L'orda nera
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L'orda nera

  1. 220 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Ogni tanto, sull'onda di un episodio di violenza, si torna a parlarne. La destra della destra, che non ha mai tagliato i legami con il passato nazifascista, è in continua espansione. Mentre l'ala istituzionale s'incamminava verso posizioni liberal-democratiche, una frangia multiforme ha proseguito senza deviare. E se negli stadi le teste rasate continuano a punteggiare le tifoserie, per le strade delle nostre città gli skinheads ostentano croci celtiche, svastiche e macabri simboli fin troppo eloquenti. Respingono il diverso. Minacciano. Picchiano. Talvolta uccidono. Una massa sommersa che lavora sul campo, insidia i capisaldi storici della sinistra, ne infiltra gli spazi vitali. E si organizza militarmente per combattere una nuova guerra civile, etnica e razziale. In tutto il mondo. L'orda nera racconta le nuove sigle, i luoghi, gli idoli, i riti, la storia e i miti di un movimento complesso, che conosce il web e cavalca il rock, che professa il rifiuto della globalizzazione, del cosmopolitismo, della contaminazione. In nome di una identità da affermare sopra tutto, da difendere a ogni costo. Per cui morire.

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Informazioni

Verso la guerra razziale planetaria
Le forze e gli obiettivi dell’Internazionale nera
Nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 2008, nei pressi di Klagenfurt, in Austria, una lussuosa Volkswagen Phaeston nera è lanciata a tutta velocità su un tratto di strada con il limite di 70 km orari. All’improvviso, l’auto sbanda, si gira più volte su se stessa, si schianta. L’uomo alla guida muore sul colpo. Quando gli agenti della polizia arrivano sul luogo dell’incidente, quasi non credono ai loro occhi. Sì, il corpo senza vita dell’autista è proprio quello del governatore della Carinzia, Joerg Haider: il «cavaliere nero» che, più di ogni altro, ha incarnato il volto della destra radicale in Europa. Dalle prime indagini risulta che il «nuovo Führer», ha nel sangue un tasso alcolemico di 1,8 per mille (il valore consentito in Austria è di 0,5) ed è morto da ubriacone, mentre stava ritornando a casa dopo aver festeggiato il compleanno di un amico in un locale gay. Sembrerebbe quasi un finale degno di un film di John Landis, il regista di The Blues Brothers, che fa morire in auto il capo di un gruppo neonazista americano, e proprio in quegli ultimi istanti di vita svela la natura del «grande guerriero» mostrandocelo mentre tiene teneramente la mano al suo autista. Ma Haider, l’uomo che ha spaventato il mondo agitando le insegne di un passato mai del tutto archiviato, non era certo personaggio da commedia.
Nato da genitori nazisti, bello, brillante, sportivo, abbronzato, indossava solo abiti e accessori firmati; tra i banchi di scuola sognava di fare l’attore. Come politico riusciva, con il suo carisma, a far passare messaggi pericolosissimi: elogiava in pubblico la politica sociale del Terzo Reich, si dichiarava filoarabo nella crisi mediorientale, chiedeva il pugno di ferro su immigrati e crimine. Parlava dell’Austria come di una «piccola patria», minacciata dall’Europa della moneta unica e delle istituzioni sovranazionali. E al progetto di Bruxelles ne opponeva un altro, fondato sulla valorizzazione dei particolarismi e sul federalismo etnico. Con Umberto Bossi e con lo svizzero Cristoph Blocher condivideva il progetto di un’Europa delle regioni, in cui il criterio di formazione delle singole entità territoriali è dato dall’omogeneità etnica. Un modo più elegante per affermare che la salvaguardia delle differenze è possibile evitando l’inquinamento e la contaminazione razziale portati dallo straniero. Il vento di Haider ha continuato a soffiare anche dopo la sua morte. Nelle elezioni del 2009, il partito da lui fondato, Bzeo (Lega per il futuro dell’Austria), ha stravinto le elezioni in Carinzia con un vero e proprio plebiscito che ha dato forza all’estremismo di destra in tutto il continente: l’ondata xenofoba e haideriana si è fatta sentire infatti anche nelle elezioni europee tenute in quello stesso anno.
Non è solo in Italia che avanza la legione nera. Forte di un clima culturale e politico favorevole, delle insicurezze che la multiculturalità porta con sé, delle paure per la crisi economica, il radicalismo fascio-nazista fa proseliti ovunque. Dopo averne indagato le sue radici storiche e culturali, dopo aver conosciuto alcuni dei cattivi maestri di ieri e di oggi che gli danno voce, dopo aver individuato gli spazi che intende occupare e i messaggi che veicola tra i giovani attraverso la musica, il web, le curve, è ora necessario rivolgere lo sguardo anche all’Europa e all’America, per capire l’estensione del fenomeno, la sua dimensione internazionale, l’humus di cui si nutre. E anche i suoi obiettivi.
Si è formata una vera e propria Internazionale nera della xenofobia che non nasconde il suo scopo, lo dichiara apertamente: combattere la «guerra etnica» planetaria che verrà, come più volte sono andati preannunciando teorici italiani, europei e americani, da Franco Freda a Guillaume Faye, giornalista e scrittore della nuova destra francese, fino a David Duke, già leader del Ku Klux Klan negli anni Settanta. Una guerra razziale che non è il frutto delle farneticazioni di pochi mâitre à penser, ma che è auspicata e amplificata sempre più a livello di massa anche attraverso internet (per esempio su www.forum.giovani.it) da giovani suprematisti bianchi neonazisti. Che scrivono, senza alcun pudore, proclami come questi:
L’appartenenza etno-razziale è il legame più forte che c’è spontaneamente fra gli esseri umani, perché sono il sangue e l’origine oltre allo spirito e ad una simile visione del mondo ad unire le persone fra di loro. Ad essere contro natura è la società multirazziale odierna che costringe all’integrazione forzata, portando necessariamente allo stato di polizia e al totalitarismo liberticida oltre che ad un sistema fondato sull’omologazione delle differenze. [...] L’odio razziale è un prodotto dell’antirazzismo e dell’imposizione della società multirazziale. L’unica soluzione per garantire un ordine più o meno pacificato sarebbe optare per la difesa di un mondo plurale e diversificato fondato sulla separazione etno-razziale. Altrimenti di questo passo, piaccia o non piaccia, si andrà dritti alla guerra razziale e di tutti contro tutti. Come B. Klassen, D. Lane, J. Raspail, G. Faye, F.G. Freda, S. Lorenzoni ecc. hanno profeticamente ipotizzato già da molto tempo.
Guerra inevitabile dunque, come sosteneva con largo anticipo Freda nel manifesto del suo disciolto Fronte nazionale,1 data la massa di immigrati che la «plutocrazia mondialista, che mira allo sradicamento delle diverse culture e al dirozzamento dei differenti popoli, per produrre un tipo generale subumano, aggregato in una massa mondiale che concepisca la vita come merce da consumare secondo il maligno modello capitalistico», sta dirigendo verso l’Occidente bianco. Guerra che vedrà la completa «disintegrazione del sistema». Quello che ormai si teorizza sempre più apertamente è infatti una «guerra civile etnica», in quanto combattuta da cittadini di uno stesso Paese su base razziale, ma su scala planetaria. Una razza contro l’altra in ogni singolo Paese e in tutto il mondo.
Il filo rosso che unisce infatti tutti i movimenti di estrema destra europei, ma anche i movimenti suprematisti americani, è – oggi come ieri – la difesa della razza e del suo spazio vitale contro il mondialismo omologante. Le strade d’Europa risuonano di parole d’ordine come salvaguardia dell’identità delle piccole patrie ma anche scissionismo e secessionismo, populismo xenofobo quando non razzismo, euroscetticismo o aperta eurofobia. Parole d’ordine che Joerg Haider ha contribuito con il suo carisma a diffondere e che risultano ormai sedimentate nella cultura e nella propaganda dell’Internazionale nera.
Ci si era già interrogati sull’effetto Haider in Europa quando – negli anni Novanta – il leader carinziano era nel pieno delle sue forze e del suo vigore e, oltre agli austriaci, anche il 15 per cento dei tedeschi si dichiarava fieramente «haiderista», quando la destra regionalista francese lo considerava un modello da seguire, e l’estrema destra veneta e altoatesina e soprattutto il Carroccio intrattenevano rapporti di amicizia con lui, vagheggiando una macroregione comprendente il Triveneto, la Slovenia e la Carinzia, accomunate da un ideale di «identità culturale e politica».
Nella sua parabola politica, il leader nazionalista austriaco è riuscito a tenere insieme tanto i nostalgici dei tempi degli Asburgo quanto i contadini che temono la concorrenza europea. Ma Haider non guardava solo all’Europa: aveva tessuto ottime relazioni coi Paesi arabomusulmani, dalla Libia all’Iraq ba‘thista, dimostrando un’ampia visione geopolitica declinata soprattutto in chiave antisemita. Oggi l’eredità Haider è un misto di regionalismo e fascismo, due visioni politiche che si scoprono sempre più spesso come due facce della stessa medaglia. Sono molti i partiti europei che, sotto l’etichetta regionalista, in realtà nascondono un’anima nera. E anche nella Lega di Umberto Bossi alligna una componente profondamente haideriana, tanto da far coniare a Georges-Henri Soutou sulla rivista di geopolitica «Limes», il neologismo di «haider-bossismo»,2 un misto di populismo e xenofobia, localismo e identitarismo, regionalismo ed euroscetticismo.
Fieramente antieuropeista, Haider ha sempre rifiutato «lo strapotere della lontana burocrazia senza volto di Bruxelles» in nome di tre parole d’ordine: «identità, tradizione e modernità». Come lui, gran parte della destra radicale non crede all’Europa di Bruxelles, definita da più parti come «l’Europa dei banchieri» o l’«eurolandia» della moneta unica che, per dirla con parole loro, sottrae autodeterminazione agli Stati europei senza riuscire a esercitare una sovranità propria. Un’Europa – quella di Maastricht – che non ha ministri ma commissari, non emana leggi ma direttive e non riesce neppure a chiamare i cittadini al voto e i commissari in aula. Un’Europa che è democrazia non della partecipazione ma dell’assenza e del vuoto.
L’Europa di Maastricht è dunque osteggiata in quanto «rappresenta la definitiva rinuncia a ogni reale autonomia da parte dei singoli Stati e dei singoli popoli a favore di un potere finanziario e monetario privato e sovranazionale», come scrive Sergio Gozzoli sulla rivista negazionista «l’Uomo libero».3 Per il teorico della nuova destra, al contrario, va salvaguardata la difesa della sovranità, dignità e indipendenza di un’Europa delle patrie contro il mercantilismo e la mondializzazione. Allo stesso modo vanno rifiutati la società multirazziale, per Gozzoli, «sintomo dell’uomo sradicato», l’individualismo, in quanto «premessa alla dissoluzione della famiglia», e il consumismo; e, di contro, vanno difese la vita e la famiglia, la cultura, le tradizioni e l’identità cristiana dell’Europa.
L’Europa in cui crede il popolo della destra radicale, in opposizione al mondialismo multirazziale, infatti, è «l’Impero europeo delle cento bandiere» – come si legge nei documenti programmatici di Forza nuova sul sito ufficiale – che riscopre il «mito imperiale» di un potere che non deriva dal «basso», dal popolo, ma discende dall’«alto», direttamente da Dio.
Un’«Europa delle Regioni» come quella teorizzata da de Benoist, in cui il federalismo etnico ruota intorno all’idea di Volksgemeinschaft, cioè la comunità etnica intesa come rimedio alla crisi di identità, allo spaesamento e allo sradicamento prodotti dalla globalizzazione. Per il teorico della nuova destra francese, infatti, l’Europa può realizzarsi esclusivamente sulla base di un modello federale portatore però di un modello imperiale. L’idea di impero come «vera patria» riprende il pensiero di Evola, basato sul rispetto delle identità e delle tradizioni delle comunità.
Ritorna inoltre anche il sogno di un’«Europa Imperiale» come quella immaginata dal belga Jean Thiriart. Prima nazionalbolscevico nel movimento Fichte Bund (fondato negli anni Quaranta da ex militanti di estrema sinistra diventati collaborazionisti) e legato all’associazione filonazista Les Amis du Grand Reich Allemande (tanto da arruolarsi come volontario nelle SS), nei decenni successivi teorico della nuova destra francese e al tempo stesso filocinese e fan del dittatore comunista rumeno Nicolae Ceausescu, Thiriart tracciava chiaramente addirittura i confini della sua «Europa Imperiale»: «né Occidente, né Oriente», ma «unita da Dublino a Vladivostok». L’Europa sognata da Thiriart guardava di buon occhio perfino all’orientamento eurasiatico socialista. Con la consapevolezza, come scriveva negli anni Sessanta in molti sui saggi,4 che nel giro di mezzo secolo il comunismo si sarebbe trasformato in una sorta di «comunitarismo», ossia in un socialismo legato alla comunità nazionale di appartenenza, figlio di un comunismo riformato e pronto a sostituire il capitalismo.
Tra gli eredi di Thiriart in Italia, il già citato professor Cludio Mutti è senza dubbio quello che oggi offre il contributo più originale. La sua «visione imperiale» ha come obiettivo politico la liberazione dell’Europa dal giogo americano e mondialista e la costruzione di una «grande Europa» continentale, ritenuta l’unica possibilità per far fallire il disegno egemonico americano. Questa Europa dovrebbe staccarsi dall’ottica americano-centrica, riacquistando una visione euro-centrica delle questioni culturali, storiche e politiche. Dovrebbe guardare a Sud e Sudest, stringere alleanze con i popoli nordafricani, mediorientali e con la Russia. Alleanze che però rispettino il principio dell’autodeterminazione dei popoli e che scongiurino il pericolo della contaminazione etnica favorita – secondo Mutti – da americani e sionisti. Contaminazione che genera inevitabilmente guerre etniche.
Fitta e non usuale la sua trama di rapporti internazionali. Parte dai «partigiani europei» dell’area franco-belga e arriva ai nazionalisti galiziani e celti scozzesi; si irradia poi nelle ex repubbliche sovietiche e nei Paesi islamici; e si intreccia, infine, con l’opposizione russa unita nel Fronte di salvezza nazionale, con il Movimento della Romania, erede della Guardia di ferro di Corneliu Z. Codreanu, e con ambienti vicini agli ayatollah iraniani. Mutti si schiera al fianco dei mujaheddin della Palestina, in quanto «avanguardie militanti di una lotta di liberazione continentale per espellere americani e sionisti dallo spazio euroasiatico e mediterraneo».5
Con il riacutizzarsi della crisi in Medioriente, nel 2009, gran parte della destra radicale europea si è mossa a sostegno della causa palestinese, in un’ottica antisionista e antimondialista. E quindi l’Iran di Mahmud Ahmadinejad, fomentatore dell’estremismo palestinese più duro, è considerato «il baluardo e la sentinella della lotta antimondialista»: con il suo territorio, che è quattro volte la superficie dell’Iraq, e la sua popolazione, che è tre volte quella irachena, può contenere lo strapotere del gigante americano e sionista. L’Iran è diventato un modello proprio perché nella politica delle sue componenti più fondamentaliste, antimondialismo e antisemitismo si fondono.
All’antisemitismo di marca occidentale va quindi ad aggiungersi quello sempre più radicato nei Paesi arabi. Dove, dalla fine della Seconda guerra mondiale, hanno trovato generosa ospitalità molti ex gerarchi e criminali di guerra nazisti. L’Islam – come documenta accuratamente Marco Dolcetta nel suo Gli spettri del Quarto Reich6 – era considerato un alleato dei nazisti tanto in chiave antisemita che antiamericana. Si pensi, per esempio, all’Egitto di Nasser, la cui organizzazione dei Servizi segreti era curata da agenti dell’intelligence hitleriana poi riciclati nella Stasi, il famigerato quanto efficiente Servizio d’informazioni della Germania comunista. E la stessa guardia del corpo del leader libico Gheddafi era addestrata e diretta da ufficiali della Stasi ex nazisti.
Un seme, quello dei nazisti sopravvissuti, che feconda anche l’America latina, già oggetto di attenzione da parte del Führer sin dal 1936 quando i sottomarini tedeschi solcavano l’Atlantico per giungere in Brasile, Argentina, Cile e Uruguay. In quest’ottica, quindi, non stupisca l’abbraccio del 2006 tra il presidente venezuelano Hugo Chavez e l’iraniano Mahmud Ahmadinejad nella prospettiva di un comune fronte antiimperialista e antisemita. Fronte che vede anche il ruolo ambiguo della Russia. Il cui leader, Vladimir Putin, in quello stesso anno vendette armi per un miliardo di dollari a Chavez e sponsorizzò il nucleare iraniano.
Per Tiberio Graziani, direttore della rivista «Eurasia», l’attuale fase storica segna l’inizio di un nuovo ciclo geopolitico, in cui la Russia ridiventa un attore mondiale che, insieme alla crescita economica della Cina e dell’India, da un lato decreta la fine della stagione unipolare a guida statunitense, dall’altro la nascita di un ordine planetario articolato su più poli. Putin è riuscito a rallentare l’espansionismo statunitense nel cuore dell’Eurasia grazie alla tessitura di speciali relazioni con l’India, la Cina, l’Iran e i Paesi centroasiatici.
Nell’aprile del 2009, in una Milano blindatissima, su invito di Forza nuova, si sono dati appuntamento per discutere sul tema «La nostra Europa: Popoli e Tradizioni contro banche e usura» i francesi del Front National, i neonazisti tedeschi del Nationaldemokratische Partei Deutschland di Udo Voigt (condannato nel suo Paese a quattro mesi di carcere per incitamento all’odio razziale e alla violenza) e gli ungheresi del Miep, il Partito della verità e della vita, particolarmente impegnati nel revisionismo storico sul movimento magiaro delle Croci frecciate filohitleriane. Partiti accomunati da una stessa visione dell’Europa e del mondo, tutti impegnati nella costruzione dell’Internazionale nera. Sogno che, prima di Joerg Haider, era stato coltivato da un altro leader storico del neofascismo, il francese Jean-Marie Le Pen. Nel 1998, era stato lui per primo a cercare di riunire sotto un’unica sigla l’Internazionale nera europea, con Euronat, Europa Nazione, progetto a cui aderirono immediatamente il partito italiano Forza nuova, il Partito nazionalista slovacco, il Vlaams Blok belga, il Fronte ellenico e la spagnola Democracia Nacional.
È da allora, al di là delle alleanze, che il vento di estrema destra soffia forte in Europa. Le elezioni del 2009 per il Parlamento di Strasburgo hanno segnalato che il fenomeno è omogeneo, anche se non ovunque l’estrema destra si presenta con lo stesso volto. Acquistano sempre più forza partiti che – pur non avendo un retroterra di destra radicale, come la Lega in Italia o il partito di Cristoph Blocher in Svizzera o il Leefbaar Nederland, Olanda vivibile di Pim Fortuyn (ucciso in un attentato il 6 maggio 2002, a nove giorni dalle elezioni politiche nazionali, che lo vedevano tra i favoriti) – hanno fatto propri alcuni temi simbolo soprattutto in materia di immigrazione. In molti Paesi, forti dei consensi ottenuti, sono proprio questi partiti a condizionare le coalizioni di governo e la loro politica: movimenti nati sull’onda della protesta contr...

Indice dei contenuti

  1. L’orda nera
  2. Copyright
  3. Introduzione: Il «soldato politico»
  4. Il fuoco sotto la cenere: I pestaggi e le «ronde nazionaliste»
  5. L’Araba Fenice: Vecchie sigle riciclate
  6. Il ritorno di Franco Freda: Ar, la casa editrice che forma i «soldati politici»
  7. I riti del legionario: La riscoperta della radice esoterica
  8. Vecchi valori e nuove parole d’ordine: Le guerre che contano
  9. Giovinezza al potere: La ricreazione è finita
  10. White power rock: Dalle fogne all’arena
  11. Il lato nero del web: La Rete di collegamento per diffondere idee razziste
  12. La palestra militare delle curve: Club calcistico che seleziona i capi legionari
  13. Verso la guerra razziale planetaria: Le forze e gli obiettivi dell’Internazionale nera
  14. Bibliografia
  15. Indice