Chi sogna nuovi gerani?
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Chi sogna nuovi gerani?

Le opere di Giovannino Guareschi #25

  1. 720 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Chi sogna nuovi gerani?

Le opere di Giovannino Guareschi #25

Informazioni su questo libro

Autobigorafia della famiglia Guareschi, scritta con magistrale bravura da Giovannino.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
Print ISBN
9788817117487
eBook ISBN
9788858631638

Le origini

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DALLA POLONIA ALLA RUOTA DEL SALE

Se mi piovessero dal cielo duecento milioni farei un colpo formidabile: farei rubare dall’archivio del giornale la raccolta delle vecchie annate del Corriere dei Piccoli per ritrovare, appiccicati a quelle vecchie pagine, i miei primi pensieri, i miei primi ragionamenti, le mie prime sensazioni. Lo so, rivedendo nell’atmosfera giusta certe figure, certi colori, risentirei la voce di mia nonna, di mia madre, di mio padre. Cento, mille ricordi sepolti nel magazzino buio della memoria, rivivrebbero. La nostra mente può ricordare tutto purché sia messa in condizione di ricordare: alle volte, vedendo un certo paesaggio illuminato da una certa luce, dici: "Questo io l’ho già visto! " e lo ricordi mentre tu non l’hai mai visto e, magari, l’ha visto un tuo antenato mille anni fa. Credo che si chiamino ricordi ancestrali.
A me è successo quando ho visto per la prima volta i vasti silenzi della Polonia, la terra soffice dei suoi prati immensi, i grandi alberi col tronco verde di muschio e coi rami contorti.
Allora io ero un ufficiale italiano prigioniero dei tedeschi. Durante il trasferimento al Lager polacco di Czestochowa vidi piccoli laghi con barchette, all’orizzonte una fascia di bosco e il Santuario di madreperla. Ricordo che c’erano cavalli liberi nei campi e passava una vecchina di mille anni aggrappata a un enorme fascio di sterpi. Corvi e corvi, in grandi voli a cuneo, incrociavano nel cielo.
I polacchi furono molto buoni con noi. Ricordo che passavamo laceri e affamati per la città e una povera vecchia, nonostante fosse stata presa a calci da una delle guardie di scorta tedesche, riuscì a darci un pezzo di pane.
In una piazzetta un bambino biondo si staccò dalla mamma e corse verso di noi. Arrivato al mio fianco mi porse una mela. Chiusi gli occhi e quando li riaprii vidi il bambino già vicino alla sua mamma, laggiù sul marciapiede. Respirai di sollievo: non l’avevano visto.
Sulla corteccia rossa e lucida della mela vidi le impronte dei dentini del bimbo e pensai a mio figlio. Lo zaino non mi pesò più e mi sentii fortissimo. Lo dovevo rivedere, il mio bambino: il primo dovere di un padre è quello di non lasciare orfani i suoi figli. Lo avrei rivisto perché, mi dissi: "Non muoio neanche se mi ammazzano".
Ricordo che per Santa Lucia le bambine polacche si avvicinavano ai reticolati, dalla parte del campo dell’appello, e lanciavano pacchetti di frutta, focacce e pane con la marmellata...
Mi hanno detto che i miei lontani antenati erano polacchi. Forse mercenari chiamati in Italia i quali, terminati i loro compiti guerreschi, si stabilirono prima sull’«altra riva» del grande fiume, a San Daniele Ripa Po e dintorni, per passare poi sulla riva di Roccabianca.
Nel 1638, a Fontanelle compare, come coadiutore del parroco, un Guareschi: don Angelo. Dal 1880 al 1907 sarà parroco a Fontanelle un altro Guareschi: don Attilio.
Ma non tutti i Guareschi camminano sulla strada del bene: fra don Angelo e don Attilio si insinua un losco Giovanni Guareschi di Fossa di Roccabianca.
Questo Guareschi, complice nella rapina del 26 novembre del 1800 ai danni di don Angelo Pattini, rettore di Vicomero di Parma, viene condannato «alla pena del forzoso travaglio alla Ruota di Salso in perpetuo nonché a rimanere avvinto sotto la Forca durante L’esecuzione della sentenza contro i correi condannati all’ultimo supplizio colla comminatoria della morte sulle Forche in evento di tentata fuga».
Così leggo nelle pagine ingiallite stampate il 3 aprile del 1805 dalla Stamperia Imperiale di Parma, con l’intestazione:
«Notificazione del Supremo Consiglio di Giustizie Criminale degli Stati di Parma, Piacenza, Guastalla ecc. ecc. sresidente in Parma».
«La Fossa è proprio al centro della plaga che ha dato origine ai tuoi» mi fa notare Margherita dopo che io le ho letto il documento. «Questo Giovanni è evidentissimamente un tuo antenato.»
«Può darsi» le rispondo. «E mi dispiace che abbia concluso la sua carriera macinando sale a Salsomaggiore.»
«Me spero che sia scappato» afferma la Pasionaria. Margherita la fulmina con uno sguardo:
«Zitta tu! Anche se si tratta di tuo padre la giustizia deve fare il suo corso!».
«Margherita, cerchiamo di essere precisi. Non si tratta di me! Si tratta di un mio omonimo vissuto più di un secolo e mezzo fa!».
«Si tratta di un tuo antenato, Giovannino. Il frutto dell’albero dipende dalla qualità della pianta e dalla natura del nutrimento che succhiano le sue radici. Una delle tue radici, Giovannino, è alimentata dal sangue attossicato di un feroce rapinatore!»
«Intanto bisogna vedere se lui aveva colpa!» afferma la Pasionaria. «Secondo me l’hanno condannato per sbaglio.»
Margherita la guarda con disprezzo:
«Quello che tu stai facendo» dice «si chiama omertà!».
Cerco di ricapitolare la vicenda. Margherita è irremovibile.
«Giovannino, non mi sarei mai aspettata un orrore di questo genere da te. Adesso mi spiego tante cose: i tuoi scatti improvvisi e violenti, quei bagliori di fredda ferocia che animano ogni tanto il tuo sguardo... Forse la passione che voi della vostra famiglia avete tutti per le macchine l’avete presa da quel Giovanni che, per tanti anni, lavorò alla macchina per macinare il sale... Sì, anche il gusto per i cibi salati... Tutto è sempre insipido per te! Per forza: là a Salsomaggiore ce n’era del sale! Fra me e te c’è l’ombra del Giovanni che puntò il suo pugnale sul petto del parroco di Vicomero!»
La Pasionaria interviene:
«Il pugnale non c’è scritto nel foglio!».
«Moralmente c’è» afferma Margherita.
Cerco di accomodare la faccenda: Margherita non molla. Non mi concede neppure di ricorrere in Appello.
Albertino si mostra favorevole a una revisione totale del processo per appurare la verità.
La Pasionaria non entra neanche in discussione e si limita a concludere:
«A me mi importa niente dei processi. Me mi piace la gente decisa. E poi allora c’era il medioevo e i signori trattavano male i poveretti».
Margherita la guarda con un sorriso carico di sarcasmo.
«Le figlie padreggiano... E hanno la furberia del padre: quando non sanno più cosa rispondere tirano fuori la giustizia sociale e buttano tutto in politica! Buon sangue non mente!»
Ci ritroviamo a tavola a mezzogiorno del dì seguente. Io ci ho ripensato su, durante la notte, e adesso ho un pochino il complesso del malfattore.
Taciamo fino al secondo piatto. Poi Margherita mi guarda:
«Coraggio!» esclama con voce calda e vibrante. «Coraggio, Giovannino ! Ti aiuteremo a camminare sulla radiosa via della redenzione! Il sole sorge ancora!»
Piove, ma io sento il calore di quel sole sfolgorante scaldarmi il sangue nelle vene.
La minestra è completamente senza sale, ma io ho la forza di definirla «un po’ troppo salata».
«Vedi?» esclama Margherita lietamente. «Oramai il tuo sangue s’è purificato dal tossico atavico.»
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Non riparleremo mai più della storia, ma, ogni tanto, Margherita troverà modo di ammonirmi di non dimenticare che lei ha saputo non tener conto delle ombre del mio passato perché aveva fede nel mio luminoso avvenire.
Ne terrò conto. Non sono un ingrato.
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LUDOVICO GUARESCHI E ANTONIO MORA

Mio padre ha scritto: «Nel 1877, anno in cui nacqui, i miei nonni Ludovico Guareschi e Antonio Mora possedevano nel parmense circa venticinque fondi rustici dei più belli e dei più fertili della provincia, tutti dotati di grandi capitali vivi e morti, caseifici, stalle, nonché parecchie case d’affitto, il tutto considerato di un valore eccedente i due milioni. Quei due vecchi erano patrioti ferventi, filantropi, religiosi, di grande buon senso. Erano agricoltori provetti in un’epoca in cui l’agricoltura, fonte di ogni bene, dormiva tra le coltri dell’ignoranza. Le loro aziende agricole, condotte in economia sotto la loro costante direzione tecnica e amministrativa e dei loro figli, in particolare da mio padre Antonio, primogenito di Ludovico, fiorirono fino all’anno 1890, epoca nella quale essi cominciarono a cedere la direzione ai loro figli e nipoti. Fino ad allora le nostre famiglie vissero in armonia come in una sola famiglia che comprendeva anche quelle dei nostri dipendenti».
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NOI DEL BOSCO

Ludovico Guareschi, mio bisnonno, fa atto di donazione nel 1898 del podere Bosco ai nove nipoti minorenni figli del figlio Antonio, detto «Tugnèn Bazzìga», che è stato inabilitato otto anni prima.
Leonida Catullo Zavaroni, come risulta dall’atto, gli fa da interprete «essendo il detto Guareschi novantenne privo dell’udito e non essendo in grado di leggere gli scritti a mano. Per sua stessa dichiarazione, potrebbe leggere soltanto lettere a stampa molto grandi». L’interprete comunica «a viva voce e con gesti e segni l’atto stesso al signor Ludovico Guareschi che lo dichiara pienamente conforme alla sua volontà e lo approva». Non dimentica di accendere ipoteche sui campi detti «del fulmine» e «dell’Ospedale» perché, alla sua morte, vengano date mille lire alla fedele servente Desolina Dioni e duemila lire per Messe in suffragio della sua anima.
Il podere Bosco è piazzato nella località dello stesso nome a sud-est di Roccabianca e ci si arriva seguendo la strada provinciale per Cremona. Ha la forma di un rettangolo allungato, col lato maggiore di circa cinquecento metri. Una carrareccia corre lungo il lato maggiore, dalla parte di mezzogiorno, e, fra la carrareccia e la linea di confine, c’è una striscia erbosa larga una decina di metri e una grande siepe spessa due metri. I piloni che danno consistenza a quell’alto e massiccio muro verde sono roveri, robinie, olmi, piopponi, noci. Il siepone del Bosco è qualcosa di smisurato e di fiabesco. Nel siepone c’è tutto: i nidi degli uccellini, sui rami altissimi dei piopponi quelli delle gazze, i cagapòi rossi, le more rosse e nere, il sambuco per fare gli schioppetti, i funghi, i prugnoli che pizzicano il palato e legano la lingua. Poi salici coi rametti morbidi buoni per fare i cestini, susine e mele piccole inselvatichite, sorbe, noci, fiori profumati di robinia, edera, muschio per il presepe.
Mio nonno paterno Tugnèn Bazzìga è alto, magro e potente, con lunghi baffi. Vive con la moglie Dorotea al Bosco assieme ai nove figli: Augusto, il maggiore, che diventerà mio padre, Umberto, Vittorio, Ludovico, Vincenzo, Giuseppe, Maria, Silvia e Clementina, la piccola.
«Tugnèn Bazzìga era amato e stimato ché nella vita aveva sentito il dolore e la miseria degli altri» mi scrive nel 1953 Italo Ferrari, il famoso creatore e animatore di burattini. «Io sono nato alla Fossa di Roccabianca nell’aprile del 1877. Mio padre era un famiglio da spesa alle sue dipendenze e mi raccontava che in quei lontani tempi la terra rendeva poco, il pane era scarso e la polenta era sempre il piatto forte. Gli inverni non finivano mai: freddo e neve e il riscaldamento della famiglia era la stalla. Tugnèn Bazzì...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Chi sogna nuovi gerani