La guerra dei bottoni
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La guerra dei bottoni

  1. 336 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La guerra dei bottoni

Informazioni su questo libro

È UNA GUERRA SENZA FUCILI: NESSUNO SPARO RIECHEGGIA PER LA CAMPAGNA, NEMMENO UNA GOCCIA DI SANGUE VIENE VERSATA. IL NEMICO SI ACQUATTA DIETRO I CESPUGLI PRONTO A STRAPPARTI I BOTTONI. CHI TORNERÀ A CASA A BRAGHE CALATE?

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817044189
eBook ISBN
9788858632086

LIBRO III

LA CAPANNA

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La costruzione della capanna

Avremo letti colmi d’odori leggeri, e divani profondi come tombe.
CH. BAUDELAIRE (La morte degli amanti)



l’assenza di Gambette e Camus, e la misteriosa riservatezza del generale, non avevano mancato di incuriosire parecchio i guerrieri di Longeverne, che, individualmente e sotto il sigillo del segreto, erano venuti per una ragione o per l’altra, a chieder spiegazioni in merito a Lebrac.
Ma tutto ciò che i più favoriti poterono ottenere come informazione, si condensa in una sola frase:
«Guardate bene Touegueule, stasera.»
Alle quattro e dieci, dunque, gran scorta di munizioni davanti e tozzo di pane in pugno, ciascuno era al proprio posto, in impaziente attesa della venuta del velransesi e più attento che mai.
«Dovete star nascosti» aveva spiegato Camus, «perché bisogna che monti sull’albero, se vogliamo ghignare!»
Gli occhi spalancati, tutti i longevernesi seguirono ben presto ogni movimento dell’arrampicamento nemico in atto di raggiungere la sua postazione di vedetta nella parte alta del faggio della radura.
Guardarono, riguardarono, presero a fregarsi gli occhi ogni due minuti, ma non videro assolutamente niente di speciale! Toueguegule si piazzò come al solito, contò i nemici, indi afferrò la fionda e passò a “quadrellare” coscienziosamente gli avversari che riusciva a distinguere.
Ma nel momento in cui un gesto troppo brusco faceva chinare di lato il franco tiratore nel tentativo di schivare un proiettile di Camus (impazientitosi al ritardar della catastrofe), uno scricchiolio secco e di sinistro augurio franse l’aria. Il grosso ramo su cui stava a cavalcioni il velransese si spezzò netto, di colpo, e il traditore capitombolò con esso sulla testa dei soldati in basso. La sentinella aerea cercò sì di aggrapparsi ad altri rami, ma, fra un cozzo e una sbattuta contro i rami inferiori (che scricchiolavano a loro volta, la respingevano, o sguasciavano via traditori), arrivò a terra non si sa come, ma di sicuro più veloce che all’andata. «Ahi, osti’, uhi, vacca! La gamba, boia! La testa, crispo! La gamba!»
Una risata omerica rispose dal Folto Grande a questo concerto di lamenti.
«Allora t’ho fregato un’altra volta, eh?» schernì Camus. «Ecco cosa capita a fare il furbo e a minacciare il prossimo. Così impari a tirarmi fiondate, brutto stronzo! Non hai mica rotto il vetro dell’orologio, delle volte? Ma no! Il quadrante, lui, ha resistito…»
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«Vigliacchi! assassini! canaglie!» gettarono di rimando i superstiti dell’armata di Velrans. «Ma ce la pagherete, brutti banditi, oh se ce la pagherete!»
«Subito» rispose Lebrac, e, rivoltosi ai suoi:
«Allora, ce la facciamo una carichetta?»
«Certo!» approvarono tutti.
E l’urlo, come d’inseguimento della fiera, dei quarantacinque longevernesi apprese ai nemici, già disorientati di sconcerto, che era meglio menar le tolle se si voleva evitare l’ignominia di una nuova e disastrosa confisca di bottoni.
Il campo trincerato di Velrans si trovò sguarnito in un battibaleno. I feriti ritrovarono, come per incanto, le gambe: compreso Touegueule, che aveva avuto più paura che danno e che poteva cavarsela a buon mercato con qualche sbucciatura alle mani, lividi vari ai fianchi e alle cosce, e un bell’occhio nero.
«Ben, se non altro, ora stiamo tranquilli» constatò Lebrac l’istante successivo. «Andiamo a cercare il posto per la capanna!»
L’intera armata tornò verso Camus, disceso dall’albero per custodire momentaneamente il sacchetto confezionato dalla Marie Tintin e contenente il tesoro, già due volte salvato e quattordici volte caro, dell’esercito di Longeverne.
I ragazzi si ficcarono quindi nelle profondità del Folto Grande per andare a raggiungere, non visti, il covo scoperto da Camus (e da La Crique battezzato “La camera di consiglio”), e di qui piegare a piccoli gruppi verso la parte alta, dove scegliere, fra i molti posti a disposizione, quello che sembrasse più propizio e meglio confacente ai bisogni dell’ora e della causa.
Si formarono così, spontaneamente, cinque o sei bande, guidate ciascuna da un guerriero importante, le quali si dispersero fra le vecchie cave abbandonate, esaminando, cercando, rovistando, discutendo, valutando, consultandosi a vicenda.
Bisognava stare non troppo vicini al sentiero né troppo lontani dal Folto Grande; bisognava inoltre procurare alla truppa una via di ritirata perfettamente mimetizzata, in maniera da ottenere un collegamento senza pericoli fra il campo e la fortezza.
Fu La Crique a trovare il tutto.
Al centro di un labirinto di cave, uno scavo in forma di piccola grotta offriva un ricovero naturale, che si poteva facilmente consolidare, chiudere, e rendere invisibile ai profani.
La Crique chiamò Lebrac, Camus e gli altri col solito segnale, e presto tutti furono dinanzi alla caverna riscoperta dal compagno: perché, cavolo, tutti la conoscevano, e com’è che non gli era venuta in mente…?
Invece lui, vacca, con quella memoria di elefante che si ritrovava, se l’era ricordata subito, quel La Crique della madonna! Difatti, venti volte c’erano passati davanti, loro, nel corso di incursioni varie in cerca di nidi, di merli, di nocciole mature, di susine selvatiche o di bacche d’eglantina raggrinzite dal gelo.
Le cave precedenti formavano come un sentiero incassato che sfociava in una sorta d’incrocio o terrapieno, orlato, nella parte alta, da una striscia di bosco estesa fino al Teuré, e disseminato, verso quella bassa, di cespugli, fra i quali s’incrociavano, tagliando il sentiero, vari tratturi sfocianti nei prati boschivi che si trovavano dietro il Folto Grande.
L’armata entrò al completo nella caverna. Essa era, in realtà, poco profonda, ma si trovava prolungata, o meglio, preceduta da un ampio corridoio di roccia, sicché nulla impediva di ingrandirne il riparo naturale per mezzo di un tetto di fogliame che coprisse i pochi metri di separazione tra le pareti. Essa era inoltre mirabilmente protetta, cinta com’era da ogni lato, salvo che all’entrata, da una spessa cortina d’alberi e cespugli.
Bisognava dunque restringere l’apertura mediante un muro largo e solido, fatto con quei bei lastroni di cui il luogo abbondava. Finito l’esterno, si sarebbe passati all’interno; e, fra il muro e il resto, ci si sarebbe sentiti come a casa propria.
Qui, gli istinti edificatori di Lebrac si rivelarono in tutta la loro pienezza. Il suo cervello concepì, ordinò, distribuì la bisogna con sicurezza ammirevole e irrefutabile logica.
«Bisognerà raccogliere, a partire da stasera, ogni pezzo d’asse, ogni travicello, ogni putrella, ogni chiodo usato, ogni pezzo di ferro che ci capiterà sottomano» disse.
E incaricò un guerriero di trovare un martello, un altro delle tenaglie, un terzo un martello da muratore; lui avrebbe portato una scure, Camus una roncola, Tintin un metro (con la misura a piedi e pollici, però!): tutti, obbligatoriamente, dovevano inoltre soffiare dalla cassetta degli attrezzi di famiglia cinque chiodi a testa come minimo, preferibilmente di quelli grossi, per far immediata fronte alle più impellenti necessità edificatorie, come quella, fra l’altro, della costruzione del tetto.
Per quella sera, era più o meno tutto. In fatto di materiali, ci volevano soprattutto tavole e pali, e il bosco offriva una quantità di bei noccioli, dritti e robusti, che sembravano fatti apposta per lo scopo. In quanto al resto, Lebrac aveva imparato come si fa una palizzata per recintare un pascolo, e tutti sapevano come fabbricare un’intelaiatura: di pietre, poi, ce n’era quante se ne volevano.
«Soprattutto, mi raccomando, non dimenticate i chiodi!» disse.
«Il sacchetto lo lasciamo qui?» domandò Tintin.
«Ma certo» fece La Crique. «Adesso facciamo subito una specie di baule di sassi, là in fondo, e ce lo piazziamo dentro, che così starà ben protetto e all’asciutto. Chi è che vuoi che venga a scovarlo?»
Lebrac scelse una bella lastra che dispose orizzontalmente non lontano dalla parete di roccia; quindi, edificate quattro piccole mura con quattro altre più spesse e sistematovi al centro il tesoro, ricoprì il tutto con un’altra lastra e dispose tutt’intorno, a casaccio, dei sassi qualunque per mascherare quanto di troppo geometrico poteva avere la costruzione, nel caso, parecchio improbabile, che un inopinato visitatore fosse preso di curiosità per il cubo di pietra.
Dopodiché, allegra e soddisfatta, la banda se ne tornò lentamente al paese, facendo mille progetti, e pronta a ogni furto domestico, a ogni più rude lavoro, a ogni più totale sacrificio.
Avrebbero tradotto in pratica il loro desiderio: da questo atto, fatto da loro e per loro, nasceva la loro personalità. Così avrebbero avuto una casa, un palazzo, una fortezza, un tempio, un pantheon, ove sarebbero stati padroni, ove genitori maestro curato (i grandi ostacolatori di ogni bel progetto) non avrebbero ficcato il naso, ove avrebbero potuto fare in tutta tranquillità quanto era loro vietato in chiesa, in classe, e in famiglia: ossia, comportarsi male, stare a piedi nudi o in maniche di camicia, o magari biotti, accendere il fuoco, far cuocere delle patate, fumare foglie di viburno e, soprattutto, nascondere bottoni e armi.
«Faremo anche un camino» disse Tintin.
«E letti di muschio e di foglie» aggiunse Camus.
«E panche e seggiole» rincarò Grangibus.
«Soprattutto, mettete via più tavole e chiodi che potete» raccomandò il capo. «Cercate di portare il tutto dietro il muro o nella siepe del sentiero della Saute: riprenderemo la roba domani, quando verremo a cominciare.»
Quella sera, s’addormentarono molto tardi, il cervello infiammato, assillato dal palazzo, dalla fortezza, dal tempio, dalla capanna; e fu tutto un vagabondare dell’immaginazione, un ronzare di testa, un fissar nel vuoto degli occhi, un tendersi delle braccia, uno scattar di gambe, un agitarsi delle dita dei piedi… Non vedevano l’ora che spuntasse la nuova alba, per poter cominciare la grande opera.
Il mattino seguente, non ci fu bisogno di scossoni per farli saltar su; e, ben prima di colazione, fu tutto un ronzare per la stalla, il fienile, la cucina, la rimessa, alfine di metter insieme i pezzi d’asse e la ferraglia necessari a impinguare il tesoro comune.
Un assalto particolarmente terribile toccò alle cassette paterne dei chiodi. Dato il desiderio di ognuno di distinguersi e di mostrare la propria valentia, di chiodi, quella sera, Lebrac ne ebbe a disposizione non duecento soltanto, bensì cinquecentoventitrè, zan-zan sull’unghia! Per l’intera giornata fu un misterioso andirivieni, dal villaggio al Tiglio Grosso e ai muri della Saute, di prodi guerrieri dai giubbetti rigonfi, la camminata stenta, i calzoni rigidi, impegnati a nascondere, fra tela e pelle, oggetti della più varia specie che sarebbe stato oltremodo imbarazzante lasciar scorgere ai passanti.
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La sera, lentamente, molto lentamente, Lebrac giunse all’incrocio del vecchio tiglio per il sentiero “di didietro”. Aveva la gamba rigida pure lui, e pareva zoppicare.
«Ti hai fatto m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. Epigrafe
  5. Prefazione
  6. LIBRO I - LA GUERRA
  7. LIBRO II - SOLDI, SOLDI!
  8. LIBRO III - LA CAPANNA