Le streghe di Swan River
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Le streghe di Swan River

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Le streghe di Swan River

Informazioni su questo libro

Contadini, ricchi villeggianti, ragazze per bene, hippie ingrigiti e perdenti d'ogni risma: c'è posto per tutti a Swan River, un pezzo d'America sperduto e un po' selvatico nel cuore degli Appalachi, sede di un'esclusiva scuola per fanciulle e di un'antica comune ormai in rovina. È in questo luogo per metà idilliaco e per metà infernale che vive Kate Riordan. A sedici anni, Kate ha paura di una cosa sola: diventare un giorno uguale a sua madre. Troppo distratta per occuparsi delle figlie, troppo stanca per contemplare un futuro qualunque. Ma quando una serie di episodi violenti funesta la cittadina, l'antica leggenda delle "ragazze selvagge" riaffiora, e tra le compagne del collegio dove Kate studia insieme all'amica Willow si diffonde il terrore di un contagio tanto misterioso quanto ineluttabile. Prima che sia troppo tardi, Kate dovrà provare a salvare se stessa e il ragazzo che ama dal la follia distruttrice che divampa tutto intorno. E scoprire chi è veramente. In un romanzo pieno d'atmosfera, vivido e serrato come una moderna serie TV, Mary Stewart Atwell celebra la fragilità, la bellezza e l'incontenibile furia della giovinezza. "C'era qualcosa nella nostra città, nascosto tra i boschi delle colline, in fondo alle valli dove le fattorie marcivano piano piano. Qualcosa di oscuro, che ti entrava nel sangue e non ti l asciava più."

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
Print ISBN
9788817065849
eBook ISBN
9788858649862

1

Come previsto, la vita all’Accademia era diversa dalla vita a Swan River, talmente diversa che mi capitava di dimenticare che avevo paura di diventare una ragazza selvaggia. Ma all’inizio dell’ultimo anno successe una cosa che mi spinse a chiedermi se la signora Lemons sapesse davvero predire il futuro.
Fino ad allora non mi ero aspettata nessun evento di rilievo. L’Accademia non mi piaceva quanto avevo sperato, ma non la odiavo come avevo odiato la scuola pubblica. Avevo una stanza singola che dava sul fiume all’ultimo piano della Fallis Hall. Avevo alcune amiche, anche se non erano le amiche di Willow, cioè le ragazze più in vista, quelle che andavano a sciare insieme e nei fine settimana noleggiavano una macchina con l’autista per farsi portare al Grand Hotel di Moorefield. La media dei miei voti era buona, e spesso invece di studiare sfogliavo i dépliant dei college che tenevo nel cassetto della scrivania. Su uno c’erano un ragazzo e una ragazza, tutti e due con il tipico maglione irlandese, che sorridevano seduti al tavolo di una biblioteca. Su un altro c’era un gruppo di amici su un prato ghiacciato, gli occhi fissi su un frisbee sospeso nel cielo come un pianeta piatto. Il mio preferito era il Pritchard College di Tanner, in Minnesota, perché lì c’erano i ragazzi più carini, del genere chitarristi coi capelli lunghi e lo sguardo dolce. Sapevo che mia madre non poteva permettersi nessuna di quelle università senza una borsa di studio, ma non riuscivo a smettere di sognare il Vermont, il Minnesota, il Michigan: posti dove faceva freddo e l’aria era secca, tutti in bianco e nero senza spazi grigi.
Quell’agosto, Swan River era l’esatto opposto del Minnesota: calda e afosa, minacciata da un poderoso temporale che stazionava poco oltre la cresta dei monti. La notte tra il 19 e il 20 fui svegliata dalle sirene, e immaginai che qualcuno avesse dimenticato acceso il barbecue. Ma al mattino vidi il fumo aleggiare sopra Bloodwort Road e ne sentii in bocca il sapore acre mentre mi lavavo i denti.
Entro mezzogiorno chiunque era al corrente dell’accaduto, anche se la storia veniva raccontata in due modi diversi. C’era la versione ufficiale, quella riferita dallo sceriffo McClellan e dal giornale; e poi c’era la verità, che tutti leggevano tra le righe. Entrambe le versioni affermavano che un uomo di nome Rondal Clark, che io e Maggie chiamavamo l’Uomo Uccello, era stato trovato tra i resti carbonizzati della Fattoria di Bloodwort, il corpo talmente ustionato e sanguinante che nessuno si aspettava che sopravvivesse. L’incendio si era propagato da una casa di legno all’altra, e in una di esse i pompieri avevano trovato il cadavere di Crystal Lemons. L’Uomo Uccello e la famiglia Lemons erano gli unici abitanti della comune, perché gli altri se n’erano andati in un lento esodo man mano che il comportamento della signora Lemons si faceva più eccentrico e imprevedibile e l’Uomo Uccello si faceva più prepotente.
Da lì, le due versioni divergevano. Lo sceriffo sosteneva che l’Uomo Uccello era stato aggredito da un animale selvatico, anche se non precisava quale: un coyote? un orso? Magari una delle linci che negli ultimi anni si erano rifatte vive nella zona. Non l’avrebbero saputo con certezza finché non fossero arrivati i test di laboratorio. Non cercò neppure di spiegare come aveva fatto un orso, o un coyote, ad appiccare l’incendio.
Travis passò la giornata successiva alla comune, e la sera a casa si rifugiò nella zuppa e nella birra, scuro in volto ed esausto. Non volle dormi cos’aveva visto, ma più tardi sentii lui e la mamma sussurrare quello che pensavano tutti: che i coyote e le linci erano stati accusati ingiustamente. I test di laboratorio dello sceriffo non avrebbero provato niente. Nessun esperto si sarebbe mai avvicinato all’Uomo Uccello; e se anche l’Uomo Uccello ricordava qualcosa, non ne avrebbe parlato.
A parte la famiglia di Crystal, le persone più turbate da questa storia erano i genitori delle studentesse dell’Accademia. Il 21 agosto era il giorno della Convocazione, e i genitori avrebbero affollato l’anfiteatro all’aperto per sentir parlare il professor Bell dell’illustre passato e del luminoso futuro della scuola. Quel pomeriggio stavo passeggiando per il campus quando vidi un capannello di padri che consultavano il giornale con aria perplessa. Loro non sapevano leggere tra le righe dell’articolo del «Riparian». Non credevano alle possessioni, e ai racconti delle figlie rispondevano di solito con qualche banalità accondiscendente, tirando in ballo la tradizione del folclore appalachiano. Ma i macabri dettagli dello strazio subito dall’Uomo Uccello li avevano spaventati, questo era chiaro. Chi gli assicurava che i coyote non si aggirassero nel campus tra le ombre degli alberi e della notte, gli occhi gialli affamati fissi sulle finestre illuminate?
Il giorno della Convocazione fecero sedere noi studentesse nella parte soleggiata dell’anfiteatro, sulle panche di pietra che scottavano. Io e la mia amica Caroline Potts ci sedemmo proprio in cima, più lontano possibile dal palco dove il professor Bell stava riassumendo la biografia di Charles Arkwright, fondatore e primo preside dell’Accademia femminile di Swan River.
«Ma perché Crystal è morta?» mi chiese Caroline in un sussurro. «Le ragazze selvagge non muoiono sempre, vero?»
«Non sempre» risposi. «A volte il giorno dopo tornano normali, come se non fosse successo niente.»
«Come un attacco epilettico.» Caroline si morse il labbro. «O un’influenza di quelle che durano ventiquattr’ore.»
«Già, una cosa del genere.» Finsi di ascoltare il professor Bell, ma era difficile con il sole negli occhi e la panca che mi graffiava i polpacci sopra i calzettoni. Tre file più avanti Willow si voltò a dire qualcosa alla ragazza accanto a lei, e i pendenti d’argento che portava alle orecchie le sfiorarono la giacca con lo stemma dell’Accademia. Mi agitai nella mia giacca di seconda mano della taglia sbagliata, che avevo comprato da una pallavolista diplomanda con due spalle da nuotatore.
«Ma a volte muoiono?» insisté Caroline.
«Sì, qualche volta.»
«Scommetto che ti senti bruciare dentro. Tutta quell’energia dovrà pur sfogarsi da qualche parte. Scommetto che ti si ritorce contro, come un’implosione.»
«Forse» dissi, a disagio.
Il professor Bell proiettò una serie di diapositive che elencavano i successi di alcune ex studentesse, niente di speciale, in realtà. C’era una tesoriera generale delle Figlie della rivoluzione e la «volontaria dell’anno» all’High Museum di Atlanta. Gli abitanti della zona definivano l’Accademia una scuola di perfezionamento dove le ragazze di buona famiglia del Sud imparavano a muoversi nell’alta società, e certamente ai vecchi tempi era un posto del genere. Alle pareti dell’ufficio postale erano ancora appesi ritratti di ragazze intente a ricamare, risalenti all’epoca della Guerra civile. Ero convinta che il professor Bell fosse stato nominato preside dopo un solo anno di insegnamento perché aveva promesso di rendere famosa l’Accademia per qualcos’altro, oltre che come fabbrica di signorine beneducate; e a quanto pareva i punteggi di ammissione erano aumentati da quando c’era lui. Ma a scuola c’erano ancora parecchie ragazze vecchio stile: per esempio la migliore amica di Willow, Tessa Cochran.
«Dev’essere strano essere cresciuta nella stessa città delle ragazze selvagge» disse Caroline. «Insomma, conoscevi bene Crystal Lemons, no?»
«Ssst!» sussurrai, fissando la faccia larga e sfocata di Leola Mackey, l’ex direttrice marketing dell’Istituto Emily Post per la Promozione del Galateo.
Il sole calò dietro gli alberi, gettando ombre e frescura sulle panche di marmo bianco. Il professor Bell era passato a una serie di diapositive sugli ultimi progetti immobiliari: la ristrutturazione della Fallis Hall e il nuovo e multimilionario centro fitness con piscina intitolato a John P. e Jane S. Cochran. I Cochran, grassocci e ricchi sfondati, sedevano su speciali sedie imbottite a un’estremità del palco, accanto alla figlia. Non tutti i genitori dell’Accademia erano facoltosi quanto loro, ma la maggior parte degli adulti seduta sul lato riparato dell’anfiteatro aveva lo sguardo compiaciuto di chi non deve preoccuparsi del conto in banca. Mia madre non partecipava mai alla Convocazione, e a me andava benissimo così. Ero abituata a vederla lì durante la settimana, china sulla scrivania caotica nell’edificio dell’amministrazione, ma con tutta la gente elegante e ignara del pericolo che si aggirava fuori dai cancelli della scuola lei non c’entrava niente.
Il professor Bell spense il proiettore e bevve un sorso d’acqua dalla bottiglietta. Senza più diapositive da guardare i miei occhi vagarono sul lato opposto dell’anfiteatro, su un gruppetto di persone allineate dietro i genitori seduti. Erano i dipendenti, ma non le segretarie come mia madre: c’erano il vecchio bibliotecario, gli uomini che si occupavano della manutenzione e le donne che lavoravano alla mensa. Non capivo perché dovessero partecipare alla riunione, a meno che non fossero lì per dimostrare ai genitori quante persone si prendevano cura delle esigenze quotidiane delle loro figlie. Vidi subito Clancy Harp tra i giardinieri: teneva il berretto da baseball all’altezza dello stomaco, come se fosse in attesa di cantare l’inno nazionale.
Quando mi voltai a guardarlo di nuovo, il professor Bell si stava arrotolando le maniche e appoggiò gli avambracci sul podio. Non capivo perché piacesse tanto alle ragazze, ma di sicuro non era brutto per essere un uomo di mezz’età: aveva gli occhi chiari e i capelli scuri, appena un po’ più lunghi di quelli dei padri delle allieve. Aveva il diritto di essere diverso perché era un insigne studioso, autore di libri sulla mitologia e il folclore, e per venire a Swan River aveva dovuto dire addio qualche prestigioso college del New England. La prima volta che mia madre me l’aveva additato nel corridoio degli uffici, mi aveva spiegato per filo e per segno quant’era fortunata la scuola ad avere un preside come il professor Bell. Magari era vero, ma appena avevo posato gli occhi su di lui l’avevo riconosciuto: era l’uomo che avevo visto al poligono di tiro nella comune. Uno strano malessere mi aveva assalita, come se qualcuno mi graffiasse la nuca con l’unghia.
Secondo mia madre, il preside avrebbe dovuto passare la maggior parte del tempo a ingraziarsi i benefattori; invece il professor Bell teneva un corso introduttivo di mitologia intitolato Miti e Misteri, una carrellata storica che andava dall’antica Grecia ai supereroi, al quale Caroline mi aveva persuasa a iscrivermi quell’autunno. Non era stato facile, perché il professor Bell mi metteva a disagio. La sera della festa era fuggito come se non volesse farsi vedere. Da quando Crystal Lemons aveva dato fuoco alla Fattoria di Bloodwort, ero sempre più convinta che il mondo delle ragazze selvagge e quello dell’Accademia non dovessero incrociarsi, anzi che non potessero nemmeno avvicinarsi, per il bene della mia pace mentale.
«Alcuni di voi avranno sentito dei tragici eventi che hanno avuto luogo a Swan River un paio di giorni fa» disse il professor Bell. «Benché quella di oggi sia un’occasione lieta, non posso non spendere qualche parola sull’argomento. Voglio che sappiate che la mia priorità assoluta è tutelare l’incolumità delle nostre studentesse. Il nostro campus è sicuro, e gli unici animali selvatici di cui dobbiamo preoccuparci sono gli scoiattoli che s’infilano nei cestini dei rifiuti.» Puntò lo sguardo sul lato dell’anfiteatro dov’eravamo sedute noi, e con una scintilla divertita negli occhi aggiunse: «Tenete chiusi i coperchi, ragazze». Una risatina si propagò come un’onda tra i genitori.
Bella pensata, mi dissi. Invece di fare ipotesi su cosa fosse successo a Crystal Lemons e all’Uomo Uccello, il preside riportava l’attenzione sulle ragazze. Diceva ai genitori di ignorare le montagne che gettavano nell’ombra i campi sportivi dopo le tre del pomeriggio. Lassù, tra i burroni e i prati, potevano esserci orsi, linci e Dio sapeva cos’altro, ma noi eravamo al sicuro.
«Chissà cosa si prova» sussurrò Caroline. «Non che io voglia uccidere qualcuno, ovviamente. Ma insomma, in teoria le ragazze non hanno nessun potere. È questo il punto, se sei una ragazza.»
La guardai: i suoi occhi dello stesso grigio del fiume erano sgranati dietro gli occhiali rotondi. Per molto tempo avevo pensato che l’interesse di Caroline per gli episodi di violenza nella mia città fosse uno di quegli hobby da ricchi, come fare i turisti nei quartieri poveri. Pensavo che volesse vedere le ragazze selvagge con la stessa curiosità di chi viaggia in Mercedes e allunga il collo per sbirciare un pick-up tappezzato di adesivi della bandiera confederata e con il conducente seduto sul cofano, stuzzicadenti in bocca. Ce n’erano parecchie di ragazze così all’Accademia, convinte che la cosa più notevole e divertente di Swan River fosse la sua arretratezza. Ma Caroline non faceva mai una cosa perché la facevano tutti. Aveva capito da sola che le storie sulle ragazze selvagge celavano altro. Mi aveva chiesto di compilare un elenco di nomi che avevo sentito ripetere da bambina a scuola e agli scout e aveva fatto ricerche su ognuna di loro, da Margaret Reid a Sharon Englehard. Era stata agli archivi del giornale, alla società storica, e aveva trovato i racconti da cui traevano origine le leggende che avevano plasmato la mia infanzia: parlavano di ragazze che volavano sfiorando le cime di alberi alti trenta metri, e di ragazze che davano fuoco a una casa con la punta delle dita. Caroline voleva laurearsi in folclore ed etnografia. Poi, dopo il dottorato, voleva scrivere un libro sulle ragazze selvagge di Swan River per dimostrare agli scettici che le nostre montagne ombrose nascondevano misteri impenetrabili alla ragione umana.
Tolleravo le sue ricerche, non il fatto che facesse la romantica. Le ragazze selvagge erano delle assassine, che dopo avere assassinato morivano o andavano in prigione. Non c’era niente da invidiare, niente da celebrare. «Tu non capisci» le dicevo.
«Non capisco cosa?»
«Tutto. Non sei di qui, Caroline.»
Le ragazze alla sua sinistra ci fissavano. Strappai un filo che penzolava dall’orlo della gonna. «Lascia stare» bisbigliai. «Ti va di andare alla River House, quando finiamo qui? Ci prendiamo un gelato.»
«Mi va tantissimo» sussurrò lei. «Non ci crederai, ma il gelato che ho mangiato a Roma quest’estate non era buono come quello.»
Gli altoparlanti montati su pali intorno al palco si accesero crepitando. Ai genitori furono distribuite fotocopie dell’inno della scuola, ma non ce n’erano abbastanza anche per noi. Si intitolava Swan River, mia Swan River e parlava di montagne imponenti, giorni lontani e lealtà. Mossi le labbra con obbedienza, ma stavo pensando all’ultima volta che avevo visto Crystal Lemons.
Era metà ottobre, quasi un anno prima, e stavo tornando a piedi all’Accademia dopo un sabato mattina di studio alla River House. Crystal era seduta sul marciapiede con le gambe allungate, e forse le sarei inciampata sui piedi se non mi avesse chiamata per nome. «Io ti conosco» aveva detto. «Sei quella che va all’Accademia.» Mi aveva squadrata dall’alto in basso, dalla treccia ai calzettoni alle scarpe stringate, sfoderando un sorriso che mi aveva messa a disagio. La divisa scolastica era un orrore, ma non è che Crystal fosse una bellezza: aveva un incisivo scheggiato e i capelli spettinati e sporchi.
«Stai bene?» le avevo chiesto, perché dovevo pur dire qualcosa.
«Oh, sì» aveva risposto lei, tirando indietro le labbra, così avevo visto il dente rotto. «Sto proprio alla grande.» Poi, per un solo istante, le era balenato qualcosa negli occhi… qualcosa di candido e arroventato, come una scintilla sprigionata da una fiamma.
In quel momento avevo avuto la premonizione che Crystal potesse diventare una di loro, ed ero quasi incespicata nella fretta di allontanarmi. Ora che sapevo di avere indovinato, avrei dovuto essere in lutto per lei e la sua famiglia, ma ogni volta che pensavo alla signora Lemons la mia mente correva al giorno in cui io e Willow ci eravamo introdotte nella roulotte. Se la signora Lemons vedeva il futuro, perché non aveva previsto che sua figlia sarebbe diventata una ragazza selvaggia? E se si era sbagliata sul conto di Crystal, non era possibile che si sbagliasse anche su di me?

2

Poteva sembrare che avessi invitato Caroline alla River House solo per gentilezza, ma in realtà avevo un secondo fine: volevo scoprire cos’era successo alla signora Lemons e a suo figlio Mason dopo l’incendio alla comune, e sapevo che Maggie avrebbe potuto riferirmi le voci che giravano. Durante l’estate avevo scoperto che mia sorella era molto più addentro di me alla vita quotidiana della città.
Se eri una ragazza di età compresa fra i diciott’anni e i venti-e-qualcosa, il fulcro della vita sociale a Swan River era la festa del venerdì sera al Tastee-Freez. In altre città le donne organizzavano gruppi di lettura o club delle mamme; a Swan River le ragazze si riunivano lì per scambiarsi aneddoti su mariti e fidanzati buoni a nulla e bere vino scadente dalle bottiglie che spuntavano dai sacchetti di carta. I mariti e i fidanzati tolleravano quell’abitudine e si tenevano alla larga, ritenendola forse una valvola di sfogo innocua per le loro donne. Se fossi stata lì da sola avrei preso il mio gelato al bancone e sarei uscita di corsa, ma Maggie attaccava bottone con chiunque, dalle giovani benestanti tutte nervi che erano tornate a casa dopo il college per fare le bancarie o le direttrici di supermercato, alle contahippie che non avevano mai neppure pensato di andarsene. Mi trascinava con sé da un gruppo all’altro, sorseggiava dalla bottiglia quand’era il suo turno, contemplava i bambini che dormivano sui sedili posteriori.
Le sue amiche erano carine con me e io ero felice di avere compagnia, però trovavo il tutto un po’ deprimente. Molte amiche di Maggie erano disoccupate e parecchie vivevano coi genitori, a volte disoccupati anche loro. Aleggiava un senso di disperazione: come se la gente sapesse, ma non volesse ammettere, che lì andava tutto a rotoli.
L’ultima volta che eravamo state al Tastee-Freez l’atmosfera era più strana del solito. Io e Maggie ci eravamo appena sedute per dividerci il gelato quando a una ragazza di nome Donna Higgins era caduto di mano il bicchiere di vino e gazzosa. Per un momento era calato il silenzio, mentre tutti guardavano la chiazza a forma di stella che si era allargata sul marciapiede. A un certo punto qualcuno aveva detto: «Be’, cazzo, è la cosa più divertente che ho visto oggi», e un attimo dopo mezza dozzina di ragazze si era messa a lanciare le bottiglie contro la parete dei bagni esterni, applaudendo quando si rompevano.
Il proprietario era uscito per dire che aveva chiamato lo sceriffo McClellan. La volante era arrivata con i lampeggianti accesi e aveva fatto il giro del parcheggio due volte. Lo sceriffo, il capo di Travis, era un uomo pacato che parlava lentamente, con i baffi bian...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Prologo
  6. 1
  7. 2
  8. 3
  9. 4
  10. 5
  11. 6
  12. 7
  13. 8
  14. 9
  15. 10
  16. 11
  17. 12
  18. 13
  19. 14
  20. 15
  21. 16
  22. 17
  23. Epilogo
  24. Ringraziamenti