L'Italia dei comuni - Il Medio Evo dal 1000 al 1250
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L'Italia dei comuni - Il Medio Evo dal 1000 al 1250

La storia d'Italia #2

  1. 416 pagine
  2. Italian
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L'Italia dei comuni - Il Medio Evo dal 1000 al 1250

La storia d'Italia #2

Informazioni su questo libro

Tra il 1000 e il 1250 si assiste in Italia a una rinascita politica, culturale e spirituale: le città si ripopolano, si intensificano i commerci e le comunicazioni, la poesia in volgare muove i primi passi, si rinnovano gli ordini monastici. In questi due secoli e mezzo si decide in una certa misura il destino del Paese, e si consuma quello che gli autori definiscono "il suo aborto come Stato nazionale". Il nuovo millennio vede difatti l'affermarsi di entità capaci di influenzare fortemente il panorama italiano: i Comuni. Diversi per sviluppo, organizzazione, fisionomia e tradizioni, questi organismi locali si costituiscono in vere e proprie città-stato, garantendo un forte sviluppo locale ma al contempo accendendo conflitti che hanno a lungo impedito un percorso verso l'unità. Intanto, alle lotte intestine tra Genova e Pisa, Amalfi e Venezia, Firenze e Siena, si uniscono guerre epocali quali le Crociate, e scontri ideologici come il grande scisma. Conflitti, cambiamenti e rivoluzioni animati da grandi personalità, che già annunciano il periodo d'oro del Rinascimento: Federico Barbarossa e Tommaso d'Aquino, Arnaldo da Brescia e Francesco d'Assisi, Federico II di Svevia e Domenico di Guzmán. L'Italia dei Comuni è un'opera intensa, coinvolgente, che incarna perfettamente l'ideale dei suoi autori "che i fatti vadano raccontati, perché nessuno è obbligato a saperli o a ricordarli, e che i loro protagonisti siano soprattutto gli uomini, i loro caratteri, le loro passioni, i loro interessi". "Noi riteniamo che i fatti vadano raccontati, perché nessuno è obbligato a saperli o a ricordarli, e che i loro protagonisti siano soprattutto gli uomini, i loro caratteri, le loro passioni, i loro interessi."

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817044028
eBook ISBN
9788858642863
Argomento
Storia

PARTE SECONDA

LA SCENA ITALIANA

CAPITOLO UNDICESIMO

«VICINANZE» E «POPOLI»

Apriamo la finestra sul paesaggio di un tipico «Comitato» italiano, quello di Firenze-Fiesole, che può fare da «campione» di tutta la Penisola. Le sue dimensioni non superano quelle di un moderno circondario. Eppure nella sua ristretta area si affollano in quest’epoca oltre duecento castelli: ogni altura ne ha uno, arrampicato sul cocuzzolo, con le sue mura arcigne, la sua torre di guardia, il suo ponte levatoio. L’inquilino è un vassallo del Margravio di Toscana. Egli amministra il suo distretto, composto di un certo numero di poderi, in nome di questo Margravio, Conte o Marchese che lo si voglia chiamare, il quale a sua volta vi rappresenta teoricamente l’autorità imperiale.
Questo è pressappoco l’ordinamento che Carlomagno aveva dato al suo immenso Reame. Ma ha funzionato solo finché a governarlo era lui. Poi si è decomposto, anche se rimane «sulla carta». Arroccati nei loro castelli, i vassalli sono diventati sempre più indipendenti dal Margravio, specie da quando la Constitutio de feudis promulgata da Corrado il Salico ha concesso loro di tramandare ai discendenti il titolo nobiliare con le terre che vi sono connesse, cioè di disporne come di un bene patrimoniale. La disponibilità ereditaria ne ha fatto dei padroni di pieno e assoluto diritto. Ogni tanto riappare un Margravio abbastanza forte e autoritario per rifar valere la sua autorità: è il caso di Ugo, di Bonifacio, di Matilde. Ma poi la decomposizione ricomincia e si accentua.
I motivi del fenomeno sono facili da capire. Anzitutto, l’autorità del Margravio dipende da quella del potere imperiale su cui si appoggia e che si era fatta sempre più intermittente. Eppoi, egli non può contare sul sostegno delle cosiddette «masse», con le quali non ha nessun contatto immediato. Il contadino che ara il campo lungo le pendici non conosce e non riconosce, come padrone, che il «suo» castellano: quello che abita lassù, nella turrita rocca in cima al colle. Perché è costui che interferisce nella sua vita privata, svolgendovi due compiti, uno gradito, e l’altro sgradito, ma entrambi decisivi: quello di protettore e quello di esattore. Lassù bisogna portare un terzo del raccolto, e di questo il contadino farebbe volentieri a meno. Però lassù, dietro quelle salde mura, egli può anche rifugiarsi con la famiglia e il bestiame, se all’orizzonte appaiono – come a quei tempi frequentissimamente succede – bande di saccheggiatori ungheresi, normanni o saraceni.
Tutto questo crea, fra il Signore e il contadino, un rapporto complesso. Il castello sovrasta torvamente e domina le casupole che gli si accucciano ai piedi. Spesso il suo inquilino commette soprusi e angherie, magari riducendo con la forza un piccolo libero proprietario dei dintorni allo stato servile. Però la vista del maniero infonde fiducia in questi tempi tribolati, in cui la giustizia non può nulla contro la violenza. Tutti cercano di starvi vicino quanto più possono. E quando ne vedono crollare o pericolare un muraglione, si arruolano gratis come manovali per ricostruirlo. Accorrono a dare una mano anche i preti e i monaci delle chiese e dei conventi della zona. Perché anch’essi, in caso di pericolo, hanno il diritto di rifugiarsi nella rocca.
Questa non è dunque soltanto la dimora privata di un esoso padrone. Ma anche la fortezza di tutti. E, come tale, un bene della collettività. Tant’è vero, che anche il servizio di guardia, o di «guaita», è volontario e gratuito. I contadini si distribuivano fra loro i turni di giorno e di notte. E dai documenti non appare che abbiano mai protestato contro queste prestazioni. Anzi, anche molti «liberi» si offrivano per assolverle.
I Signori erano tutti discendenti dei guerrieri longobardi e franchi che avevano conquistato l’Italia. Ma anche quelli franchi avevano adottato la regola longobarda, che li autorizzava a esigere dai soggetti un terzo dei prodotti della terra. I soggetti non erano soltanto i contadini. Erano anche gli abitanti delle borgate che, quando non vivevano di agricoltura, dovevano fornire un terzo del loro reddito in denaro. Costoro avevano col castellano un rapporto assai diverso. Non vedevano nel castello un rifugio, perché la borgata di solito aveva mura per conto proprio e si difendeva da sé. Quindi il castellano, per loro, era solo un rastrellatore di oboli.
Oltre al terzo del prodotto o al suo equivalente in denaro, il Signore poteva, o si arrogò il diritto d’imporre al borghigiano altri obblighi: per esempio quello di «albergaria», cioè di alloggiare gratuitamente i suoi ospiti di passaggio quando, poniamo, il castello era pieno. E il Vescovo di Batoni nel pistoiese, per esempio, che era anche feudatario della zona, esigeva dai poveri contadini delle sue terre che gli fornissero tre volte alla settimana un pasto che ci riempie d’invidia per i suoi succhi gastrici.
Questo e altri piccoli episodi, che lo storico Davidsohn ha ripescato nei documenti dell’epoca, ci dimostrano che le regole contavano fino a un certo punto. Un tratto caratteristico del Medio Evo è proprio la facilità con cui un abuso poteva tramutarsi in diritto acquisito. E fu appunto il bisogno di mettersene al riparo che sviluppò fra i soggetti il sentimento della solidarietà. Essi non si trovano tutti nella medesima condizione giuridica: il «servo», cioè l’antico abitatore di cittadinanza romana, non era che un «oggetto», il quale veniva venduto insieme al podere o al castello, come risulta da certi contratti: il convento di Passignano per esempio acquistò nel 1163 «un uomo di nome Giovanni insieme con i suoi eredi». Il «libero», che quasi sempre discendeva da un soldato franco o longobardo non riuscito a far carriera, non si poteva vendere. Ma, a parte questo, anche lui era tenuto a pagare gli stessi tributi ed esposto a subire le stesse «angherie»: parola che in origine significava «servizio obbligatorio e gratuito dei trasporti per conto del Signore». E questo creò fra le due categorie una comunanza d’interessi che permise loro di fare un fronte unico e facilitò quella «integrazione» fra conquistatori e conquistati che Goti e Longobardi avevano cercato di evitare con discriminazioni razziali.
La incubatrice di questo solidarismo fu la più microscopica delle cellule sociali, sia in campagna che in città: la «vicinanza». E la parola basta a spiegare di che si tratta. La democrazia americana si regge tuttora sulla vicinanza o «good neighbourhood». Il buon vicino è quello che, invece di badare solo a se stesso, aiuta il suo vicino, e insieme a lui collabora al mantenimento dell’ordine, alla riparazione della pubblica fogna, insomma al bene comune. Questo avvenne anche nell’Italia del Medio Evo (e magari si potesse dire altrettanto di quella d’oggi!), dove il senso della vicinanza era così vivo che per esempio un creditore aveva il diritto di far prigioniero il vicino del suo debitore. Erano i vicini, non i familiari, che portavano sulle spalle la bara del morto al cimitero. E quando fra loro sorgeva una contestazione, non la rimettevano al giudice ufficiale delegato dal Signore, ma a due «buoniuomini» scelti di comune accordo dentro la vicinanza.
Questa fu la cellula del Comune italiano, e nacque in campagna prima che in città, anche perché la campagna in quel momento contava più della città. Il vicino fu il primo «cittadino», sia pure di una minuscola comunità. Fu lui a dare l’avvio a certi diritti consuetudinari che non avevano nulla a che fare con la legge ufficiale e ad alcuni usi civici che si sono tramandati fino a oggi. Dapprima badarono a regolare i loro reciproci diritti al di fuori e spesso all’insaputa del Signore e dei suoi «gastaldi» o funzionari. Ma poi li affermarono anche contro di lui, come fecero i fiesolani quando, ribellatisi nel 1130 al loro Vescovo che basava la pretesa di certe decime su documenti latini che i soggetti non sapevano decifrare, costoro fecero valere la regola che la testimonianza orale aveva prevalenza su quella scritta: ch’era una rivolta bella e buona contro il monopolio della Legge da parte della ristrettissima minoranza che sapeva leggerla e probabilmente l’applicava secondo il proprio tornaconto ai danni degli analfabeti, i quali rappresentavano il novantanove per cento della popolazione.
Il primo istituto della democrazia comunale fu l’«adunanza dei vicini» ch’era già in uso al tempo dei Longobardi, ma che dopo il Mille diventò consuetudinaria. Questo rudimentale parlamento aveva la sua sede nel sagrato della chiesa, e il suo simbolo e feticcio nell’olmo che di solito vi sorgeva in mezzo. Specie in Toscana l’olmo è un albero sacro come lo è il tiglio in Germania, proprio per questo: perché rappresenta il più antico cimelio della democrazia comunale. Quando gli aretini assalirono Firenze nel 1288, la cosa contro cui più si accanirono fu l’olmo davanti alla chiesa di San Donato in Collina.
Ma, oltre che della democrazia, questa fu anche l’origine della forza politica della Chiesa in Italia. La «pieve» e il suo parroco si trovarono al centro di questi piccoli parlamenti alle cui vicende si mescolarono fin dalla nascita. Erano essi che gli fornivano l’alloggio sotto il loro olmo. Ed era al suono della campana che l’adunanza si riuniva.
Tema d’obbligo dei dibattiti erano i rapporti col Signore, laico o ecclesiastico che fosse. Perché era proprio per difendersi dai suoi soprusi che si era sviluppato tra i soggetti quel sentimento di solidarietà, cioè il civismo. E dai documenti risulta che queste assemblee, per quanto formate da poveri analfabeti, non si abbandonavano alla demagogia e al massimalismo. Le adunanze del contado fiorentino riconobbero per esempio che i soggetti erano obbligati alla buona manutenzione del castello e a fornirgli il portinaio e la guardia. Essi s’impegnano a immagazzinarvi vino, granaglie e legumi, ma non il bestiame, che ognuno ha il diritto di tenere nella propria stalla. Spetta al Signore determinare le bilance, i pesi e le misure con cui fare la spartizione, ma sotto il controllo di due delegati della «vicinanza».
Ogni vicinanza forma un «popolo» che può nominare come suoi rappresentanti dei «buoniuomini». E costoro a loro volta possono trattare in nome della collettività col Signore o col suo «Gastaldo», ma non coi rappresentanti di altri «popoli». In parole povere, possono svolgere un po’ di politica interna; ma quella estera è ancora monopolio del Signore. Però i liberi Statuti hanno già preso l’avvio.
Ora puntiamo il cannocchiale sulle città. Città per modo di dire. Non sono che borghi. Ma il fenomeno vi si ripete tal quale, stimolato dal diverso stato d’animo nei confronti del Signore che qui appare, l’abbiamo già detto, solo nella esosa veste dell’esattore d’imposte. I rapporti con lui quindi sono più acri, ma seguono pressappoco la stessa evoluzione che nelle campagne perché il punto d’origine è sempre il medesimo: la vicinanza. Alla quale però il processo d’integrazione si ferma.
Ecco un fenomeno quasi inesplicabile, data la sua contraddizione con l’urbanistica del tempo, quasi sempre accorpata e compressa nel ristretto perimetro delle mura. Ciò avrebbe dovuto provocare o almeno favorire la fusione delle varie vicinanze o «contrade» come si chiamavano a Siena. Invece, no. Firenze, subito dopo il Mille, avrà avuto sì e no tremila abitanti. Ma essi erano divisi in quattro «quartieri» che prendevano il nome dalle quattro porte della città (Duomo, San Pancrazio, Santa Maria e San Pietro) con quattro ben distinti «popoli» che seguivano, sì, la stessa evoluzione, ma ognuno indipendentemente dall’altro.
Ogni popolo faceva capo alla propria chiesa, e in un certo senso vi sovrintendeva affiancando al parroco un «rettore» laico. Era lui che prelevava le imposte, impegnando i contribuenti con giuramento sull’altare a dichiarare lealmente i propri redditi. Solo in rare ed eccezionali occasioni i popoli si adunavano per comuni delibere. Ma anche in questo caso ogni popolo vi s’impegnava per conto suo. Lo stesso accadeva per i pubblici servizi. Ogni popolo pensava alla manutenzione delle sue strade e alla ripulitura dei suoi fossi di scolo. A una «pianificazione» cittadina non si riuscì ad arrivare quasi mai.
Fu solo molto più tardi e non senza gravi opposizioni che si formarono dei poteri centrali. Ma essi non furono che la somma di quelli particolari di quartiere. E fu questo il motivo della endemica inefficienza degl’istituti democratici medievali. La unificazione fu raggiunta solo al vertice, quando i rettori si trasformarono in «consoli» e si costituirono in un corpo che però non funzionò mai perché ogni popolo ne aveva quattro che badavano più a paralizzare gli altri dodici che non a collaborare con loro. A questa svogliata e zoppicante centralizzazione si era giunti solo per ragioni fiscali. Firenze aveva, agli occhi del suo contado, soppiantato il castello usurpandone le funzioni, cioè diventando essa stessa castello, solo più grande e popoloso, ma altrettanto guarnito di mura. Essendosi sostituita al Signore nella prestazione di questo servizio, si sentì autorizzata a sostituirglisi anche nell’esazione delle imposte. Essa riconosceva alla gente del contado diritto di alloggio in città in caso di pericolo. Ma se lo faceva ripagare con una tassa, di cui non siamo del tutto sicuri che fosse meno esosa di quella che imponeva il castello. Ora, questo compito fiscale non potevano svolgerlo i singoli popoli o quartieri. Doveva assumerlo la città nel suo insieme. Fu dunque anzitutto la Vanoni che unificò alla meglio Firenze e ne fece un «Comune».
Ma un’altra spinta venne dalla lotta contro il Signore per lo sviluppo delle autonomie. Questo Signore era il Margravio in persona, perché nessuno dei suoi feudatari aveva abbastanza potere per esercitarlo su una città come Firenze, per quanto piccola ancora fosse. Questo Margravio, lo abbiamo visto, era un signore lontano, che trascorreva gran parte del suo tempo alla Corte imperiale e il resto nelle sue terre perché, da buon militare tedesco, preferiva il castello al palazzo e la caccia al salotto. Quando voleva fare una capatina in città, andava a Lucca, perché era quella la sua capitale. A Firenze teneva soltanto dei Visconti o Gastaldi, cioè dei funzionari, ad amministrarvi in suo nome una giustizia che rare volte si differenziava dall’arbitrio.
È impossibile assegnare una data alla ribellione, che del resto non fu mai tale anche perché nemmeno il servaggio fu mai tale. Un po’ di autonomia Firenze l’aveva goduta fin dai tempi dei Longobardi. I documenti sono molto incerti. Ma ce n’è uno del 1160 che ci consente una certa retrospettiva. È la richiesta ufficialmente rivolta dai fiorentini a un nuovo Margravio perché venga a raccogliere il loro giuramento di fedeltà a Firenze «secondo consuetudine». I fiorentini chiedevano il rispetto di questo rituale perché esso sottintendeva che il giuramento di fedeltà da parte loro veniva reciprocato da parte del Signore con l’impegno a rispettare i diritti della città.
Lo sviluppo di questi diritti è incerto appunto perché fu abbastanza pacifico. Nel 1046 Firenze per esempio aveva già un suo servizio postale a mezzo di corrieri a cavallo. Alla fine del secolo aveva un’Intendenza delle Belle Arti: il che ci dimostra l’esistenza di un bilancio e di un patrimonio di edifici pubblici, soprattutto chiese. In un primo momento la loro costruzione era stata finanziata solo con lasciti privati. Ora cominciavano a sorgere per sottoscrizione di tutti i cittadini. Non risulta che il Visconte o Gastaldo si sia ingerito in queste faccende. La cittadinanza faceva per suo conto, e con soldi suoi.
Ma la grande svolta, nei rapporti fra città e Margravio, fu l’identificazione dei rappresentanti dell’una con quelli dell’altro. Anche in questo caso l’evoluzione fu lenta. Le vicinanze, abbiamo detto, avevano espresso la burocrazia dei buoniuomini. E costoro si erano già guadagnati un riconoscimento dal Margravio, facendosi chiamare da lui come assistenti e coadiutori nei suoi tribunali. Ma la loro competenza si limitava al popolo che li aveva eletti, non si estendeva a tutta la cittadinanza. In nome di questo popolo essi trattavano coi rappresentanti degli altri popoli. Ma il potere esecutivo restava in mano del Gastaldo o Visconte. Fu quando ebbero conquistato anche quello, che i buoniuomini si trasformarono in «Consoli». Certamente quest’ultimo traguardo non fu raggiunto senza lotta col Margravio e i suoi Gastaldi. Lo dimostra lo stesso compromesso cui si scese ai tempi di Matilde, quando l’autoritaria Margravia nominò suo Visconte a Firenze un certo Pietro che ne era anche Console, cioè avallò e riconobbe come suo rappresentante quello che i fiorentini si erano già scelto come rappresentante loro.
Ecco come si era conclusa per il momento la lotta. I cittadini eleggevano i loro Consoli, cioè il loro governo. Il Margravio, li riconosceva affidando la presidenza del loro collegio a uno di essi col titolo di Visconte, che quindi esercitava il suo ufficio per conto dei sudditi e in nome del Margravio. Costui, con questa trovata, salvava la faccia, ma niente altro. Non era ancora la piena indipendenza. Formalmente, essa non fu mai raggiunta, perché il Margravio rappresentava un Impero che mai rinunciò ai suoi platonici diritti su quelle ch’erano state le terre di Carlomagno. Ma sostanzialmente essa diventò completa con l’istituzione, avvenuta però assai più tardi, della suprema magistratura: il Podestà.
Questa faticosa conquista dell’autonomia i fiorentini poterono compierla grazie anche a un potente alleato, di cui seppero servirsi con un’accortezza pari alla spregiudicatezza: il Vescovo. E la manovra va spiegata perché in essa si riassume tutto lo svolgimento della situazione politica italiana durante il conflitto fra la Chiesa e l’Impero.
Nel contado, lo abbiamo già detto, il parroco, la sua cappella e il suo olmo si trovarono fin da principio mescolati alla evoluzione delle «vicinanze» e alla formazione dei primi rudimentali istituti democratici. La «vicinanza» non era che la parrocchia, e il suo centro la «pieve».
Altrettanto avvenne nella città, che immediatamente s’identificò nella diocesi. Fu per questo che fin da principio i fiorentini pretesero esercitare un’ingerenza negli affari del Vescovato, e ci riuscirono. L’unico Vescovo che, a quanto se ne sa, cercò di opporsi appoggiandosi sul Margravio Bonifacio, fu Mezzabarba, che perciò nel 1068 venne scacciato dal popolo inferocito. Dai documenti risulta che i suoi successori accettarono una collaborazione laica, che voleva dire anche un controllo sulle loro faccende patrimoniali. Il «consiglio dei laici» o dei «fedeli laici» doveva essere interpellato dal Vescovo non solo per l’alienazione di beni della diocesi, o per l’erezione o il restauro di chiese; ma anche per la nomina di abati e parroci, il che rappresentava un’aperta violazione delle leggi canoniche.
I fiorentini tenevano molto a esercitare questa interferenza per vari motivi. Prima di tutto perché i confini della città o, come oggi meglio si direbbe, della «provincia», ...

Indice dei contenuti

  1. L’Italia dei Comuni
  2. Copyright
  3. Premessa di Sergio Romano
  4. L’Italia dei Comuni
  5. Parte Prima Papato E Impero
  6. Parte Seconda La Scena Italiana
  7. Parte Terza La Rivoluzione Della Cultura
  8. Appendice
  9. Indici
  10. Sommario
  11. Tavole