
- 360 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Wonder boys
Informazioni su questo libro
Grady Tripp è uno scrittore di mezza età che sette anni prima ha conquistato la gloria col suo primo romanzo e non riesce a concludere il secondo, giunto ormai all'imbarazzante mole di 2600 pagine. In più, ha un debole per la marijuana e i matrimoni falliti, un'amante che ha appena confidato di aspettare un figlio da lui e una meravigliosa studentessa che vorrebbe sposarlo. James Leer è il suo migliore allievo all'università , ha anche lui un romanzo nel cassetto e l'inclinazione a mentire. Sono loro i Wonder Boys, i ragazzi prodigio del secondo romanzo di Chabon, che in un weekend di folli avventure cercano di dare un senso alle loro vite.
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Informazioni
Print ISBN
9788817870078eBook ISBN
9788858628812MICHAEL CHABON
WONDER BOYS
Traduzione di
Luciana e Margherita Crepax
Luciana e Margherita Crepax

Proprietà letteraria riservata
© 1995 by Michael Chabon
©2002 RCS Libri S.p.A., Milano
©2002 RCS Libri S.p.A., Milano
eISBN 978-88-58-62881-2
Prima edizione digitale 2013 da edizione Rizzoli giugno 2002
L’autore ringrazia Mary Evans e Douglas Stumpf: Tigri ed Eufrate di questo piccolo impero
Copertina: © Zefa, progetto grafico di Matteo Bologna per Mucca Design
www.rizzoli.eu
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La Scala
Dedica
A Ayelet
Credano quello che preferiscono, io non volevo annegare, volevo nuotare finché non andavo a fondo, ma non è la stessa cosa.
Joseph Conrad
Il primo vero scrittore che ho conosciuto si firmava con il nome di August Van Zorn. Abitava al McClelland Hotel, di proprietà di mia nonna, nella stanza più in alto della torretta, e insegnava letteratura inglese al Coxley, un piccolo college sull’altra riva del Pennsylvania, il fiume che divide in due la nostra città . Si chiamava, in realtà , Albert Vetch ed era, credo, un cultore di Blake; infatti mi ricordo che sulla carta da parati ruvida e sbiadita della sua camera, al di sopra di un attaccapanni a muro di legno, con le spalle spioventi, che era appartenuto a mio padre, teneva appesa in cornice la riproduzione di un acquerello di Blake, Il vecchio dei giorni. La moglie del signor Vetch, da quando, qualche anno prima, i loro figli adolescenti erano morti per una esplosione nel cortile dietro casa, viveva in una clinica vicino alla città di Erie e avevo sempre avuto l’impressione che lui scrivesse quasi esclusivamente per guadagnare i soldi necessari a tenerla lì. Scriveva racconti dell’orrore, a centinaia, molti dei quali, prima o poi, venivano pubblicati su periodici dell’epoca, quali «Weird Tales», «Strange Stories», «Black Tower» e altri. Erano racconti gotici, alla maniera di Lovecraft, ambientati in tranquille cittadine della Pennsylvania che avevano avuto la disavventura di essere state costruite su aree abbandonate dove, in passato, si erano verificate visitazioni di divinità aliene assetate di sangue ed erano stati celebrati i culti della tortura irochese, ma erano scritti in una lingua asciutta, ironica, a tratti quasi bizzarra, un’eco della quale avrei scoperto in seguito nei romanzi di John Collier. August Van Zorn scriveva di notte, con la penna stilografica, seduto su una sedia a dondolo di legno, con una pesante coperta Hudson Bay avvolta intorno alle ginocchia e davanti a sé, sul tavolo, una bottiglia di bourbon. Quando il lavoro andava bene, lo si sentiva in ogni angolo dell’albergo addormentato dondolare avanti e indietro, mentre sottoponeva i propri eroi ai raccapriccianti effetti delle loro passioni innominabili.
Il mercato del racconto horror, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, si era esaurito e le buste di carta leggera, di un bianco poco uniforme, con i leggendari indirizzi di New York nel mittente, non erano comparse più con la regolarità di un tempo sul vassoio Belleek di porcellana lucente che mia nonna teneva sul pianoforte e, di lì a poco, avevano smesso del tutto di arrivare. So che August Van Zorn era ricorso a un compromesso, aveva spostato l’ambientazione dei suoi racconti nei quartieri della periferia e ne aveva accentuato l’aspetto umoristico, cercando poi, senza successo, di vendere questi scritti addomesticati, burleschi al «Collier’s» o al «Saturday Evening Post». Un lunedì mattina, quando avevo quattordici anni, l’età in cui avrei potuto cominciare ad apprezzare le opere dello sconosciuto, gentile disistimatore di se stesso, che da dodici anni viveva con mia nonna e con me sotto lo stesso tetto, Honoria Vetch si era gettata nel piccolo, rapido fiume che scorreva accanto alla casa di cura, attraversava la nostra cittadina e finiva nel giallo Allegheny. Il corpo non era stato ritrovato. La domenica successiva, mia nonna, appena tornata con me dalla chiesa, mi aveva mandato all’ultimo piano a portare il pranzo al signor Vetch. Di solito ci andava lei – diceva che sia io sia il signor Vetch facevamo perdere tempo l’uno all’altro – ma era arrabbiata con lui perché proprio quella domenica, tra tutte le domeniche libere della sua vita, si era rifiutato di andare in chiesa. Così, aveva tolto la crosta da due tartine al pollo e le aveva messe su un vassoio con una saliera, una pesca bianca e una Bibbia nella versione autorizzata di re Giacomo; io ero salito in camera del signor Vetch e l’avevo trovato con un forellino bordato di nero sulla tempia sinistra, seduto sulla sua sedia di legno ricurvo che ancora dondolava lentamente. Nonostante la sua inclinazione per i coaguli di sangue letterario e a differenza di mio padre che, secondo quanto mi era parso di capire, a suo tempo aveva messo tutto sottosopra, Albert Vetch se n’era andato lasciandosi alle spalle un ordine perfetto e una minima quantità di sangue.
Se dico che Albert Vetch è stato il primo vero scrittore che abbia conosciuto, non è perché fosse riuscito, per un po’ di tempo, a vendere ai giornali quello che scriveva, ma perché, per primo, aveva avuto il male della mezzanotte, la sedia a dondolo, la bottiglia di bourbon accanto e l’occhio fisso, lucido d’insonnia, anche durante il giorno. È stato in ogni caso, a ripensarci, il primo scrittore, vero o presunto, che io abbia incontrato sul mio cammino, in una vita che, nel suo insieme, ha avuto forse un eccesso di esponenti di quella agra e mutevole razza. Ed è una sorta di modello che ancora oggi, da scrittore, porto con me. Spero di non essermelo inventato.
La storia della vita di August Van Zorn e di quello che aveva scritto era presente nei miei pensieri quel venerdì, mentre andavo all’aeroporto a prendere Crabtree. Sarebbe stato impossibile per me vedere Terry Crabtree senza ricordare quei vecchi, strampalati racconti, perché il legame che ci univa da molto tempo aveva tratto la sua origine, se così si può dire, dall’aspetto oscuro di Van Zorn, dal totale, miserabile fallimento che aveva contribuito ad avvilire lo spirito di un uomo che mia nonna paragonava a un ombrello rotto. La nostra stessa amicizia era arrivata ad assomigliare, dopo vent’anni, a una delle città dei racconti di Van Zorn, una struttura eretta, del tutto inconsapevolmente, su una sottilissima membrana di realtà , al di sotto della quale giaceva una enorme massa latente, con un enorme occhio giallo, già semiaperto, che guardava in su, verso di noi. Tre mesi prima era stata annunciata la presenza di Crabtree al WordFest – gli avevo procurato io l’invito – e nel frattempo, sebbene mi avesse lasciato molti messaggi, gli avevo parlato una volta sola, per cinque minuti, una sera di febbraio, quando ero tornato a casa, piuttosto alterato, dopo una serata dal rettore, per mettermi una cravatta e raggiungere mia moglie a un’altra festa che il suo capo dava, quella sera, a Shadyside. Mentre parlavo al telefono con Crabtree mi facevo una canna e stavo aggrappato al ricevitore come a una maniglia; ero al centro di un tunnel lungo e largo, dove fischiava il vento, i capelli mi sbattevano in faccia e la cravatta mi svolazzava dietro il collo. Avevo avuto l’impressione confusa che il mio più vecchio amico mi stesse parlando con un tono acceso e risentito, ma le sue parole mi erano volate accanto come sottili trucioli arricciati o pezzetti di stagnola che salutavo con la mano mentre passavano. Insomma, quel venerdì era una delle poche volte nella storia della nostra amicizia in cui non avevo voglia di rivederlo; era un’idea che mi spaventava.
Avevo lasciato che gli studenti del seminario dell’ultimo anno andassero a casa prima, con il pretesto del WordFest e tutti, mentre uscivano, si erano voltati, uno dopo l’altro, a guardare il povero James Leer. Avevo finito di riunire tutti i fogli fotocopiati e annotati, con le osservazioni scritte a macchina sul suo ultimo strano racconto, li avevo ficcati in cartella, mi ero messo il cappotto e stavo per uscire, quando mi ero accorto che lui era ancora seduto lì, in fondo alla classe, nel cerchio delle sedie rimaste vuote. Sapevo che avrei dovuto dire qualche parola per consolarlo – il seminario aveva rappresentato una prova particolarmente difficile per lui – mi sembrava che desiderasse sentire la mia voce, ma avevo fretta di arrivare all’aeroporto e inoltre m’infastidiva vederlo sempre presente come uno spettro, perciò lo avevo salutato e mi ero avviato alla porta. «Spenga la luce, per piacere» aveva detto con la sua vocina strozzata, velata di polvere. Sapevo di sbagliare, ma me n’ero andato lo stesso, scrivendo così il mio epitaffio, o meglio uno dei miei epitaffi, che verranno incisi, a caratteri minuti per farceli stare tutti, sui quattro lati della mia pietra tombale. Avevo lasciato James Leer seduto lì, da solo, nel buio, ed ero arrivato all’aeroporto con un anticipo di mezz’ora, che mi aveva dato la possibilità di farmi una canna al parcheggio, mentre ascoltavo Ahmad Jamal, e non intendo, ora, negare di aver vagheggiato quella celestiale mezz’ora dal momento in cui avevo congedato i miei allievi. Nel corso degli anni passati mi ero concesso molti vizi, whiskey, sigarette e varie droghe non newtoniane, ma la marijuana e io eravamo rimasti amici fedeli. Avevo trenta grammi di profumata Humboldt County californiana in una bustina chiusa con la cerniera lampo dentro lo scomparto del cruscotto.
Crabtree scese dall’aeroplano con una valigetta di tela e un portaabiti appoggiato a un braccio. Gli stava accanto una persona alta di statura, non priva di fascino. Aveva lunghi riccioli neri, uno sbalorditivo soprabito rosso sopra un vestito nero, tacchi da dodici centimetri e rideva, felice, per qualcosa che Crabtree le stava bisbigliando con le labbra semichiuse. Non mi pareva una donna, ma non ne ero sicuro.
«Tripp!» Crabtree mi tese la mano libera. Poi posò la valigetta per abbracciarmi e io lo tenni stretto un secondo o due più del necessario, cercando di capire dalla saldezza delle sue costole se mi voleva ancora bene. «Sono felice di vederti. Come stai?»
dp n="14" folio="14" ? Mi sciolsi dall’abbraccio e feci un passo indietro. Aveva la sua solita espressione sprezzante, lo sguardo vivido e duro, ma non sembrava che ce l’avesse con me. Si era lasciato crescere i capelli col passare del tempo, ma non come fanno, a quarant’anni, molti uomini alla moda, per compensare una incipiente calvizie, quanto per una pura e incontrastabile vanità : aveva bellissimi capelli folti, castani, che gli scendevano sulle spalle come un impeccabile manto.
Portava un impermeabile con la cintura, di un colore tra l’oliva e il marrone spento, ben tagliato, su un vestito molto elegante, un completo italiano di seta a riflessi metallici, verde come il rovescio di un biglietto da un dollaro, mocassini di cuoio intrecciato, niente calze, e un paio di occhiali dalla montatura rotonda, come quelli di uno scolaro.
«Ti trovo molto bene» dissi.
«Grady Tripp. La signorina Antonia... mmh...»
«Sloviak» disse la persona con una normale, graziosa voce femminile. «Piacere di conoscerla.»
«Abbiamo scoperto che abita dietro l’angolo di casa mia, sulla Hudson.»
«Ah» dissi «è la strada di New York che preferisco.» Cercai di condurre, con discrezione, uno studio sull’architettura del seno della signorina Sloviak, ma lei portava, legato intorno al collo, un foulard a colori vivaci. Pensai che già in sé potesse costituire un indizio. «Il bagaglio?»
Crabtree riprese di nuovo per il manico la valigetta azzurra e mi diede il portaabiti. Mi parve molto leggero.
«Tutto qui?»
«Tutto qui. Credi che possiamo dare un passaggio alla signorina Sloviak?»
«Sì, certo» risposi con una fitta di apprensione, perché cominciavo a vedere che specie di serata mi si stava prospettando. Conoscevo troppo bene l’espressione dell’occhio di Crabtree. Mi guardava come se fossi un mostro, creato dal suo stesso cervello e dalle sue mani, e stesse per far scattare l’interruttore che mi avrebbe portato in giro per la campagna a saccheggiare le fattorie e violentare la rurale comunità femminile. Un’idea che era scaturita da molte altre e, se gli fosse capitato tra le mani il mezzo per una nuova azione di disturbo, ne avrebbe approfittato senza pietà quella notte stessa. Se la signorina Sloviak non era già un travestito, ci avrebbe pensato Crabtree. «Il nome dell’albergo?»
«Oh, ma io abito qui!» disse la signorina Sloviak, con un principio di rossore. «Veramente non io, ma i miei genitori. A Bloomfield. Lei, però, può lasciarmi in centro. Prenderò un taxi.»
«Bene, noi dobbiamo proprio fermarci in centro, Crabtree» risposi, per dimostrare che i miei spostamenti riguardavano solo lui e che consideravo la signorina Sloviak solo un’aggiunta temporanea alla nostra serata «per passare a prendere Emily.»
«Dove andiamo a cena?»
«A Point Breeze.»
«È lontano da Bloomfield?»
«Non molto.»
«Bene, allora» disse Crabtree e, guidando la signorina Sloviak per il gomito, si avviò al ritiro bagagli, muovendo alacremente le sue gambe magre per stare al passo con lei. Voltò la testa per invitarmi a seguirli. «Vieni, Tripp!»
Il bagaglio del loro volo non si vedeva ancora scorrere sul nastro e la signorina Sloviak ne approfittò per andare in bagno, nel bagno delle signore, naturalmente. Crabtree e io restammo ad aspettarla, scambiandoci ogni tanto un largo sorriso.
«Ho ripreso a fumare» disse Crabtree.
«Sei incorreggibile. Come stai?»
«Da disoccupato» rispose, senza per questo apparire meno soddisfatto di sé.
dp n="16" folio="16" ? Accennai ancora a un sorriso, ma poi qualcosa in lui, una leggera contrazione della mascella, mi fece capire che non stava scherzando.
«Ti hanno licenziato?» chiesi.
«Ancora no, ma è nell’aria. Me la caverò. Ho passato la settimana a far telefonate. Sono stato a pranzo con qualcuno un paio di volte.» Inarcava le sopracciglia, ridacchiando, come se quella circostanza poco gradevole non mancasse di divertirlo, ma c’era una forte vena di autolesionismo in Terry Crabtree e certamente, in qualche misura, si divertiva davvero. «Non ho trovato, complessivamente, molta disponibilità .»
«Ma Cristo, Terry, perché? Che cos’è successo?»
«Esubero.»
Due mesi prima, la mia casa editrice, la Bartizan, era stata acquistata dal Blicero Verlag, una grossa conglomerata tedesca specializzata in mezzi di comunicazione, e le voci di una spietata operazione di pulizia generale a opera dei nuovi proprietari erano penetrate nell’entroterra, perfino a Pittsburgh.
«Ho l’impressione di non essere adatto al nuovo progetto aziendale.»
«Che cosa richiede?»
«Competenza.»
«Dove andrai?»
Crabtree scosse la testa, si strinse nelle spalle.
«Allora, ti è piaciuta la signorina Sloviak?» chiese. «Era seduta vicino a me in aereo.» Da qualche parte suonò un campanello, per avvertirci che la giostra delle valigie stava per cominciare. Ebbi l’impressione che fossimo colti tutti e due di sorpresa. «Tu non sai» proseguì Crabtree «su quanti aerei sono salito con la speranza che il mio biglietto mi destinasse un posto accanto a una come lei. E mi va a capitare in un viaggio per Pittsburgh! Non credi che dica molto su Pittsburgh il fatto che abbia prodotto una signorina Sloviak?»
dp n="17" folio="17" ? «È un travestito.»
Crabtree mi parve sconvolto. «Dio, no!»
«Non è così?»
«Scommetto che quella è sua.» Crabtree indicò una grossa valigia rettangolare di pelle di cavallino maculata, che avanzava sul nastro di gomma, chiusa con una cerniera dentro quello che sembrava l’involucro di plastica trasparente di un cuscino da divano. «Non vuole sporcarla.»
«Terry, cosa farai?» Mi sembrava che il campanello che avevo sentito poco prima seguitasse a suonare dentro di me come un allarme. E cosa farò io, pensai. Che ne sarà del mio libro? «Da quanti anni...
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