Diario
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Diario

  1. 384 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Fin dall'inizio dei suoi studi universitari il giovane Soeren inizia a distinguersi per il suo fervido ingegno e il suo carattere eccentrico. Il profitto scolastico non eccellente, i contrasti con la famiglia che lo accusa di spendere troppi soldi, i rimproveri del padre desideroso di vedere il figliol prodigo sostenere l'onorevole esame di teologia lascerebbero pensare a una persona dissoluta e incostante. Ma la sua vita disordinata era solo la maschera di profondi conflitti interiori, una lotta perennemente alimentata dal grande paradosso della verità cristiana. La storia personale di Kierkegaard che emerge dalle pagine del suo Diario rivela tutte le più sottili articolazioni della sua filosofia, e insieme l'anima di un uomo per cui la vita e il pensiero furono la stessa cosa.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817173308
eBook ISBN
9788858649343

Parte prima

LA CRISI DELLA VITA

PREMESSA

L’intreccio della vita di Kierkegaard, si proietta in tutta la sua produzione, non solo nel Diario, ma anche negli scritti pseudonimi e nei Discorsi edificanti. Già i Diapsalmata, che aprono la serie dei saggi estetici di Aut-Aut (1843), scintillano di accenti velati o scoperti ai problemi e casi della sua vita privata che la sua malinconia o spleen si dilettava — com’egli stesso confessa — a crogiolare e il suo humor a risolvere o piuttosto a dissolvere. I protagonisti poi di Timore e tremore e della Ripetizione non sono tanto Abramo e Giobbe e neppure soltanto suo padre, ma è lui stesso nel suo «rapporto sacrificale» al Cristianesimo ossia nel destino di vittima, della dedizione totale all’idea che questo esige. Il frammento autobiografico, fortemente idealizzato e ad un tempo drasticamente rivelatore, dal titolo Johannes Climacus ovvero de omnibus dubitandum (1842-43), che qui riportiamo, è detto «un racconto» e narra con un virtuosismo esasperante la forza di trascinamento che la dialettica delle idee aveva sul giovanetto alle prese con le prime impressioni della vita. Gli Stadi sulla via della vita (1845) riprendono le file di questa dialettica fissandola nei momenti cruciali e drammatici con efficaci e sorprendenti richiami soprattutto al mondo biblico in spirituale continuità con gli scritti precedenti: non a caso l’intera opera è composta in forma di un diario ideale. Il potente intermezzo filosofico di Johannes Climacus (Briciole e Postilla) esprime il suo impegno di chiarire, a soluzione e compimento della precedente dialettica della vita, la dialettica della ragione in direzione della fede; così come Anticlimacus (Malattia mortale; Esercizio del Cristianesimo) mostrerà l’impegno radicale che il Cristianesimo esige da un cristiano coerente.
I momenti della vita, toccati in questa prima parte, mostrano l’humus dal quale spuntano e nel quale s’intrecciano i temi del suo pensiero. Essi rivelano insieme, e Kierkegaard stesso lo dice espressamente, il vero protagonista del suo aspirare, la fonte dei suoi turbamenti e delle sue speranze, ch’è Dio: più precisamente l’uomo e Dio, non però nel senso di un’antropologia orizzontale qual è oggi di moda — con estrema confusione degli spiriti — ma come dialettica della libertà nella tensione di finito-infinito e di tempo-eternità. Un testo del 1854 richiama quest’intreccio di biografia trascendentale che non ha riscontro per il contrasto ed il consenso ch’egli sa dare dall’alto del suo punto di osservazione:

Su me stesso

Una volta la mia situazione era questa. Ciò che mi gravava sulle spalle era quel tormento ch’io posso chiamare il mio pungolo nella carne; tristezza, affanno dell’anima quanto a mio padre: affanno nel cuore quanto alla ragazza amata e a tutto ciò che vi si riferiva. Così pensavo che in confronto degli uomini in generale, potevo dire di aver addosso un fardello piuttosto pesante. Frattanto trovai tanta gioia spirituale nella mia attività, che anche quel peso che consiste nel dolore del proprio peccato non mi faceva tuttavia chiamare la vita che menavo, una sofferenza.
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SU ME STESSO

Quando dall’Albergo si passa il Ponte Nero (detto così perché in altri tempi qui s’era arrestata la peste) e si cammina per i campi brulli che si stendono lungo la spiaggia, dopo un quarto di miglio verso Nord si arriva ad un rialzo dominante, cioè al Gilbjerg. Quest’angolo è stato sempre fra i miei preferiti. E quando io mi trovavo lì in una sera tranquilla, quando il mare con una gravità calma ma profonda intonava il suo canto, quando l’occhio non s’imbatteva nel più tenue velo sull’immensa superficie ed il mare non aveva per limite che il cielo ed il cielo il mare, quando nel retroterra l’attività incessante della vita s’andava spegnendo e gli uccelli cantavano sul vespero la loro preghiera... spesso vedevo sorgere dalle tombe e venirmi incontro i miei cari morti, o meglio mi sembrava che morti più non fossero. In mezzo a loro mi trovavo così bene: un vero riposo fra le loro braccia, come se mi sentissi anch’io senza corpo e mi librassi con essi in un etere superiore. Ed ecco che il grido rauco del gabbiano mi scuoteva ricordandomi che ero solo; e mentre tutto svaniva dai miei occhi ed il cuore si faceva gonfio di malinconia, tornavo a mescolarmi al brusìo del mondo senza tuttavia obliare quei momenti di felicità. Quante volte dopo esser rimasto a meditare sulla mia vita passata e i diversi ambienti che hanno influito su di me, sulla grettezza di quanti così spesso ci urtano nella vita, su tutte le incomprensioni che tanto spesso dividono gli animi, mentre se riuscissero a comprendersi potrebbero legarsi con vincoli indissolubili: come allora tutto questo svaniva davanti al mio sguardo assorto in contemplazione! Quando insomma — così, in una visione prospettica — io non percepivo che le grandi linee, le più forti e così, senza perdermi nei particolari come spesso succede, abbracciavo l’insieme nella sua totalità: trovavo anche la forza di comportarmi diversamente, di confessare le mie colpe e di perdonare quelle degli altri. E mentre stavo lì, senza credermi per tristezza o scoraggiamento un’enclitica del mio ambiente abituale, senza neppure erigermi per orgoglio a principio costitutivo d’un piccolo cenacolo: mentre rimanevo così solo e abbandonato e l’impeto del mare e la violenza delle onde mi ricordavano il mio nulla, e d’altra parte il volo sicuro degli uccelli mi faceva venir in mente la parola di Cristo che «neppure un passero cade in terra senza la volontà del Padre Celeste» [Mt. 10, 29]: io provavo insieme e la mia grandezza e la mia piccolezza; e queste due grandi potenze, l’orgoglio e l’umiltà, alla fine si fondevano in me armoniosamente. Felice l’uomo per il quale questa unione è possibile ad ogni momento della vita; nel cuore del quale questi due fattori non contrastano, ma si tendono la mano per sposarsi, con uno sposalizio che non è né morganatico né di puro calcolo. Un’azione veramente intima, celebrata nel segreto più riposto dell’uomo, nel Santo dei Santi, alla presenza di pochissimi testimoni ma ove tutto si svolge sotto gli occhi di Colui che assisté, solo, al primo sposalizio nell’Eden e benedisse la prima coppia [Gen. 1, 21 ss.]: uno sposalizio che non sarà punto sterile ma porterà frutti benedetti, ben visibili all’occhio dell’osservatore sperimentato. Di questi frutti si può dire come delle crittogame nel mondo vegetale: esse sfuggono all’attenzione della folla e solo uno scienziato eminente le va a cercare e freme di gioia appena ne scopre qualcuna. La vita dell’uomo, di cui parlo, trascorrerà monotona e silenziosa senza che egli vuoti né la coppa dell’orgoglio inebriante né l’amaro calice della disperazione. Egli ha trovato ciò che quel Filosofo — i cui calcoli distrussero le macchine d’assalto dei nemici — agognò senza trovare: questo punto di Archimede da cui si potrà sollevare il mondo intero, un punto che per ciò non può essere che fuori del mondo, sciolto dai legami del tempo e dello spazio.
Da questo sito io ho visto il mare incresparsi alla brezza leggera e giocare con la rena; ho visto le creste spumeggianti scuotere tutta la superficie come una raffica di neve e ho inteso il rumoreggiare sordo della tempesta cominciare i suoi striduli sibili: qui, da questo sito, io ho visto, per così dire, la nascita e la fine del mondo, spettacolo che veramente impone silenzio. Ma a cosa mai servono queste espressioni, così di frequente profanate? Quanto spesso non vediamo queste biondine sentimentali, ninfe biancovestite e dall’occhio armato 1 di commozione contemplare tali spettacoli per poi sfogarsi in un’«ammirazione muta»? Quanto dissimili dalla giovanetta sana, felice e ingenua, che contempla questi spettacoli con l’occhio e la fronte puri! Anch’essa tace ma, come un tempo la Vergine Maria, essa li «conserva nel profondo dell’anima sua» [Lc. 2, 19. 51].
Per imparare la vera umiltà (con questa parola io intendo lo stato interiore di cui ora parlo), molto giova all’uomo il sottrarsi al rumore del mondo (non vediamo infatti che Cristo si ritira, sia al principio della sua via seminata di spine [Mt. 4, 1 ss.], come anche quando il popolo lo vuol proclamare re?) [Io. 6, 15] perché nella vita esteriore, l’impressione che deprime o quella che eleva, soverchia troppo perché si possa stabilire il vero equilibrio. Qui naturalmente l’individualità è spesso decisiva; perché come quasi ogni filosofo crede d’aver trovato la verità ed ogni poeta di aver toccato la cima del Parnaso, quanti se ne trovano pronti a legare, come parassiti, la propria esistenza ad un altro uomo per vivere e morire in lui (i francesi, p. es. con Napoleone!). Ma nel seno stesso della natura ove l’uomo, fuori dall’aria greve della vita cittadina, respira a pieni polmoni, l’anima si apre ad ogni nobile impressione. Qui l’uomo incede con maestà da signore della natura; sente anche in essa rivelarsi un non so che di più alto al cui cospetto è giocoforza piegarsi; prova una necessità di abbandonarsi alla Potenza che tutto regge (non voglio, è chiaro, parlare di quelli che nella natura altro non vedono che una massa informe, considerano il cielo come una campana di formaggio e gli uomini dei vermiciattoli penzoloni). Qui l’uomo sente ad un tempo la sua grandezza e la sua piccolezza, senza bisogno dell’osservazione di Fichte (nel suo Die Bestimmung des Menschen) del granello di sabbia come costitutivo del mondo: frase che rasenta la pazzia 2.
29 luglio 1835 44

La gente mi comprende così poco che non comprende neppure i miei lamenti perché non mi comprende.
febbraio 1836 68

Vengo ora da una riunione di società, dove ero l’anima; i motti di spirito scoppiettavano sulle mie labbra, tutti ridevano, mi ammiravano — ma io me ne andai. Ecco, qui ci vorrebbe un tratto lungo come il raggio della traslazione della terra ____________________________________________________ ____________________________________________________ ____________________________________________________ ed io qui me ne andai, deciso a bruciarmi le cervella.
18 aprile 1836 84
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13 giugno. La conversione procede lentamente. Bisogna, come dice giustamente Fr. Baader, percorrere a ritroso la stessa strada che si è fatta altra volta in avanti 3. Si perde facilmente la pazienza. Se la cosa non si risolve subito, ecco la tentazione di abbandonar tutto o di rimandare a domani e intanto per oggi spassarsela. Sarebbe forse questo il senso di quelle parole del Vangelo: «Il Regno di Dio è dei violenti»? [Mt. 11, 12].
Ecco perché sta scritto che noi dobbiamo «lavorare alla nostra salute con timore e tremore» [Philip. 2, 12]: perché non si tratta di un affare fatto o concluso ma di una cosa sempre precaria. Ed è certamente questa inquietudine che spinge tanti a cercare con tanto zelo il martirio: per abbreviare la durata della prova e concentrarla nel momento più intenso possibile, che è sempre più facilmente sopportabile di una lunga prova.
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Io aborro per principio cotesti briganti di mezza cultura. Quanto spesso nella conversazione, ho cercato — per evitarli — di mettermi vicino a qualche vecchia zitella che spende la vita nel raccontare le notizie di famiglia. E con la più grande serietà ho ascoltato tutto quello ch’essa mi scodellava.
148

Preferisco parlare con le vecchie signore che riportano chiacchiere di casa; poi con i dementi — in ultimo con la cosiddetta gente assennata.
149

Ecco, l’importante nella vita: aver visto una volta qualcosa, aver sentito una cosa tanto grande, tanto magnifica che ogni altra sia un nulla al suo confronto e anche se si dimenticasse tutto il resto, quella non la si dimenticherebbe mai più [...]!
174

O Dio, come facilmente si dimentica il proprio proposito! Eccomi tornato nel mondo per regnarvi ancora per qualche tempo, anche se detronizzato nell’intimo di me stesso. Oh! ma a che servirebbe guadagnarlo tutto intero e poi perdere l’anima? Anche oggi (8 maggio) ho tentato di dimenticarmi, non coll’ingolfarmi nel chiasso — questo succedaneo non mi è di aiuto alcuno — ma facendo visita ai Roerdam per parlare con la signorina Bolette, e cercando in tutti i modi di non aver al mio fianco il demonio della mia spiritosità, questo angelo dalla spada fiammeggiante che si intromette, per mia colpa, fra me e ogni innocente cuore di fanciulla. Ma Tu allora mi hai raggiunto! Grazie, o mio Dio, di non avermi gettato di colpo nella demenza (mai non ne ho sentito tanta paura): grazie per avere ancora una volta inclinato il tuo orecchio verso di me!
178

Anch’io unisco a modo mio il tragico col comico: dico facezie e la gente ride — ma io piango.
14 luglio 1837 205

La mia vita è purtroppo fatta al congiuntivo: fa’, o mio Dio, ch’io abbia una forza indicativa!
1 ottobre 1837 223

Se io preferisco tanto l’autunno alla primavera, è perché in autunno si guarda il cielo — in primavera la terra.
29 ottobre 1837 229

Tante volte mi viene il dubbio se, quando ringrazio Iddio per qualche cosa, non sia la paura di perderla che mi spinge a pregare, invece di farlo con quella religiosa sicurezza che ha vinto il mondo.
8 dicembre 1837 236

Io credo che se un giorno diventerò cristiano sul serio, dovrò vergognarmi soprattutto, non di non esserlo diventato prima, ma di aver tentato prima tutte le scappatoie.
8 dicembre 1837 237

Donde l’anima attinge la pace e la forza che infondono le fiabe? Quando mi sento stanco di tutto e «sazio di giorni» [Gen. 35, 29], le fiabe mi fanno l’effetto di un benefico bagno ristoratore. Qui cessan tutte, tutte le cure terrestri e finite; la gioia e la stessa tristezza diventano infinite (e proprio per questo allargano ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. NOTA BIBLIOGRAFICA
  5. AVVERTENZA
  6. Parte prima - LA CRISI DELLA VITA
  7. Parte seconda - LA CRISI DEL PENSIERO
  8. Parte terza - LA CRISI DELLA FEDE