L'Italia della controriforma - 1492-1600
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L'Italia della controriforma - 1492-1600

La storia d'Italia #4

  1. 300 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'Italia della controriforma - 1492-1600

La storia d'Italia #4

Informazioni su questo libro

Con la fine delle invasioni barbariche e l'inizio dell'era comunale, l'Italia aveva ritrovato un ruolo da protagonista nella storia europea, sia sul piano politico sia su quello economico e culturale. Gli ultimi anni del Quattrocento, però, cambiano nuovamente gli equilibri continentali: la calata di Carlo VIII nel 1494 segna la fine dell'effimera libertà italiana. La nostra storia torna così a essere un riflesso di quella altrui, e per ricostruirla gli autori sono costretti a rintracciarne le fila nelle vicende di Francia, Spagna, Germania. Un panorama europeo sul quale soffia il vento della Riforma; nel 1517 Lutero espone le proprie novantacinque Tesi, ma il clima di rinnovamento culturale e spirituale che ne deriva non giunge fino a noi: l'Italia subisce il contraccolpo della Controriforma, e per secoli si trova sprofondata in un oscurantismo senza precedenti. A campeggiare tra le pagine di questo volume sono dunque le grandi figure che fecero la rivoluzione - Lutero, Calvino, Huss, Wycliff, Zuinglio - ai quali si affiancano i protagonisti dello straordinario tramonto italiano: Ariosto, Tasso, Mantegna, Galileo Galilei, Savonarola e Giordano Bruno, sul cui rogo - nel 1600 - si chiude la narrazione. Il risultato è, come sempre, una storia affascinante, che malgrado racconti un periodo drammatico non rinuncia a una vena di ironia. Come ha scritto Montanelli: "Non siamo mai stati tanto seri come nello scrivere queste giocosità".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817044042
eBook ISBN
9788858642870
Argomento
Storia

L’ITALIA DELLA CONTRORIFORMA

AVVERTENZA

Questa Italia della Controriforma è la quarta puntata di un’unica opera che, iniziata con L’Italia dei secoli bui, L’Italia dei Comuni e L’Italia dei secoli d’oro, si propone di giungere fino ai giorni nostri.
Sappiamo benissimo quali sono i pericoli che presentano queste imprese. Chiunque tenti di condensare un periodo di due o tre secoli in un volume di cinque o seicento pagine è costretto fatalmente a una certa sommarietà di sintesi che offre agli specialisti i più comodi pretesti di critica. Essi potranno facilmente contestare l’inesattezza di qualche particolare e la soggettività di certi giudizi. Potranno denunziare errori di proporzioni nel rilievo dato a certi avvenimenti e personaggi a scapito di altri. Potranno soprattutto lamentare l’insufficiente approfondimento di certi temi.
Non ci siamo mai illusi di sfuggire a queste accuse, da cui del resto ci sembra che nessuno storico, per quanto grande, sia al riparo. E non intendiamo confutarle. Certamente i nostri libri hanno delle pecche. Ma siamo convinti che abbiano anche un merito: quello di farci leggere piacevolmente e capire con facilità. Chi li comincia, li finisce. E, arrivato in fondo, non dico che sappia tutto quello che si può e si deve sapere su quei dati argomenti; ma l’essenziale, sì. Di quanti libri di storia italiani si può dire altrettanto?
Di tutti quelli che abbiamo scritto finora, questa Italia della Controriforma sarà probabilmente il più bersagliato: sia per il tema che tratta, sia per il modo in cui lo fa. Dichiariamo con la massima franchezza che, di fronte a personaggi quali Wycliff, Huss, Lutero, Calvino, Zuinglio, ci siamo sentiti in obbligo di rinunziare a ogni pregiudiziale cattolica nel tentativo di rappresentarli in tutta la loro verità umana e di pensiero. Quanto ci siamo riusciti non so; ma ci siamo provati, pur sapendo a cosa ci esponevamo. Ci si obietterà che anche da noi esistono già altre opere ispirate alla stessa imparzialità. È vero. Ma si tratta di opere di specialisti per specialisti. In quelle destinate al grande pubblico e più ancora ai giovani delle scuole, la Riforma e i suoi protagonisti sono visti soltanto sotto l’angolatura della Chiesa e liquidati alla svelta sotto le voci «eretici» ed «eresie». Noi invece abbiamo dedicato loro il grosso di questo libro, e abbiamo cercato di farlo da una posizione di assoluta equidistanza, convinti che all’Italia proprio questo è mancato: la conoscenza obiettiva dei problemi e degli uomini che provocarono il grande scisma del mondo cristiano.
Non sappiamo se la Chiesa reagirà a questo nostro tentativo col silenzio o con le confutazioni. Ma contro queste ultime vogliamo comunque cautelarci presso il lettore. Specialmente i gesuiti dispongono di uomini agguerritissimi su tutte le questioni di dottrina, esperti di testi, puntigliosi, cavillosi, rotti a ogni malizia polemica e avvezzi a mettere nel sacco qualunque interlocutore. Quando Erasmo pubblicò la sua versione in latino del Nuovo Testamento, che dava loro molto fastidio, i pedanti vi rilevarono quattromila inesattezze. E può anche darsi che avessero ragione. Ma questo non impedì all’opera di Erasmo di raggiungere il suo obiettivo che era quello di risvegliare la pubblica opinione ai problemi teologici e di divulgarne i temi fondamentali, spianando così la strada a Lutero e a Calvino. Perciò il nome di Erasmo rimane scolpito nella storia, malgrado le sue quattromila inesattezze. Quello dei suoi pedanti censori, malgrado la loro precisione, ne è stato cancellato.
Per scrupolo di onestà, dobbiamo aggiungere che anche i protestanti troveranno da ridire su questo libro, anzi lo hanno già detto per bocca di due docenti della facoltà valdese di teologia, i professori Corsani e Vinay. Chiamati a leggere il manoscritto e a darne un giudizio, hanno così concluso la loro relazione: «Gli autori sono scrittori di storia provenienti dal giornalismo. Noi siamo degli studiosi (e docenti) di teologia provenienti dal pastorato protestante: dal nostro punto di vista e con la nostra forma mentis avremmo probabilmente scritto questa opera (per lo meno alcune delle sue pagine) con un diverso stile. Non soltanto le pagine che parlano del Protestantesimo, ma anche quelle che parlano della Chiesa romana, sono molto spesso in una vena giocosa o ironica che non permette al lettore sprovveduto di rendersi conto che le miserie degli uomini e delle istituzioni sono in realtà la tragedia della Chiesa e dell’Evangelo di Dio nel mondo; che il dramma religioso dell’Italia nel secolo sedicesimo fu un dramma terribilmente serio, di cui il nostro Paese ancora oggi paga le conseguenze». Accettiamo la critica, e la troviamo del tutto logica. È naturale che due docenti di teologia avrebbero scritto questo libro in modo del tutto diverso. Ma lasciamo giudicare al lettore se siamo riusciti, o no, a fargli capire, malgrado la vena giocosa, la terribilità del dramma religioso nell’Italia del Cinquecento. Noi non siamo mai stati tanto seri come nello scrivere queste giocosità.
Altro avvertimento. Qualche lettore, arrivato in fondo all’ultima pagina, forse si chiederà come mai questo libro, che si propone di narrare le vicende italiane, ha così a lungo divagato in quelle straniere. Purtroppo, dal Cinquecento in poi, non si può seguire altro metodo. Per quasi tre secoli, cioè con la fine delle invasioni barbariche e l’inizio dell’èra comunale, l’Italia è stata la protagonista della storia europea. Lo è stata non solo politicamente, grazie al Papato uscito vittorioso dalla lotta contro l’Impero; ma anche sul piano economico e culturale, grazie alla superiorità dei suoi istituti municipali e alla vigoria dei suoi ceti mercantili e industriali. Militarmente debole, anzi imbelle, essa è alla mercé degli eserciti tedeschi degli Ottoni e degli Hohenstaufen, di quelli francesi degli Angioini, di quelli spagnoli degli Aragona. Ma regolarmente conquista i suoi conquistatori. Le sue flotte dominano il Mediterraneo, la sua moneta e le sue banche dettano legge su tutti i mercati, la sua arte e letteratura forniscono i modelli a tutti gli altri Paesi. Chi voglia studiare la vita europea di questo periodo, specie alla sua acme dell’Umanesimo e del Rinascimento, deve rifarsi all’Italia e può anche limitarvisi perché è l’Italia che le dà il la.
Ma col Cinquecento il rapporto si rovescia: da protagonista, l’Italia viene degradata a oggetto delle vicende europee. Da allora la nostra storia nazionale perde la sua autonomia, diventa un riflesso di quelle altrui, e per ricostruirla bisogna andare a rintracciarne le fila in Francia, in Spagna, in Germania. Riforma e Controriforma segnano appunto lo spartiacque: ed ecco perché su questi temi abbiamo insistito.
Un’ultima cosa. Se siamo andati tanto avanti nella stesura di quest’opera e ci proponiamo di continuare, è perché i lettori ce l’hanno chiesto e quasi imposto col loro sempre più vivo interessamento, documentato dalle «tirature» quasi astronomiche dei volumi pubblicati fin qui. Il «Premio Bancarella» assegnatoci nel 1967 dai librai di Pontremoli per il libro di più grande successo ne è stata la definitiva conferma. A questi lettori vogliamo esprimere il nostro grazie più schietto e affettuoso.
I.M.
R.G.
Ottobre 1968

PARTE PRIMA

LA PENISOLA

CAPITOLO PRIMO

LA SCENA ITALIANA

Riassumiamo la situazione a cui eravamo arrivati con L’Italia dei secoli d’oro, un’Italia frantumata in una galassia di Stati e staterelli in lotta fra loro per un impossibile primato.
Il più vasto era, a Sud, il Regno di Napoli, passato nel 1443 dagli Angioini di Francia agli Aragonesi spagnoli. Il primo sovrano di questa casa, Alfonso, governò con sagacia e magnanimità. Fu sotto di lui che Napoli diventò una capitale fastosa e moderna. Alfonso diede alla città un volto architettonico nuovo, demolì i vecchi quartieri, fatiscenti e malsani, incrementò l’edilizia popolare, costruì strade, scavò fogne, eresse chiese e palazzi, restaurò il Maschio Angioino, innalzando nel centro un grandioso arco trionfale. Abbellì la Corte, la riempì di quadri, tappeti, ori, arazzi e ne fece il fulcro della vita sociale, mondana e culturale del Regno. Vi chiamò poeti, artisti, filosofi, letterati, fra cui il celebre umanista Lorenzo Valla. Ma per realizzare quest’opera dilapidò somme favolose e portò il Regno sull’orlo della bancarotta. Per rinsanguare le casse esauste inasprì le tasse e si rese assai impopolare fra i sudditi, che alla sua morte trassero un respiro di sollievo.
Il figlio e successore Ferdinando I (don Ferrante) per riassestare le finanze introdusse un regime di austerità, ridusse gli stipendi ai cortigiani e ai letterati, e concentrò gl’investimenti sulla industria e il commercio. Diminuì le tasse, e per alcuni anni abolì il dazio di uscita sulle merci. Spalancò i porti del Regno, soprattutto quello di Napoli, ai mercanti veneziani, genovesi e catalani e concesse l’immigrazione agli Ebrei, sebbene il Clero e il popolino li vedessero di malocchio. Favorì anche l’esodo dalle campagne dei «cafoni», che s’inurbarono in così gran numero che il sovrano dovette allargare la cinta delle mura e innalzare nuovi quartieri.
Fu astuto e lungimirante anche in politica. Attraverso una serie di matrimoni si guadagnò potenti alleati e consolidò il trono. Ma fu specialmente la sua lotta contro i Baroni che ne raccomandò la fama ai posteri. I Baroni costituivano la nobiltà feudale del Regno, discendevano dai conquistatori normanni, tedeschi, francesi e spagnoli che si erano dati il cambio in questa contrada e vivevano nelle campagne, arroccati nei loro turriti castelli. I più potenti possedevano immensi latifondi e stuoli di schiavi, che sfruttavano e sottoponevano a ogni sorta d’angherie, né conoscevano altra legge che quella della violenza e dell’arbitrio. Su costoro il Re non era in grado d’esercitare alcun potere, né di far valere i suoi diritti. Per accattivarseli Alfonso aveva loro concesso numerosi privilegi e lo stesso Ferrante li alleggerì di alcuni balzelli. Ma i Baroni odiavano il Re, e nel 1485 ordirono una congiura per sbalzarlo dal trono. Ebbero la peggio, e il sovrano li fece decapitare in massa. Quando nel 1494 calò nella tomba, il cordoglio dei sudditi fu sincero. Il Regno era saldo e prospero, e sicuri i suoi confini, che a Nord lo dividevano dal rapace e turbolento Stato pontificio.
Il Papa, che vi aveva fatto ritorno nel 1377 dopo la lunga parentesi di Avignone, l’aveva trovato in preda alle solite lotte di fazione fra le facinorose famiglie dell’Urbe e le non meno riottose consorterie campagnole. All’alba del quindicesimo secolo, la città occupava una superficie dieci volte inferiore a quella dei tempi d’Aureliano, e la sua popolazione non superava le sessantamila anime. Le mura erano ridotte a ruderi, le strade a trazzere polverose e ingombre di rifiuti, gli acquedotti erano intasati, le case tatuate di crepe e rivestite di muffa, i Fori trasformati in putridi catini, il Colosseo e il teatro di Marcello adibiti a depositi d’immondezza, il Campidoglio costellato di luride bidonvilles. Vacche, pecore, maiali pascolavano sui sagrati delle chiese. Di notte la città era infestata dai briganti, le rapine e gli ammazzamenti erano all’ordine del giorno. La plebe viveva d’elemosine, i nobili di privilegi e di soprusi, il Clero d’indulgenze, di decime e di usura.
Quando Gregorio XI vi ritrasferì la sua sede, le finanze della Chiesa erano in pieno dissesto e i suoi Stati – che inglobavano pressappoco Lazio, Umbria, Marche e Romagna – in totale decomposizione. Sembrava che nessuna forza umana potesse metter riparo allo sfacelo. Eppure, grazie a tre grandi Pontefici, il Papato riacquistò in pochi decenni il fasto, lo splendore e la potenza dei tempi di maggior auge. Niccolò V ridiede a Roma l’antico fulgore, profondendo somme immense. Riparò le mura, restaurò conventi, chiese, palazzi, innalzò nuovi edifici, costruì ponti, acquedotti, pavimentò strade. Affidò a Leon Battista Alberti il progetto di piazze e palazzi, incaricò Andrea del Castagno e il Beato Angelico di decorare le sale del Vaticano. Investì in abbellimenti quasi tutti gl’introiti del Giubileo del 1450, e si circondò di artisti e uomini di cultura, che tenne ai propri stipendi e colmò di favori.
Fra i suoi successori Pio II imitò il suo esempio, finanziò gli studi umanistici e tenne una dotta corte di letterati, artisti e filosofi; e Sisto IV spese tutte le sue energie a rafforzare e ingrandire lo Stato pontificio e a ridurre all’obbedienza la proterva nobiltà e la turbolenta plebe romana. Nepotista e spendaccione, ornò Roma di chiese, monumenti e palazzi, restaurò l’Ospedale di Santo Spirito, riorganizzò l’università. Legò il suo nome alla Cappella Sistina, di cui affidò il progetto all’architetto Giovannino de’ Dolci e la decorazione delle pareti al Perugino, al Signorelli, al Pinturicchio, al Ghirlandaio, al Botticelli, al Rosselli e a Piero di Cosimo.
A questi tre magnifici e munifici Pontefici Roma dovette la riconquista di quel rango che, in seguito alla cattività avignonese, aveva perduto e che per quasi tutto il Quattrocento era stato appannaggio di Firenze. Abbiamo visto nell’Italia dei secoli d’oro chi furono gli artefici dello splendore di questa città. Cosimo de’ Medici ne fece una potenza economica, finanziaria e politica di livello europeo. Pur non ricoprendo nella Repubblica cariche ufficiali, ne condizionò la vita e ne determinò le vicende. Le smisurate ricchezze, lo straordinario ingegno, la grande ambizione ne fecero il perfetto Signore del Rinascimento di cui, col nipote Lorenzo, magnificamente incarnò gl’ideali.
Anche Lorenzo cercò d’occuparsi di politica il più indirettamente possibile. Ufficialmente, preferì restare un privato cittadino ma fino alla morte, avvenuta nel 1492, il suo potere fu praticamente incontrastato. Sotto di lui la città toccò il suo apogeo artistico e diventò l’indiscussa capitale della cultura europea. Il nonno vi aveva restaurato la famosa «Accademia Platonica», che diventò la più attrezzata palestra filosofica del Rinascimento. Nelle sue aule convennero il fior fiore dell’intellighenzia italiana, francese, inglese, tedesca, e lo stesso Lorenzo ne fu un frequentatore assiduo. In lui l’amore per la cultura s’accompagnò a un edonismo paganeggiante, di cui fornì ai suoi concittadini il modello. Assoldò i più grandi artisti del tempo per dipingere i carri su cui i giovani sfilavano da Ponte Vecchio a Piazza del Duomo in bizzarri ed evocativi costumi e sovrintese di persona alla regia dei Trionfi con cui si concludevano queste parate. Fu amico e protettore del Pulci, del Poliziano, di Pico della Mirandola e di uno stuolo di altri umanisti. Col suo cuore cessò un po’ di battere anche quello di Firenze.
A Nord della Repubblica toscana, i due Stati più potenti erano quello milanese e quello veneziano. Milano, dopo un effimero intermezzo repubblicano, nel 1450 era passata per matrimonio dal dominio dei Visconti a quello degli Sforza. La nuova dinastia era stata inaugurata dal duca Francesco, signore di Cremona, che aveva sposato l’unica erede di Filippo Maria Visconti, e governò fino al 1466 con una magnificenza allergica a ogni preoccupazione di contabilità. Portò il Ducato sull’orlo del fallimento e solo i prestiti delle banche fiorentine lo salvarono. Favorì l’immigrazione, proibì l’esodo della manodopera locale, premiò i cittadini più prolifici, bandì campagne demografiche, contribuendovi di persona. Dissanguò l’erario, ma fece di Milano ciò ch’essa ancora non era: una fastosa metropoli, di cui il Castello Sforzesco e l’Ospedale Maggiore rappresentarono i gioielli.
Sullo scorcio del secolo, la città era una delle più popolose, animate e intraprendenti d’Europa. Un autentico boom edilizio aveva moltiplicato i suoi quartieri. Le case erano oltre quindicimila, centinaia le taverne, migliaia le botteghe. I suoi mercati traboccavano di ogni ben di Dio. Vi affluivano uomini d’affari inglesi, francesi, tedeschi, veneziani, fiorentini. Vi si potevano acquistare le merci più disparate: dalle spezie ai broccati, dalle sete ai tappeti, agli animali esotici. La periferia era disseminata di fucine, laboratori, armerie, da cui uscivano spade, lance, scudi, celate, elmi che venivano venduti in tutto il mondo. Ma la città amava anche divertirsi: feste, tornei, balli pubblici allietavano la vita dei suoi abitanti.
L’altro grande Stato del Nord era Venezia. La sua stabilità politica poggiava su una costituzione originale a carattere oligarchico, di cui abbiamo già fornito i lineamenti nei precedenti volumi. La sua potenza economica su una flotta moderna e perfettamente addestrata, su una classe di mercanti abili, dinamici, audaci, su una capillare rete di scali internazionali, o fondachi. Fino al 1453, la sua egemonia sull’Adriatico e il Mediterraneo orientale fu assoluta; ma quando, sotto le spallate degli eserciti ottomani, Costantinopoli cadde nelle mani dei Turchi, Venezia perse buona parte dei vecchi mercati balcanici e asiatici e dovette contrarsi e volgersi alla terraferma, dove fatalmente sarebbe venuta in urto con le altre potenze italiane, e soprattutto con Milano.
Accanto a questi cinque Stati maggiori ce n’era una miriade di minori, bramosi d’allargare i propri confini, giuocando i vicini gli uni contro gli altri, e mettendo di volta in volta al servizio del più potente le proprie masnade e i propri condottieri. Per tutto il Quattrocento la Penisola fu teatro di scaramucce e guerricciole cittadine che indebolirono le parti ostacolando e ritardando di secoli il processo d’unificazione del Paese. Incapace di diventare una Nazione, esso finirà infatti, come vedremo, per trasformarsi in un campo di battaglia e di rapina di eserciti stranieri, in una terra di conquista alla mercé del vincitore di turno.
Il primo capitolo di questo asservimento lo scrisse nel 1494 il re di Francia, Carlo VIII, chiamato in Italia da Ludovico il Moro.

CAPITOLO SECONDO

IL MORO E CARLO VIII

Ludovico era il quarto figlio di Francesco Sforza. I Milanesi lo chiamavano «il Moro» per la pelle bruna, i capelli e gli occhi neri. Lungi dall’offendersi, Ludovico s’era compiaciuto di quel nomignolo e per renderlo più pertinente aveva adottato fogge e simboli moreschi e riempito la corte di schiavi negri. Fisicamente era piuttosto brutto sebbene fosse robusto e di statura superiore alla media. Aveva lineamenti aspri e irregolari: il naso lungo e bitorzoluto, il mento prominente, le labbra sottili e tese, la grinta volitiva e imperiosa. La madre Bianca gli aveva dato come precettore l’umanista Filelfo, che l’aveva avviato allo studio dei classici, specialmente latini. Ma fin da bambino egli aveva mostrato maggior predilezione per gli sport: dalla caccia alla pesca, dal tiro dell’arco all’equitazione. Si circondava di maghi e astrologi, di cui sollecitava e temeva gli oroscopi. Aveva un debole per le donne e la buona tavola, ma detestava gli eccessi.
Quando il fratello primogenito Galeazzo Maria Sforza, erede legittimo del Ducato, fu pugnalato nella chiesa di Santo Stefano, Ludovico diventò reggente di Milano in nome del nipote Gian Galeazzo, un bambino di dieci anni malaticcio e abulico. Lo zio gli lasciò tutte le insegne esteriori del comando, ma ...

Indice dei contenuti

  1. L'Italia della Controriforma
  2. Copyright
  3. Premessa di Sergio Romano
  4. L’Italia della Controriforma
  5. Appendice
  6. Indici
  7. Sommario
  8. Tavole