
- 368 pagine
- Italian
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eBook - ePub
E il signore le creò
Informazioni su questo libro
Dopo la Seconda Guerra Mondiale e il periodo trascorso nell'aeronautica militare, il simpatico veterinario torna alla sua vita normale, al suo amato Yorkshire, alla famiglia e ai suoi pazienti a quattro zampe. Fra mille e una peripezia Herriot ci racconta con l'entusiasmo di sempre il suo strano viaggio in Unione Sovietica e in Turchia in un ruolo davvero particolare: come accompagnatore di pecore e mucche.
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Informazioni
Print ISBN
9788817202152eBook ISBN
9788858642269CAPITOLO 1
Quando il cancello mi venne addosso sentii che ero davvero tornato a casa.
I miei pensieri scavalcarono senza sforzo il periodo trascorso nella RAF tornando all’ultima volta che ero stato dai Ripley. Si trattava di "pinzare alcuni vitelli", come aveva detto al telefono il signor Ripley, o, più correttamente, di castrarli con l’emasculatore incruento di Burdizzo, e quando ricevetti il messaggio capii che buona parte della mattinata era andata.
Recarsi ad Anson Hall era sempre stato una specie di safari perché la vecchia casa si trovava al termine di un sentiero ondulato e percorso da solchi profondi che si snodava attraverso i campi superando non meno di sette cancelli.
I cancelli sono tra le iatture della vita di un veterinario di campagna, e nei Dales dello Yorkshire, prima del diffondersi dei fossi di sbarramento, noi ne eravamo particolarmente perseguitati. Ci rassegnavamo ad aprire due o anche tre cancelli in molti poderi, ma sette erano un po’ troppi. E dai Ripley non si trattava solo del numero, ma del tipo.
Il primo che immetteva sul viottolo era abbastanza normale, un affare vetusto, di ferro rugginoso, e quando toglievo il paletto per lo meno girava stridulo sui cardini. Era l’unico che lo facesse: gli altri erano in legno, di quelli che nei Dales vengono chiamati "cancelli a spalla". Mi era chiarissimo il perché di questo nome mentre, uno dopo l’altro, li sollevavo reggendone la traversa superiore sulla spalla per aprirli trascinandoli. Questi non avevano cardini ed erano assicurati su un lato, in alto e in basso, con una corda.
Anche con un cancello normale c’è parecchio da fare. Bisogna fermare l’auto, scendere, spalancare il cancello, portare la macchina dall’altra parte, smontare di nuovo e richiuderlo. Ma la strada che portava ad Anson Hall costituiva una fatica improba. I cancelli si facevano sempre più cadenti man mano che mi avvicinavo alla casa ed ero ormai senza fiato quando raggiungevo con gran strepito e scossoni il settimo.
Era l’ultimo e il più temibile: un’entità maligna con una personalità tutta sua. Nel corso di decenni era stato tanto rappezzato e aggiustato con vecchie assi che probabilmente non restava più nulla della struttura originale. Ma era pericoloso.
Scesi dall’auto e avanzai di qualche passo. Eravamo vecchi nemici, quel cancello e io, e ci fronteggiammo in silenzio per qualche momento. In passato ci eravamo misurati in parecchi animati combattimenti e non c’era dubbio che il cancello fosse in vantaggio di alcuni punti.
La difficoltà era che, a parte il carattere eccentrico, sgangherato e mal inchiodato com’era, era fissato in un solo punto, a mezza altezza. Questo gli permetteva di far perno sul suo fragile asse con risultati deleteri.
Mi accostai, con la massima cautela, al lato destro e cominciai a slegare la cordicella. Questa, notai mestamente, era assicurata, come tutte le altre, con un bel nodo a cappio; appena l’ebbi sciolto mi affrettai ad agguantare la traversa superiore. Troppo tardi. Come avesse una volontà sua, la parte inferiore si sollevò verso di me colpendomi con ferocia gli stinchi e, mentre cercavo di rimetterla in equilibrio, la parte superiore mi prese in pieno petto.
Come tutte le altre volte. Mentre lo issavo per fargli compiere un quarto di cerchio, un centimetro alla volta, il cancello mi elargiva colpi in alto e in basso. Non potevo averla vinta.
Un’altra cosa che non giovò al mio spirito fu vedere il signor Ripley che mi osservava benevolo dalla soglia di casa. Mentre io mi arrabattavo con il cancello, pacifici sbuffi di fumo si sollevavano dalla pipa del contadino che non si mosse dalla sua posizione fino a quando non ebbi superato zoppicando l’ultimo tratto erboso e fui dinanzi a lui.
« Allora, signor Herriot, è venuto a pinzarmi i vitelli? » Un sorriso di genuina amicizia gli increspò le guance ispide. Il signor Ripley si radeva una volta la settimana, il giorno di mercato, ritenendo con una certa logica che, poiché negli altri sei giorni solo sua moglie e i suoi animali lo vedevano, non c’era motivo di grattarsi la faccia tutte le mattine con un rasoio.
Mi chinai a massaggiarmi le caviglie ammaccate. « Signor Ripley, quel cancello! È una minaccia! Ricorda che l’ultima volta che sono venuto qui si era impegnato solennemente a farlo aggiustare? Anzi, aveva detto che ne avrebbe messo uno nuovo... sarebbe ora, le pare? »
« Sicuro, ha ragione, giovanotto » rispose il signor Ripley con profonda convinzione. « L’ho detto, ma, sa, ci sono certi lavoretti che non si riesce mai a sbrigare. » Ebbe una risatina di scusa ma la sua espressione si fece preoccupata quando arrotolai una gamba dei pantaloni rivelando una lunga abrasione sullo stinco.
« Ehi, ma guarda che roba. Allora è deciso. Di qui a una settimana ci sarà un cancello nuovo. Parola mia. »
« Signor Ripley, è proprio quel che ha detto l’ultima volta che mi ha visto con il ginocchio sanguinante. Davvero. Mi ha dato la sua parola. »
« Già, lo so, lo so. » Pigiò il tabacco con il pollice rimettendo in funzione la pipa. « Mia moglie dice sempre che la mia memoria fa acqua, ma stia tranquillo, signor Herriot, oggi ho imparato la lezione. Mi spiace per la sua gamba e quel cancello non le darà più guai. Parola mia. »
« Va bene, va bene » conclusi mentre arrancavo verso l’auto per prendere il Burdizzo. « Dove sono i vitelli? »
Il signor Ripley attraversò senza fretta l’aia e aprì la mezza porta di una stalla. « Qui dentro. »
Per un attimo restai impietrito davanti alla fila di grosse teste ispide che mi osservavano impassibili al di là delle stanghe, poi tesi un dito tremante. « Quelli, vuol dire? »
Lui confermò allegramente. « Sì, proprio. »
Mi feci avanti scrutando nella stalla. C’erano otto robusti manzi là dentro; alcuni ricambiarono il mio sguardo con blando interesse, altri sgroppavano e scalciavano tra la paglia. Mi rivolsi al proprietario. « Ci siamo daccapo, eh? »
« Come? »
« Mi ha detto di venire a castrare dei vitelli. Questi non sono vitelli: sono tori! E anche l’ultima volta è successa la stessa cosa. Ricorda quei bestioni che si trovavano in questa medesima stalla? Mi è quasi venuta un’ernia a lavorare di tenaglie e lei mi aveva assicurato che in futuro li avrebbe fatti sistemare entro i tre mesi. Anzi, mi ha dato la sua parola. »
Lui annuì solennemente. Era sempre d’accordo al cento per cento con tutto quel che dicevo. « Giusto, signor Herriot. E andata proprio così. »
« Ma queste bestie hanno almeno un anno! »
Il signor Ripley si strinse nelle spalle rivolgendomi un sorriso disincantato. « Già, come passa il tempo. Vola, sul serio.»
Tornai all’auto a prendere l’anestetico locale. « E va bene » borbottai riempiendo la siringa. « Se riesce a tenerli vedrò cosa posso fare. » Il padrone prese una cavezza da un gancio al muro e si accostò a uno di quei colossi con dei mormorii incoraggianti. Imprigionò la testa con notevole disinvoltura passando i cappi su muso e corna con tempismo perfetto mentre l’animale cercava di balzare via. Poi infilò la corda in un anello nella parete e la tese.
« Ecco fatto, signor Herriot. Non è stato un problema, le pare? »
Non dissi nulla. Ero io quello che avrebbe avuto dei problemi. Lavoravo in posizione critica, proprio a tiro degli zoccoli che di certo si sarebbero messi a scalciare se i miei pazienti non avessero gradito sentirsi infilare un ago nei testicoli.
Comunque andava fatta. Iniettai l’anestetico nello scroto, ricevendo la mia buona dose di mazzate su braccia e gambe. Poi iniziai la castrazione vera e propria, la recisione incruenta dei dotti deferenti che lascia intatta la pelle. Senza dubbio era un grosso passo avanti rispetto al vecchio metodo secondo il quale si incideva lo scroto, e con i vitellini era cosa da nulla che richiedeva solo pochi secondi.
Ma era tutt’altro paio di maniche con quelle enormi creature. Bisognava aprire le branche della tenaglia all’angolatura massima per poter afferrare il grosso scroto carnoso, e poi si trattava di richiuderle. Lì veniva il bello.
Grazie all’iniezione l’animale sentiva poco o niente ma a me, che stringevo disperatamente, sembrava di tentare l’impossibile. Comunque è incredibile quel che riesce a fare l’organismo umano quando è spinto all’estremo e, mentre il sudore mi gocciolava dal naso e io ansimavo mettendocela tutta, le due braccia di metallo si chiusero lentamente e infine le ganasce si serrarono.
Eseguivo sempre l’operazione due volte per parte e mi concessi una pausa prima di ripetere la manovra in un secondo punto del deferente. Dopo essermi spremuto anche sul secondo testicolo mi abbandonai contro la parete, boccheggiando e cercando di non pensare alle altre sette bestie che ancora mi aspettavano.
Passò un tempo lunghissimo, infinito, prima che arrivassi all’ultimo e mi accingevo all’impari lotta, gli occhi fuori dalle orbite e il respiro affannoso, quando mi venne l’idea.
Mi raddrizzai avanzando lungo il fianco dell’animale. « Signor Ripley, » ansimai « vorrebbe provarcisi lei? »
« Eh? » Fino a quel momento era rimasto a osservarmi con animo sereno, soffiando lente nubi di fumo azzurrino, ma adesso chiaramente avevo dato una bella scossa alla sua flemma. « Come sarebbe? »
« Be’, siamo arrivati all’ultimo e vorrei farle capire cosa intendevo, prima. Mi piacerebbe vederle chiudere queste tenaglie.»
Ci meditò su per qualche istante. « Va bene, ma chi gli tiene la testa? »
« Non si preoccupi » lo rassicurai. « Lo leghiamo contro l’anello, io le preparo tutto quanto, e così vediamo come lei riesce a cavarsela. »
Sembrava un po’ perplesso ma io ero ben deciso a fargli una chiara dimostrazione e lo sospinsi dolcemente verso il posteriore dell’animale. Applicai il Burdizzo allo scroto e chiusi le dita del signor Ripley attorno alle branche.
« Perfetto, » conclusi « ora tocca a lei. »
Respirò a fondo, radunò le forze e cominciò a esercitare pressione sulle due braccia di metallo. Nessun risultato.
Me ne restai là a contemplarlo per diversi minuti mentre la sua faccia passava dal rosso al violaceo, gli occhi sporgevano ancor più dei miei e attraverso la fronte le vene si ingrossavano livide. Alla fine, con un rantolo, si lasciò cadere sulle ginocchia.
dp n="12" folio="12" ? « Macché, giovanotto. Inutile, non ce la faccio. »
Si rialzò adagio, asciugandosi la fronte.
« Ma, signor Ripley, » gli posai una mano sulla spalla sorridendogli dolcemente « lei si aspetta che ce la faccia io. »
Annuì in silenzio.
« Va be’, lasciamo perdere » ripresi. « Adesso può capire cosa intendevo. È un lavoretto facile che diventa difficile quando si lascia che gli animali ingrossino come questi. Mi avesse chiamato quando erano vitelli di tre mesi me la sarei sbrigata in pochi minuti, non le sembra? »
« Già, certo, signor Herriot, ha ragione. Sono stato uno sciocco e vedrà che non succederà più. »
Mi sentii davvero in gamba. Non mi capita spesso di avere ispirazioni risolutrici ma mi sentii pervadere dalla convinzione che quel giorno avevo avuto un colpo di genio. Finalmente ero riuscito a farmi intendere dal signor Ripley.
La soddisfazione mi diede nuovo vigore e portai a termine l’opera senza fatica. Mentre mi dirigevo all’auto esultavo, letteralmente, e la mia soddisfazione si accrebbe quando il proprietario si chinò verso il finestrino mentre avviavo il motore.
« Be’, grazie, signor Herriot » disse. « Stamattina mi ha insegnato qualcosa. La prossima volta che verrà, troverà un bel cancello nuovo e non le chiederò mai più di pinzare dei vitelli così grossi. Parola mia. »
Tutto questo era accaduto molto tempo addietro, prima della RAF, e adesso stavo inserendomi di nuovo nella vita civile, riscoprendo il gusto di cose quasi dimenticate. Ma nell’attimo in cui il telefono squillò io mi preparavo a gustare qualcosa che mi stava molto a cuore: la cucina di Helen.
Era domenica, ora di pranzo, il momento in cui arrivava in tavola il tradizionale arrosto accompagnato dallo Yorkshire pudding. Mia moglie ne aveva appena depositato sul mio piatto una generosa porzione e stava irrorandolo di sugo d’arrosto, un denso liquido scuro con tutta l’essenza della carne e un profumo di sogno. Io ero affamatissimo dopo una delle tipiche mattinate domenicali di un veterinario di campagna in cui mi ero scapicollato da una fattoria all’altra, e stavo dicendomi, come mi capitava spesso, che se avessi dovuto far colpo su un gourmet straniero con la pietanza più sublime della gastronomia britannica avrei senz’altro scelto quella.
Una bella fetta di Yorkshire pudding era il sistema delle parsimoniose contadine per riempire lo stomaco di tutta la famiglia prima di passare alla carne. « Chi ne mangia di più avrà più arrosto » era il subdolo incoraggiamento. Ma era paradisiaco. E mentre masticavo il primo boccone mi godevo la certezza che quando avessi ripulito il piatto Helen l’avrebbe nuovamente riempito di fette d’arrosto con patate, piselli e fagiolini raccolti quella mattina nel nostro orto.
Il trillo del telefono venne a infrangere la mia estasi ma mi dissi che niente avrebbe potuto sciuparmi quel pranzo. Anche il caso più urgente avrebbe potuto aspettare che avessi terminato.
Ma la mano mi tremò quando ebbi sollevato il ricevitore, e un misto di angoscia e incredulità mi sopraffece sentendo la voce all’altro capo del filo. Si trattava del signor Ripley. Oh, buon cielo, no, mi si risparmi il lungo pellegrinaggio fino ad Anson Hall, di domenica.
La voce dell’agricoltore mi rimbombava all’orecchio. Era uno dei molti ancora convinti che bisognasse urlare a pieni polmoni per superare i chilometri di distanza.
« E il veterinario? »
« Sì, sono Herriot. »
« Oh, è tornato dalla guerra, allora? »
« Proprio così. »
« Be’, ho bisogno che venga subito. Una delle mie vacche è proprio malconcia. »
« Cos’ha? È urgente? »
« Ah, proprio sì! Ho paura che si sia rotta una zampa. »
Scostai il ricevitore. La voce del signor Ripley stava aumentando di volume e me la sentivo echeggiare nel cervello. «Cosa glielo fa pensare? » chiesi, la bocca improvvisamente arida.
« Be’ sta su tre zampe, » muggì lui in risposta « e poi è come tutta storta. »
Oddio, era proprio brutto segno. Lanciai un’occhiata afflitta al piatto colmo, all’altro capo della stanza. « Va bene, signor Ripley, arrivo. »
«Viene subito, vero? Immediatamente? » La voce era un autentico ruggito.
dp n="14" folio="14" ? « Sì, immediatamente. » Deposi il ricevitore, mi strofinai l’orecchio e mi rivolsi a mia moglie.
Helen alzò lo sguardo con l’espressione prostrata della cuoca che già vede il suo Yorkshire pudding trasformato in qualcosa di molliccio e inerte. « Non mi dire che devi andartene all’istante. »
« Mi dispiace, Helen, è una di quelle faccende che non posso far aspettare. » Potevo visualizzare fin troppo bene l’animale ferito che si trascinava attorno, in preda al dolore, magari aggravando la frattura. « E il proprietario sembrava fuori di sé. Devo assolutamente andare. »
Le labbra di mia moglie tremarono. « Va bene, lo metterò in forno fino a quando torni. »
Uscendo la vidi mettere via il piatto. Tutti e due sapevamo che era la fine. Nessun Yorkshire pudding poteva sopravvivere a una visita ad Anson Hall.
Attraversai Darrowby a gran velocità. La piazza del mercato, sonnacchiosa sotto il sole, era pervasa dalla quiete domenicale mentre tutti gli abitanti della cittadina si dedicavano al pranzo dietro le porte chiuse. In aperta campagna i muretti a secco guizzavano via mentre tenevo il piede sull’acceleratore e quando infine arrivai al sentiero della fattoria ebbi un senso di sgomento.
Era la prima volta che tornavo da quelle parti dopo che mi ero congedato dalla RAF e probabilmente mi aspettavo di trovare dei cambiamenti. Ma il vecchio cancello di ferro era sempre lo stesso, caso mai più arrugginito di prima. Con crescente sconforto superai tutti gli altri cancelli, slegando corde e...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Copyright
- Dedica
- CAPITOLO 1
- CAPITOLO 2
- CAPITOLO 3
- CAPITOLO 4
- CAPITOLO 5
- CAPITOLO 6
- CAPITOLO 7
- CAPITOLO 8
- CAPITOLO 9
- CAPITOLO 10
- CAPITOLO 11
- CAPITOLO 12
- CAPITOLO 13
- CAPITOLO 14
- CAPITOLO 15
- CAPITOLO 16
- CAPITOLO 17
- CAPITOLO 18
- CAPITOLO 19
- CAPITOLO 20
- CAPITOLO 21
- CAPITOLO 22
- CAPITOLO 23
- CAPITOLO 24
- CAPITOLO 25
- CAPITOLO 26
- CAPITOLO 27
- CAPITOLO 28
- CAPITOLO 29
- CAPITOLO 30
- CAPITOLO 31
- CAPITOLO 32
- CAPITOLO 33
- CAPITOLO 34
- CAPITOLO 35
- CAPITOLO 36
- CAPITOLO 37
- CAPITOLO 38