Ciao, Don Camillo
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Ciao, Don Camillo

Le opere di Giovannino Guareschi #6

  1. 620 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ciao, Don Camillo

Le opere di Giovannino Guareschi #6

Informazioni su questo libro

Quella notte don Camillo stentò a prendere sonno perché aveva un gatto vivo nello stomaco. Ma, più ancora, stentò Peppone perché aveva nel letto una moglie ancora più viva del gatto di don Camillo. Guareschi Questi episodi di "Mondo piccolo" sono tra le più belle favole che Giovannino ha raccontato ai lettori di "Candido" tra il 1951 e il 1961, come dicono Alberto e Carlotta Guareschi. Qui ci sono infatti personaggi, luoghi, atmosfere già noti, conosciuti nei libri precedenti, che il lettore ritrova con immutato piacere. In questi racconti non sempre don Camillo e Peppone sono protagonisti (anzi, in alcuni non compaiono neanche), ma il mondo della Bassa, il "mondo piccolo", è sempre lo stesso, con le sue passioni, i suoi litigi, la sua fede (politica e religiosa), i suoi personaggi indimenticabili.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
Print ISBN
9788817251815
eBook ISBN
9788858631676

Il mondo grande nel «Mondo piccolo»

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«Questa favola vera vuol essere un po’ la storia degli ultimi vent’anni di vita politica italiana.
«La storia del Paese riflessa nella cronaca del paesello.
«Gli avvenimenti più clamorosi del mondo grande che trovano puntuale rispondenza nelle vicende paesane del mondo piccolo di don Camillo.
«È la versione, in tono minore e sorridente, di fatti importanti che, ridotti qui all’essenza e rivissuti da uomini che ancora odono la voce della loro coscienza, si spogliano della loro drammaticità e rinverdiscono la speranza in un mondo migliore.»

Così scrive Giovannino cercando di spiegare le “favole” del «Mondo piccolo» che non vogliono lanciare accuse, né svolgere tesi. Aggiungendo, qualche tempo dopo:

«Ho cercato solo di rilevare le rispondenze che hanno, nel mondo piccolo (...) gli avvenimenti del mondo grande. Naturalmente» conclude «tutto è stato guardato con l’occhio dell’umorista».

Giovannino non poteva prevedere che «le rispondenze che hanno, nel mondo piccolo (...) gli avvenimenti del mondo grande» agissero anche in senso contrario: come gli slogan di Giovannino sono stati adottati dalla stampa, radio e Tv per rendere efficaci le descrizioni di personaggi e situazioni (i «trinariciuti», «Contrordine, compagni», «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!», «Mamma, votagli contro anche per me!», il «ribaltone», «Versare il cervello all’ammasso» eccetera), così personaggi e situazioni del «Mondo piccolo» trovano rispondenza nel mondo grande venendo sempre più spesso usati per illustrare persone e fatti d’attualità, dissidi tra parroco e sindaco di un paese o fra due parti contrapposte.
Concludiamo questa nostra chiacchierata con alcuni esempi recenti: «Don Camillo e Peppone in cuni esempi recenti: «Don Camillo e Peppone in un’unica marmellata» (Secolo d’Italia, 7 gennaio ’95); «La pace fra Peppone e don Camillo» (Corriere della Sera, 25 marzo ’95); «Il miracolo di don Camillo» (Corriere dello Sport, 3 maggio ’95); «A Vittuone rinascono don Camillo e Peppone» (La Prealpina, 7 maggio ’95); «C’è un don Camillo sulla strada della Lega Coop» (Il Resto del Carlino, 6 giugno ’95); «Lite fra Peppone e don Camillo» (Il Gazzettino, 16 giugno ’95); «Il líder Massimo attacca i “trinariciuti”» (Il Giornale, 19 gennaio ’96)...
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NATALE DEL ’50

Proprio sotto Natale era venuta giù mezza gamba di neve e ancora continuava a fioccare. Don Camillo aveva tirato fuori le statuine di legno del Presepio per ritoccarle e, alla mezzanotte del 22, era ancora lì col pennellino a rinfrescare facce, mantelli e dorature, e il gatto gli faceva compagnia.
Era un gatto giovane e giocava con tutta la roba minuta che gli capitava sotto le zampe e, un bel momento, a don Camillo capitò di dar retta a quel che stava combinando sotto la tavola e vide che la bestia stava giocando con la statuina di Gesù Bambino.
Don Camillo gli tirò un urlaccio e il gatto scappò via tenendo la statuina in bocca e don Camillo dovette rincorrerlo e sparargli una ciabattata per fargli mollare la presa.
La statuina di Gesù Bambino, don Camillo se la teneva per ultima, per potersela lavorare meglio: così tirò in giù il saliscendi della lampada e, dopo aver brontolato un po’ col gatto, incominciò a pitturare di fino.
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A un bel momento la statuina di Gesù Bambino gli scivolò via di mano e cadde per terra e, chinatosi per raccoglierla, don Camillo vide che il maledetto gatto l’aveva ancora presa tra i denti.
Guardando meglio, don Camillo si accorse di una cosa strana: il gatto era un altro. Più grosso, con due occhi che guardavano in un certo modo. Il gatto solito era bigio e questo era invece nero. Di dove era venuto quel gatto forestiero?
«Molla!» urlò don Camillo e il gatto fece un balzo verso la porta, ma non lasciò andare la statuina.
Don Camillo si riscosse e il gatto nero uscì nel corridoio e, trovata la porta socchiusa, sgusciò via, a coda bassa, ed eccolo nel sagrato, fermo ad aspettare, nero nero in mezzo al gran bianco della neve.
«Maledetto!» urlò don Camillo che fu subito fuori anche lui.
E il gatto nero via con la statuina di Gesù Bambino tra i denti.
E don Camillo dietro al gatto.
Il gatto prese la via dei campi e don Camillo lo seguì ansimando.
Don Camillo stentava a camminare perché la neve era fresca e vi sprofondava dentro fino a mezza gamba: il gatto nero, invece, volava via come se fosse una piuma. Ma ogni tanto si fermava, volgeva il muso indietro e aspettava che don Camillo gli arrivasse a dieci metri per poi riprendere la sua corsa.
Ed ecco il fatto: il gatto nero diventava, a ogni fermata, sempre più grosso, e anche la statuina di legno di Gesù Bambino aumentava in proporzione.
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Quando la bestia nera diventò enorme, come un bufalo, la statuina era alta come un bambino vero.
Ed era difatti un bambino vero. Un Gesù Bambino di carne rosea e viva. Un Gesù Bambino che sanguinava e gemeva tra le zanne della belva nera e mostruosa. Don Camillo lanciò un urlo di terrore e si trovò davanti alla sua tavola, con la statuina di Gesù Bambino in una mano e il pennellino nell’altra.
Il gatto, il solito gattino bigio, stava ronfando sotto il camino. Erano già le quattro del mattino e continuava a fioccare.
Don Camillo andò a dare un’occhiata in chiesa.
«Gesù» disse don Camillo inginocchiandosi davanti al Cristo Crocifisso dell’altar maggiore «ho fatto uno strano sogno.» E raccontò il sogno del gatto nero che diventava un enorme mostro e della statuina che diventava Gesù Bambino vero, sanguinante e gemente tra le zanne della belva.
«Gesù» concluse don Camillo «quel sogno mi ha turbato.»
Il Cristo sorrise:
«Don Camillo: non è il sogno che ti ha turbato. Ti turba il pensiero che ha originato quel sogno. È un pensiero che tu hai dentro di te, ed è il prodotto di un ragionamento. Tu, sotto la specie dell’apologo, hai spiegato in sogno a te stesso la sostanza del tuo pensiero».
«Gesù» esclamò don Camillo «io intendo quel sogno come un presagio, un avvertimento soprannaturale.»
«Non è un presagio, don Camillo: non è un avvertimento, una voce che viene dal di fuori. È una voce che viene dal tuo stesso ragionamento. È la voce della tua paura.»
Don Camillo allargò le braccia:
«Gesù, io non ho paura!».
«Sì, don Camillo: tu hai paura. Ma non per te. Hai paura per me. Hai paura che gli uomini possano fare del male a Dio. Si può negare il sole, si può perseguitare chi afferma l’esistenza del sole. Si può fare in modo che nessuno più veda il sole strappando gli occhi a tutte le creature, ma non si potrà per questo spegnere o soltanto offuscare mai la luce del sole. Gli uomini non possono che fare male a se stessi. Non possono fare del male a Dio. Ma io non ti rimprovero per questa tua paura, perché essa non è che l’immenso amore che tu hai per me.»
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Don Camillo andò a letto e lo svegliarono le donnette che venivano per la Messa mattutina e avevano trovato chiusa la porta della chiesa.
Don Camillo immerse la faccia nel catino pieno d’acqua fredda e scese di corsa.
«È tardi, mi dispiace» spiegò alle donnette raccolte davanti alla porta della canonica. «Non so cosa possa essermi successo. Il campanaro non è tornato, ieri sera: è rimasto bloccato in città dalla neve.»
Il gattino bigio gli si strusciò contro una gamba e don Camillo rabbrividì. Si avviò verso la chiesa, ma in quel momento si udì uno schianto.
«Il tetto della chiesa si sfascia!»
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Il colmo del tetto non era più orizzontale, si era abbassato di mezzo metro verso la parte posteriore. Qualche trave doveva aver ceduto, disse qualcuno, ma si fece avanti il Bigio, il capomastro, che, considerata la faccenda, scosse il capo.
«Non si è spaccato niente» disse. «La trave maestra del colmo poggia, davanti, sul culmine del frontale della chiesa e, dietro, su una capriata. Il peso della neve ha fatto sbracare i puntoni dei due capi del tirante. Adesso i puntoni poggiano sulla trave del tirante e si sono abbassati per quel tanto che il puntone del culmine è più corto. Fin che i puntoni degli spioventi non si sbracano dal puntone del culmine, non c’è nessun pericolo.»
Era un ragionamento complicato per dire una cosa semplice: ma si udì un nuovo schianto e il colmo del tetto si inabissò.
«Si è spaccata la trave del tirante» disse il Bigio. «Adesso il peso è tutto sulla volta: se la volta cede, a Messa, stamattina, ci va il tetto.»
Don Camillo, che era rimasto a guardare sgomento, pensò all’altare, al Tabernacolo, al Cristo Crocifisso.
«Non fate stupidaggini!» gli gridarono. Ma oramai aveva aperto la porta della chiesa ed era entrato.
Ma una voce imperiosa si udì:
«Fermati, don Camillo!».
E don Camillo ristette un istante sulla porta e, proprio in quell’istante, rovinò la volta e la chiesa si riempì di mattoni, di travi, di tegole e di neve.
Don Camillo trovò tra sé e l’altare una montagna di macerie cementate dalla neve: ma l’altare c’era ancora, intatto, perché la cupola non s’era mossa.
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Guardò in alto e vide soltanto la neve scendere dal gran rettangolo di cielo che ora stava al posto del soffitto della sua chiesa.
Don Camillo pensò al gatto nero e non capiva come potesse entrarci il gatto nero con la neve che aveva fatto crollare il tetto.
Tutto il paese venne a vedere quella rovina: don Camillo pareva che anche lui fosse un grosso rottame perché, dopo un’ora, stava ancora immobile a guardare sbalordito il mucchio di macerie. E la neve gli si era ammucchiata sulle spalle e non si poteva capire bene se don Camillo avesse il viso bagnato perché la neve gli si scioglieva sulla faccia o perché piangeva.
A un tratto il suo sguardo, occupato fino a quel momento a considerare nel suo impressionante complesso la montagna di macerie, si concentrò su un particolare del mucchio.
Poi, con un balzo, don Camillo fu sul mucchio e, agguantata una grossa trave, la scosse e la tirò fin che non fu riuscito a cavarla fuori dal groviglio.
La gente si fece avanti.
«È la trave del tirante della capriata» disse il Bigio. «Anzi, è una mezza trave del tirante.»
Poi tacque perplesso: anche un orbo avrebbe visto che la trave del tirante era stata segata nel mezzo. Il taglio era fresco.
La trave non era stata segata tutta: segata per tre quarti. L’altro pezzo era spaccato.
Don Camillo pensò ancora al gatto nero e sentì che il suo occhio, adesso, stava guardando una cosa che egli ancora non vedeva.
Poi vide, nella neve mescolata alle macerie, la cosa.
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E allora tutti si buttarono sul mucchio e cominciarono a tirar via roba. Dopo un’ora di lavoro furibondo trovarono l’uomo che aveva macchiato col suo sangue la neve. Vicino a lui era un segaccio.
L’uomo giaceva bocconi, morto e stramorto, e aveva la faccia affondata nel calcinaccio. E nessuno ebbe il coraggio di rivoltarlo per vedere chi fosse perché tutti avevano paura di conoscerlo.
Lo voltò il maresciallo dei carabinieri.
Tirarono fuori anche l’altro pezzo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Favole della Bassa,
  4. Gente della Bassa
  5. la terra: gioie e dolori
  6. Il mondo grande nel «Mondo piccolo»