VENIVANO DA LONTANO
Venivano da lontano, da un paesino a monte della città, e avevano macinato già quaranta e passa chilometri, tagliando attraverso i campi, lungo gli spogli filari di viti, perché il traffico e gli stramaledetti fari degli autocarri li confondevano.
Camminavano senza peso sulle foglie morte, ombre vaganti nella grande, immobile ombra della notte autunnale.
Raggiunta la Bassa sprofondata nel sonno, erano usciti dai campi per continuare il loro cammino sulla strada e, quando stavano per arrivare alla meta, si accese nel cielo ripulito dal vento il grande faro della luna.
D’improvviso, sulla sinistra della strada fangosa fiancheggiata da altissime siepi che la facevano sembrare ancora più stretta, si spalancò una grande aia quadrata, con un lato aperto tutto sulla strada e gli altri tre chiusi da fabbricati di recente costruzione, pitturati di bianco, con serramenti verdi e lesene, zoccoli architravi e cornicioni in mattone a faccia vista.
Il vecchio si fermò.
dp n="18" folio="18" ? «Ci siamo» disse. «Questo podere è suo.»
«Come fai a saperlo?» borbottò la vecchia.
«Soltanto uno scriteriato come lui poteva impegnare tutti i suoi quattrini in terreni che non rendono un bao e costruirvi stalle, fienili, case civili e via discorrendo. È una pazzia.»
«Taci» gli intimò la vecchia. «Tu che ti sei rovinato con la bella speculazione di comprare poderi grossi per cavarne tanti piccoli con fabbricati rustici e civili nuovi e poi rivendere tutto non ricavando neppure il prezzo pagato per la terra nuda e cruda.»
«L’idea era buona» esclamò il vecchio. «Non ho colpa io se è scoppiato il guaio della quota novanta.»
«Quando tutto è andato all’aria» continuò implacabile la vecchia «siamo rimasti senza niente. Perfino i letti hai venduto e siamo stati costretti a dormire per anni coi materassi buttati sul pavimento. Perfino i letti.»
«Un fallimento è una valanga che travolge tutti, creditori e debitore. Non soltanto i creditori come usa adesso.»
«E prima?» insisté la vecchia. «E quando io e i ragazzi tornavamo dalla villeggiatura e trovavamo la casa vuota, i piatti e la biancheria per terra, perché tu avevi venduto tutti i mobili?»
«Ne ho sempre ricomprato dei nuovi» si giustificò il vecchio.
«Sì, e dopo, non riuscivi a pagarli e ce li venivano a riprendere.»
«Se tu ti fossi interessata degli affari, invece di pensare soltanto alla tua maledetta scuola» gridò il vecchio «le cose sarebbero andate meglio.»
«Se non avessi avuto uno straccio di stipendio e di casa assicurati» replicò lei «chi sa dove saremmo finiti?»
«Esattamente dove siamo ora» rispose sghignazzando il vecchio.
Litigando si erano inoltrati nella grande aia e il vecchio volle dare un’occhiata alla rimessa delle macchine.
(Il vecchio era stato un patito delle macchine agricole, dell’olio lubrificante e del petrolio.)
«Guarda qui!» urlò indignato. «Guarda com’è conciato questo trattore! Guarda questa mietilega! Guarda questa motozappatrice. Fango, ruggine, pezzi spaccati tenuti assieme col fil di ferro, ingrassatori asciutti. Chi maltratta le macchine è un criminale come chi maltratta le bestie.»
(Il vecchio aveva amato le bestie e, sul casotto del cane, aveva inchiodato un grande cartello a stampa: «Più conosco gli uomini e più amo le bestie». Lei si limitava a rispettarle, le bestie.)
«Sicuro» replicò acida la vecchia. «Oltre alla società protettrice degli animali, ci vuole la società protettrice delle macchine.»
«Si capisce» urlò il vecchio. «Chi maltratta una bestia offende Dio che l’ha creata. Chi maltratta una macchina offende l’uomo che l’ha costruita attraverso secoli e secoli di studi e fatiche. E, allora, è la stessa cosa che offendere Dio. Il grande Manzoni...»
«Va’ al diavolo tu e il grande Manzoni» lo interruppe la vecchia.
(Lui aveva letto e riletto tutto Manzoni, sapeva a memoria i passi principali dei Promessi sposi, libro che aveva commentato riempiendone i margini con la sua scrittura pulita, precisa, meravigliosa.)
dp n="20" folio="20" ? Quando era ragazzine e viveva, primo di un’orda di figli, nel podere materno della Bassa, andava a scuola su un carretto trascinato da una vacca che poi ormeggiava all’inferriata dell’aula scolastica. Una specie di cataclisma a trazione bovina perché, sul carretto, oltre a lui viaggiavano anche i fratelli e il viaggio di ogni giorno lungo le stradette della Bassa si risolveva il giorno seguente, quando arrivavano a casa le massaie dei poderi vicini con sporte piene di pollastri e paperi assassinati che la madre dell’orda doveva sostituire con altrettanti capi vivi. Era arrivato a finire la seconda elementare soltanto, ma aveva la calligrafia più bella della provincia. In seguito, aveva letto tutti i libri che riusciva a procurarsi fino a quando, scoperto il Manzoni, s’era fermato lì perché aveva stabilito che nel Manzoni c’è tutto. Lei, invece, era maestra diplomata e aveva letto, a suo tempo, e apprezzato convenientemente Manzoni ma, a forza di sentirne parlare in casa, era arrivata a detestarlo.
«Manzoni non c’entra» urlò feroce il vecchio. «Qui si tratta di un irresponsabile che maltratta le macchine.»
«Che cosa c’entra lui?» replicò la vecchia. «Prenditela col mezzadro che le cura. Non vorrai che lui lasci il suo lavoro per venire qui a pulire le macchine.»
«Allora non si occupi di agricoltura» stabilì il vecchio. «L’agricoltura è una cosa seria. Non si può fare l’agricoltore per passatempo.»
Uscirono sull’aia e proseguirono verso il centro del paesino. Arrivati sulla piazzetta, il vecchio si fermò reverente davanti al casolare misero e decrepito rattristato da un giardinetto tremendamente lindo e pulito e da un tremendissimo busto di bronzo piazzato su una stele.
(Il vecchio aveva una sua umana Trinità che rispettava come quella divina, ed era composta da Manzoni, Verdi e Napoleone. Il vecchio, una sola volta in vita sua era andato all’estero, a Parigi: arrivato alla Gare de Lyon s’era fatto portare in tassì agli Invalidi. Qui, reso omaggio alla tomba di Napoleone, era risalito in tassì facendosi riportare alla stazione ignorando del tutto Parigi.)
A pochi passi dal casolare c’era un fabbricato con fanali sulla facciata e un grande cortile. Il vecchio andò a leggere una piccola insegna attraversata da uno strano ghirigoro.
«Incredibile» gridò. «Aprire qui, in questo villaggio sperduto in mezzo ai campi, un ristorante. Quel ragazzo è matto.»
«Mai come quel tizio che, nel 1906, ha aperto in un villaggio ancora più remoto e ignorato un grande emporio di macchine per cucire, biciclette, fucili, motociclette, grammofoni a tromba eccetera. Quella sì che era pazzia.»
«Quello era il Progresso» rispose il vecchio puntando sulla "P" per far capire che era maiuscola.
(Il vecchio, nel 1907, sempre nello sperduto paesino della Bassa, rimodernato un casone e cavatone un palazzo con grandi signore pitturate tutt’attorno, vi aveva aperto due negozi da affittare. Due negozi mai visti in provincia, con saracinesche metalliche e cristalli enormi, come se le botteghe fossero nella Galleria di Milano. Poi uno dei negozi era diventato l’ambulatorio del medico condotto, una faccenda nella quale non occorreva nessuna vetrina, e l’altro il miserabile laboratorio d’un poveraccio che impagliava seggiole.)
Il vecchio non diede retta alla donna: erano discorsi che sentiva da anni e annorum e conosceva a memoria. E poi, ora, tutta la sua attenzione era concentrata sullo strano ghirigoro che ornava la piccola insegna.
«È la sua firma!» gridò alla fine. «Guarda che firma! La iniziale forma il suo profilo, col naso, i baffi, l’occhio e il ciuffo. Una vera cosa ridicola!»
«Senti chi parla» lo rimbeccò la vecchia. «Guarda piuttosto la tua, delle firme.»
(L’uomo, oltre a una calligrafia straordinaria, aveva una firma che era uno spettacolo completo. Quando vergava la sua firma, la gente si fermava a guardare trattenendo il respiro. Perché, prima, tracciava, convenientemente distanziate – e non sbagliava mai d’un decimo di millimetro –, le iniziali dei due nomi e quella del cognome, indi completava nomi e cognome e, infine, racchiudeva tutto in uno svolazzo laboriosissimo, d’intensità crescente e che non finiva mai e pareva un finale verdiano.)
Continuarono la loro strada e giunsero in breve alla grande casa bianca con le gelosie verdi. Che poi non era una casa ma un complesso di fabbricati dislocati su tre lati d’un grande cortile rettangolare. L’edificio principale rivelava l’intimo travaglio spirituale dell’ideatore e costruttore perché pareva un’antologia di ripentimenti e, più che una casa con sovralzi e aggiunte, era un complesso di sovralzi e aggiunte senza nessuna casa vera e propria.
Il vecchio scosse il capo:
dp n="23" folio="23" ? «Povero ragazzo» disse con pena. «Butta via, coi muratori, tutti i suoi quattrini.»
«Taci, tu, che coi muratori hai buttato via non solo i tuoi quattrini ma anche i miei» esclamò la vecchia.
L’attenzione del vecchio fu attirata dalla grande rimessa: era perfettamente attrezzata perché possedeva anche una piccola ma completa officina.
«Bella morsa!» esclamò il vecchio avvicinandosi al banco. «Ne avevo una precisa in officina. I tedeschi bisogna lasciarli stare in fatto di utensileria.»
L’armadio sopra il banco era spalancato e si vedevano gli utensili appesi con pignolesca precisione ognuno al proprio posto che era indicato dal profilo d’ogni arnese, pitturato in nero sul fondo chiaro.
«Quel calibro è mio» osservò il vecchio. «Anche quella chiave inglese.»
Nella rimessa erano ricoverati un camioncino diesel, due spider, una Millecento, tre biciclette e un Guzzino.
«Ha la mania delle macchine» borbottò il vecchio.
«Senti chi parla» lo rimbeccò lei. «Proprio lui che con le macchine si è rovinato. E poi il ragazzo adopera soltanto un’automobile: le altre servono ai figli e all’azienda.»
«Ah! L’azienda» sghignazzò il vecchio divertito. Poi analizzò il parco macchine e stabilì: «Tutte e quattro assieme, più le biciclette, la moto, il compressore e il cric, non valgono la mia SCAT».
Uscirono e gironzolarono fra i fabbricati. Uno di essi aveva ancora il ponteggio sul lato sud.
dp n="24" folio="24" ? «Che cosa fa ancora?» gridò il vecchio. «Un altro baraccone?»
«È la casa che sta facendosi il figlio che s’è sposato» spiegò la vecchia.
Il vecchio scosse il capo:
«Guarda quel balcone» urlò. «Grida vendetta a Dio. Il ragazzino è ancora più squinternato del padre. »
«Il ragazzino è bravissimo, invece» affermò la vecchia.
«È testardo come sua madre» stabilì il vecchio. «Tutti i figli sono testardi come la madre. E poi sua madre è testarda più di tre donne messe assieme. La prima volta che l’ho vista l’ho capito subito.»
(Era successo prima della guerra. Il vecchio era andato a trovare «quel ragazzo» che lavorava a Milano da qualche anno. Gli aveva aperto la porta di casa una ragazza sconosciuta ed egli, appena il figlio era apparso, gli aveva domandato: «Chi è quella donna?». «Mia moglie» gli aveva risposto il figlio, e tutto era finito lì perché il figlio diceva che se i suoi genitori s’erano sposati senza avvertire lui, anche lui aveva il sacrosanto diritto di sposarsi senza avvertire i genitori. In realtà, la madre l’aveva avvertita, esigendo però che la cosa rimanesse fra lei e lui perché si vergognava di dire al padre che si sposava. Questione di pudore.)
Entrarono in casa e salirono fin che trovarono scale. La camera da letto era vuota. Il letto intatto.
«Ancora in giro tutt’e due» disse il vecchio. «Bella famiglia.»
«Lei dorme nella camera di sotto» spiegò la vecchia. «Dormono divisi come abbiamo sempre fatto...