo risorgimento. Perciò cercavo ovunque libri, scritti che della libertà italiana trattassero, ed individui consacrati ad essa.
In un viaggio a Taganrog, m’incontrai con un giovane ligure, che primo mi diede alcune notizie dell’andamento delle cose nostre.19
Certo non provò Colombo tanta soddisfazione alla scoperta dell’America, come ne provai io al ritrovare chi s’occupasse della redenzione patria. Mi tuffai corpo e anima in quell’elemento, che sentivo esser il mio da tanto tempo: ed in Genova il 5 febbraio 1834, io sortivo da porta della Lanterna alle 7 p.m., travestito da contadino, e proscritto.20
Qui comincia la mia vita pubblica: e pochi giorni dopo, leggevo per la prima volta il mio nome su d’un giornale. Era una condanna di morte al mio indirizzo, rapportata dal «Popolo Sovrano» di Marsiglia.21
Stetti inoperoso in Marsiglia alcuni mesi.
Un giorno, imbarcato da secondo22 a bordo dell’Unione (brigantino marcantile francese), capitano Francesco Gazan, mi trovavo verso sera nella camera, vestito in gala per scendere a terra. Udimmo un romore nell’acqua del porto, e ci affacciammo, il capitano ed io, ad ambi i balconi. Un individuo si annegava sotto la poppa del brigantino, tra questa e il molo; io mi lanciai, e con molta fortuna salvai la vita al francese: spettatrice una immensa popolazione plaudente.
Era il salvato Giuseppe Rambaud quattordicenne.
Io ebbi la guancia bagnata dalle lagrime di gratitudine d’una madre, e la benedizione d’una famiglia intiera.23
Anni prima, sulla rada di Smirne, avevo avuto la stessa fortuna col mio amico e compagno d’infanzia Claudio Terese.
Un viaggio ancora coll’Unione nel Mar Nero; uno in Tunis con una fregata da guerra, costrutta in Marsiglia per il Bey; quindi, da Marsiglia a Rio-Janeiro col Nautonier,24 brigantino di Nantes, cap.no Beauregard.
Nel mio ultimo soggiorno in Marsiglia, ov’ero ritornato da Tunis, con un barco da guerra tunisino, ferveva in quella città il cholera, facendo strage grandissima.
Eransi istituite delle ambulanz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. AVVERTENZA
  5. NOTA BIBLIOGRAFICA
  6. PREFAZIONE ALLE MIE MEMORIE
  7. REVISIONE DELLE MIE MEMORIE
  8. APPENDICE - SCRITTI POLITICI