Giovanni Falcone un eroe solo
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Giovanni Falcone un eroe solo

Il tuo lavoro, il nostro presente. I tuoi sogni, il nostro futuro.

  1. 202 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Giovanni Falcone un eroe solo

Il tuo lavoro, il nostro presente. I tuoi sogni, il nostro futuro.

Informazioni su questo libro

Da oltre vent'anni - da quando il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre uomini della scorta furono uccisi nella strage di Capaci - Maria Falcone si dedica a mantenere viva la memoria del fratello, e nella pagine drammatiche e struggenti di questo libro racconta per la prima volta la determinazione e i principi che lo guidavano, i suoi sogni per il Paese e la ricerca di normalità nella vita quotidiana. Nel ripercorrere le vicende cruciali del cammino di Giovanni Falcone - dagli anni del pool antimafia al maxiprocesso di Palermo, dall'impegno per creare una Superprocura in grado di agire con più efficacia contro la mafia all'amicizia con Paolo Borsellino - Maria rivela particolari inediti sulla vita e le scelte del fratello, e le sue parole, commoventi e tenaci, aprono una prospettiva unica per comprendere la grandezza di un eroe italiano che con il suo coraggio ha cambiato la storia del nostro Paese.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817066396
eBook ISBN
9788858649602

1
Figlio della Kalsa

«Sono nato nello stesso quartiere di molti di loro. Conosco a fondo l’anima siciliana. Da una inflessione di voce, da una strizzatina d’occhi capisco molto di più che da lunghi discorsi.»1
Giovanni Falcone
Anna, io e Giovanni siamo nati e abbiamo mosso i primi passi nel palazzo di via Castrofilippo 1, affacciato su piazza Magione, a Palermo. Era nel cuore della Kalsa, un quartiere un tempo, ancor prima dell’arrivo della nostra famiglia, abitato da nobili.
Oggi è difficile immaginare la magia che aveva la Kalsa quando noi eravamo piccoli, con i suoi palazzi sontuosi ed eleganti, le palme e insieme quell’atmosfera che riportava in ogni momento alle origini arabe del quartiere, testimoniate dal suo nome più antico al Halisah, che significa la Pura, l’Eletta. Oggi, dicevo, la Kalsa, sventrata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale e mortificata dalla ricostruzione fatta sulle sue macerie, è diventata come un suk sbiadito, senza più incanto.
Ricordo ancora con nostalgia quando mia sorella Anna e io ci affacciavamo al balcone: rimanevamo rapite a guardare la chiesa della Santissima Trinità, del dodicesimo secolo, con la sua facciata sobria ma impreziosita da un intreccio di archi, e il giardino antistante, fresco e ombroso. Ma non era solo questa visione a rendere unica la nostra casa — che era stata del fratello della nonna, il sindaco Pietro Bonanno. C’erano anche gli interni, con gli affreschi e gli arazzi alle pareti. Per noi bambini, e poi ragazzi, questo fu un contesto privilegiato in cui crescere, che non ci fece mai desiderare altri quartieri più à la page.
Il mandato di sindaco dello zio Pietro era stato brevissimo, dal 21 gennaio 1904 al giorno della sua morte, avvenuta il 12 febbraio 1905. Era stato più a lungo assessore ai Lavori pubblici, come ci raccontavano spesso i nostri genitori, e la città gli fu sempre molto grata, tanto da dedicargli strade e ville perché, sebbene fosse morto giovane, poco più che quarantenne, aveva realizzato un’infinità di opere. Fra le altre cose, aveva reso percorribile la via verso il santuario di Santa Rosalia, completato il Teatro Massimo, aperto i bagni al mare per i poveri e portato avanti progetti per la costruzione di un ospedale. Per noi bambini, per nostro padre Arturo, che era il direttore del Laboratorio chimico provinciale, e per nostra madre, Luisa Bentivegna, questo zio era quindi un modello e un motivo d’orgoglio familiare.
Papà era un mutilato di guerra: era stato colpito alla testa, prima che morisse tragicamente anche suo fratello. Per un anno era stato fra la vita e la morte, ma poi si era ripreso, si era laureato e aveva sposato nostra mamma, bellissima, di dodici anni più giovane. Lei aveva gli occhi a mandorla degli arabi, lui era alto e magro: per noi erano una coppia perfetta.
Mio fratello Giovanni — che da adulto sarà la copia di nostro padre, solo leggermente più basso — nacque il 18 maggio 1939 in questa splendida casa. Non molto lontano da lì vivevano anche alcuni dei boss più sanguinari che, nel corso della sua carriera di magistrato, avrebbe perseguito. Ma nessuno allora avrebbe potuto immaginare questo incrocio di destini infausti. Soprattutto il giorno della sua nascita, che fu segnato da un evento straordinario. Era una bellissima giornata di tarda primavera, le finestre erano aperte e lasciavano entrare in casa l’aria dolce e tiepida. Una colomba bianca si intrufolò nella stanza e si mise a svolazzare intorno alla culla, trasmettendo a tutti un’immagine di gioia e di pace.
Diversamente da mia sorella, che si sentì subito investita del ruolo di seconda mamma, protettiva ed emozionata, io non feci molto caso alla colomba. D’altro canto avevo solo tre anni. Era naturale che fossi incuriosita da quel piccolo neonato che stava provocando in casa tanta agitazione e che, forse, mi avrebbe rubato le attenzioni. Ci fu però un qualcosa che mi intenerì, e che mi intenerisce ancora oggi nel ricordo: fu il modo in cui Giovanni si presentò al mondo. Salutandolo con i pugni chiusi. Era arrivato il maschio di famiglia, sembrava voler dire a tutti.
Con la guerra dovemmo temporaneamente allontanarci dalla Kalsa. Già a partire dal 1940 si diffuse il panico, e i bombardamenti che si succedettero distrussero molti palazzi del quartiere, che fu abbandonato da tante famiglie come la nostra. L’atmosfera serena a cui eravamo abituati si spezzò.
Giovanni aveva solo un anno quando sfollammo a Sferracavallo, un borgo che oggi fa parte della riserva marina di Isola delle Femmine. Anche lì, però, non si stava molto tranquilli. La zona veniva spesso bombardata e, per di più, la casa in cui ci eravamo stabiliti era situata vicino al porto, diventato obiettivo sensibile. Prima una nave venne affondata davanti al golfo di Palermo, poi, il 9 maggio 1943, a causa di un bombardamento, furono distrutti anche i palazzi sul porto, compresa la passeggiata storica sul lungomare, ripristinata solo di recente. Così, atterriti dalla paura, ci trasferimmo all’interno, dai parenti della mamma a Corleone.
Dopo l’armistizio, a settembre, ritornammo in via Castrofilippo. Eravamo piccoli, e i miei ricordi sono sbiaditi, in molti casi sicuramente indotti dai racconti dei nostri genitori. Non potrò mai dimenticare però il nostro rientro nel palazzo. Ci stabilimmo per tre anni nel “piano nobile”, abitato dalle zie Stefania e Carmela, perché la nostra casa, avendo subìto dei bombardamenti, era da ristrutturare. Il piano nobile — il primo — era così definito per distinguerlo da quelli più alti ed era il cuore del palazzo e anche il più ricco di decorazioni.
Per me e per i miei fratelli quelle zie diventarono come due nonne visto che avevano ormai più di cinquant’anni. Stefania e Carmela, che per noi furono sempre e soltanto zia Stefanina e zia Melina, erano le sorelle di mio padre e non si erano mai sposate. Con la loro sensibilità e con i loro racconti, ci fecero conoscere, assaporare e sognare un passato recente ma già mitico, quello che andava dalla fine dell’Ottocento a tutta la Belle Époque.
Melina era considerata una rivoluzionaria perché aveva frequentato l’Istituto d’arte. Era una pittrice. Ancora oggi nel mio salotto conservo alcuni suoi quadri, che rappresentano interni e paesaggi sullo stile del pittore palermitano ottocentesco Francesco Lojacono. Aveva molto gusto nel tratteggiare i suoi panorami, ma anche nella vita di tutti i giorni.
Stefanina era invece musicista e aveva frequentato il Conservatorio di Palermo per imparare a suonare il pianoforte. Ogni tanto, in casa si organizzavano pomeriggi musicali, in cui veniva offerto il tè e la zia suonava per noi e per qualche ospite.
Noi bambini non eravamo indifferenti di fronte a tanta “nobile bellezza” e all’atmosfera che la nostra famiglia riusciva sempre a ricreare, sebbene in tempi così difficili di ricostruzione.
Fu dunque tra pennelli, musica e traslochi vari che iniziò a definirsi la nostra educazione. Mamma e papà avevano sempre un occhio di riguardo nei confronti di Giovanni. A noi figlie femmine non veniva concessa la stessa indulgenza. Ricordo un episodio in particolare. Le pareti di casa delle zie Stefanina e Melina erano molto austere, rivestite di raso color ruggine. Giovanni era davvero piccolino e fu tentato di rovinarle, o forse di personalizzarle. Era incantato dalla figura di Zorro, che probabilmente aveva scoperto sfogliando uno dei tanti volumi presenti nella libreria di papà. Per questo strappò la tappezzeria in raso tracciando diverse «Z». Questo provocò le ire della mamma, ma trovò una delicata accondiscendenza nel papà che, con il figlio maschio, aveva un’intesa profonda e molta, molta pazienza.
Eravamo comunque, per la maggior parte del tempo, sereni. Non ci fu mai bisogno di rimproveri frequenti né di voci severe che tenessero a bada il nostro temperamento. Anzi. Trascorrevamo ore e ore a parlare, a rievocare ricordi e a raccontare aneddoti. Allenavamo la memoria. In casa, per esempio, si parlava sempre e con orgoglio di due zii, che consideravamo alla stregua di eroi: Giuseppe, l’unico fratello di papà, e Salvatore, un fratello di mamma. Giuseppe era stato un ragazzo molto irrequieto. La nonna, che tanto democratica si era rivelata nell’educazione delle figlie — permettendo loro di coltivare la propria vena artistica —, con il maschio aveva voluto dare un segnale più deciso e severo. Lo aveva mandato all’Accademia di Modena perché le regole della vita militare e la disciplina contenessero la sua vivacità. Durante la Prima guerra mondiale si era arruolato in Aviazione, e fu così che perdette la vita: il suo aereo fu colpito e abbattuto. Le zie Stefanina e Melina ci raccontavano che il cadavere del fratello era stato consegnato loro solo un anno dopo la tragedia e — non so se per alimentare il doloroso ricordo o per la disperazione di non avergli potuto dire addio — conservavano gelosamente un album in cui, al posto delle fotografie, avevano inserito tutti i telegrammi ricevuti, contenenti informazioni sul percorso della salma e sui problemi materiali che ne impedivano il rientro (per esempio, in uno di questi si dava notizia alla famiglia che, mancando lo zinco, la cassa mortuaria non poteva essere sigillata).
Quando finalmente la salma arrivò, ci fu una grande manifestazione, perché tornavano gli eroi caduti in guerra. La nonna fece costruire una tomba speciale per suo figlio. Ancora oggi è quella più vicina alla tomba di Giovanni. Aveva ventiquattro anni quando morì lo zio Giuseppe, capitano di Aviazione.
Sempre all’epoca della Grande Guerra, Salvatore Bentivegna, fratello della mamma, aveva invece falsificato il certificato di nascita perché voleva a tutti i costi arruolarsi nei Bersaglieri ma non aveva ancora raggiunto l’età minima di diciotto anni. Sarebbe morto un anno più tardi, sul Carso, colpito da una granata e avrebbe ottenuto il titolo di tenente. La mamma lo amava moltissimo e pianse disperata per la morte del fratello, che considerava un eroe. Per questo, quando più di vent’anni dopo nacque Giovanni, decise di dargli come secondo nome quello di Salvatore. Il terzo nome, invece, fu scelto da papà che, come me, amava la storia romana. Mio fratello venne infatti chiamato Giovanni Salvatore Augusto.
La reazione di mia madre alla scomparsa dello zio Salvatore può ricordare la mia quando persi Giovanni, un fratello che considero un esempio, coraggioso e testardo nelle proprie scelte.
La mamma ci raccontava spesso che il nonno, ginecologo molto noto in città, vedendo Salvatore tornato a casa la prima volta vestito da bersagliere, era svenuto dall’emozione. Dopo che lo zio morì, non avendo potuto seppellirne la salma, prese l’abitudine di recarsi ogni anno a Roma per il giorno dei morti, per omaggiare il milite ignoto. Evidentemente non smise mai di sperare che potesse essere lui, suo figlio, quel milite ignoto.
Oltre allo spirito patriottico che si respirava in casa, i nostri genitori tenevano molto anche alla nostra istruzione.
Giovanni frequentò le scuole elementari al convitto nazionale — che dal 1999 gli è stato intitolato —, in piazza Sett’Angeli, come esterno, cioè senza dormirvi, e le medie alla scuola Verga. Era molto bravo, si distingueva fra i compagni con un trionfo di otto e il suo immancabile nove in educazione fisica.
Noi sorelle, che nel frattempo eravamo cresciute, avevamo scoperto il piacere di viaggiare. Per esempio, a diciotto anni io visitai la Spagna con un’amica. I nostri genitori ci hanno sempre lasciato abbastanza liberi. Questo valeva a maggior ragione per Giovanni, cui veniva concessa una notevole indipendenza: a soli dodici anni aveva il permesso di prendere due autobus con gli amici per raggiungere Mondello. Attraversava la città, poco più che bambino, come se niente fosse. Partiva la mattina e ritornava la sera, felice per aver trascorso quelle ore spensierate al mare.
Bisogna ammettere che la completa fiducia che ci concedevano i nostri genitori era ben ripagata. Ci avevano insegnato a difenderci e noi sapevamo fronteggiare i piccoli imprevisti quotidiani, senza sentirci spaventati né deboli. Quella libertà non era un privilegio molto diffuso in altre famiglie. Mi sono spesso domandata se fossero in apprensione in quelle occasioni, quando noi ragazze eravamo in viaggio, o durante le scampagnate fuori porta del piccolo di casa. Non so, forse erano tempi diversi da quelli che abbiamo poi vissuto noi: forse ci si fidava dei figli perché ci si fidava del mondo.
Di certo mamma e papà non avevano dubbi nel permettere a Giovanni di trascorrere gran parte dei suoi pomeriggi in parrocchia. I miei avevano una fede granitica. Mio padre riuscì perfino a rimproverare Giovanni il giorno della sua Prima comunione. Durante la funzione, era visibilmente distratto. Seduto al primo banco con gli altri suoi coetanei, che come lui dovevano ricevere il sacramento, continuava a girarsi per cercare noi familiari con lo sguardo. Ma quale bambino arriva consapevolmente a quella tappa? Ci si avvicina alla fede spesso in altri momenti e in molti modi diversi. Per mio fratello, questo avvenne trascorrendo la maggior parte del proprio tempo libero in parrocchia. Per anni fece la spola fra quella di Santa Teresa alla Kalsa e quella di San Francesco. Nella chiesa di Santa Teresa Giovanni conobbe padre Giacinto, un carmelitano scalzo. Insieme con lui, che gli faceva da cicerone, ebbe l’opportunità di visitare il Trentino e Roma. Furono i suoi primi viaggi fuori Palermo.
Allora gli oratori erano importanti centri di aggregazione per i ragazzini. Lì potevano giocare, provare nuovi sport, stare all’aria aperta. Fu così che, verso i tredici anni, mio fratello imparò a giocare a calcio. Durante una delle tante partite, conobbe un nuovo amico, più piccolo di soli sei mesi: Paolo Borsellino, con cui si sarebbe ritrovato sui banchi dell’università.
Lo scoprii moltissimi anni dopo. Tardi. Durante una passeggiata dopo la morte di Giovanni, Paolo mi indicò il punto in cui si erano conosciuti: «Proprio lì, in quel campetto di cemento».
In parrocchia Giovanni imparò anche a giocare a ping-pong. Avevamo allestito un tavolo pure in casa e spesso ci sfidavamo in lunghe partite tra fratelli.
Se il calcio era stata l’occasione per conoscere Paolo, il ping-pong portò a Giovanni un incontro di segno opposto. Durante uno di quei pomeriggi, iniziò a giocare con Tommaso Spadaro, che allora aveva dodici anni e abitava nella vicina via Lincoln. Sarebbe poi diventato il “re della Kalsa”, personaggio di spicco della malavita siciliana, impegnato nel traffico di stupefacenti e oggi all’ergastolo.
Questa coincidenza non deve stupire perché, come Spadaro, molti altri futuri boss provenivano dal nostro quartiere e, naturalmente, frequentavano gli stessi luoghi di aggregazione degli altri ragazzini. Probabilmente, nel corso della sua adolescenza, Giovanni avrà incrociato anche Tommaso Buscetta. Entrambi inconsapevoli che più avanti, nella vita da adulti, avrebbero avuto molto a che fare l’uno con l’altro.
1 Giovanni Falcone, con Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano 1991. Il riferimento è agli uomini d’onore.

2
L’Italia chiamò

«L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno. È saper convivere con la paura. Non farsi condizionare dalla stessa. Questo è coraggio. Altrimenti sarebbe incoscienza.»
Giovanni Falcone
Grazie anche all’esempio ricevuto dai due zii, i nostri genitori scelsero di educarci nel rispetto della patria. Non solo ci trasmisero il messaggio che, quando la patria chiama, bisogna andare, ma in casa non espressero mai risentimento nei confronti di quella patria che aveva reciso le due giovani vite dei loro fratelli.
Anna, io e Giovanni siamo dunque il frutto di questa educazione. Da essa ebbero origine il nostro amore per l’Italia, il nostro senso dello Stato, sebbene accompagnati da personali e successive esperienze, da fedi e scelte politiche differenti.
Giovanni frequentò le scuole superiori al liceo classico Umberto I, ancora oggi un rinomato istituto palermitano. Lì conobbe il professor Franco Salvo, suo insegnante di storia e filosofia, un uomo di formazione illuminista, convinto che la ragione sia alla base di tutto. I suoi insegnamenti furono fondamentali nella formazione di Giovanni che, per tutta la vita, ebbe sempre un carattere estremamente razionale.
Nel corso della sua carriera scolastica mio fratello fu sempre molto bravo. Nei primi anni eccelleva, mentre al liceo — pur mantenendo un ottimo rendimento — era forse un po’ distratto dall’attività sportiva, che aveva deciso di praticare a livello agonistico. Alla mamma, però, questo non andava giù. Anzi. Si rammaricava proprio che il “primo” della classe non fosse più lui, ma il suo compagno Onofrio Nicastro, divenuto il “tormentone” del povero Giovanni. (Tempo fa, la moglie di Onofrio mi fece notare che suo marito e Giovanni furono falciati quasi contemporaneamente. Anche Onofrio morì più o meno nello stesso periodo di mio fratello, ma per un male incurabile.)
Comunque Giovanni terminò il liceo classico con il massimo dei voti e ci sorprese con la notizia che avrebbe voluto frequentare l’Ac...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Introduzione - Ricordare Falcone vent’anni dopo - di Francesca Barra
  4. Premessa - Un uomo che fu e sarà sempre immortale - di Leonardo Guarnotta
  5. Prologo - Io, Maria, ricordo Giovanni
  6. 1. Figlio della Kalsa
  7. 2. L’Italia chiamò
  8. 3. Nasce il metodo Falcone
  9. 4. Dopo il sangue, il veleno
  10. 5. Francesca, la donna con la toga
  11. 6. Avanti, senza pensare alla paura
  12. 7. Frecciate dai giornali
  13. 8. L’uomo giusto e la fine del pool
  14. 9. Il Paese felice
  15. 10. Era un amico
  16. 11. Superprocuratore
  17. 12. 23 maggio 1992 - la mattanza
  18. 13. Per amore
  19. Postfazione
  20. Conversazione con il dottor Sergio Lari
  21. Ringraziamenti
  22. Indice