La notte del taccuino bianco
La prima vita dei fratelli Francese finisce il 26 gennaio del 1979. A Palermo, ha piovuto tutto il giorno. Un giorno come tanti altri. Giuseppe, il più piccolo, ha dodici anni. Ha la febbre e, malgrado sia indebolito dall’influenza, gioca nella cameretta che divide con gli altri tre fratelli.
Giulio, il primogenito, ha ricevuto la telefonata del padre in redazione. Sono le nove di sera. È tardi, pensa guardando l’orologio. Sta smettendo di piovere, è ora. Con la consueta sincronia, padre e figlio lasciano le rispettive redazioni e si danno appuntamento a casa, per cena. Giulio lavora al «Diario» da poco ed è per questo che ci tiene a essere il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. Prende il soprabito, saluta i colleghi e si avvia velocemente alla fermata dell’autobus. Ha vent’anni e tutta la vita davanti. Ha da poco ricevuto l’incarico di cronista e ha dato il primo esame all’università. C’è una ragazza che gli piace moltissimo. Si chiama Giovanna. È felice, quasi intontito da questa fase della sua vita in cui convergono amore, lavoro, studio. Vorrebbe congelare il tempo, nei pochi chilometri che lo separano da casa, con l’immagine dei suoi traguardi. Il meglio deve arrivare e tutto dipende da lui. Lo sente. Scende ciondolando dall’autobus ebbro di pensieri, gira l’angolo e imbocca viale Campania.
Un ostacolo ostruisce il passaggio. Più di un ostacolo: è una folla che blocca l’entrata di casa sua. Si fa spazio fra i curiosi. Non sente i loro corpi, a fatica distingue i loro volti. Fra loro Boris Giuliano, capo della squadra mobile, troneggia su tutti. Giulio è abituato a riconoscerlo a tal punto che l’equazione è immediata. Boris Giuliano + polizia + folla = omicidio.
Se c’è l’investigatore Giuliano, pensa Giulio, ci deve essere anche papà. In città lo sanno tutti. Se ci scappa il morto, Mario Francese è sulla scena del delitto un attimo dopo l’arrivo della polizia. A volte anche prima. E stasera sarà come al solito: un cadavere per terra, gli agenti che allontanano i curiosi, Giuliano che si passa la mano sui baffi e Mario Francese che prende appunti. Appena capisce che un uomo è stato ucciso, Giulio comincia a cercare suo padre con lo sguardo. Lo immagina come sempre, piegato sulla vittima a terra mentre solleva il lenzuolo che copre il corpo ancora caldo, intento a raccogliere ogni indizio possibile con una disinvoltura tale da non permettere a nessuno di opporsi. Polizia compresa. Gli basta poco per intuire la dinamica di un omicidio e distillare, fra i mille inutili particolari, i dettagli fondamentali per il suo resoconto. Papà è fatto così, ha un gran fiuto, ma stasera Giulio non lo scorge fra la folla. Si concentra sul battito del suo cuore. È emozionato. Gli spiace di essere così sfacciato, del resto a pochi metri da lui c’è una vittima che giace a terra, ma per Giulio è il primo caso di omicidio e potrà seguirlo perfino prima di suo padre. Forse potrebbe essere un’occasione per rafforzare il suo ruolo al giornale. Prende il taccuino e inizia a cercare una pagina bianca. “Papà cosa avrebbe fatto? Già... papà... dovrebbe essere arrivato prima di me, dove sarà?”
Fabio è il secondo figlio. Ha diciassette anni. Ancora gli pesa la discussione avvenuta con suo padre di mattina. Teme che a cena riprenda l’argomento e spera nel sostegno dei fratelli. Dopo l’infarto dell’estate scorsa, Mario ha una sola preoccupazione: non lasciare soli i suoi figli «senza arte né parte», ancora troppo giovani e fragili per farsi strada da soli. Vorrebbe che Fabio trovasse un lavoro in banca e si è impuntato con un accanimento martellante.
«Papà, ma che dici? Io faccio il quarto alle superiori. Che ci vado a fare in banca?» gli ha risposto Fabio senza prenderlo sul serio. Maria, sua madre, non si è intromessa nella discussione.
Da ore Fabio non riesce a pensare ad altro: l’immagine di lui, seduto dietro il vetro di una banca. Non sa ancora cosa vuole fare nel suo futuro, ma concentrarsi sul lavoro gli sembra prematuro, non è pronto. Finalmente suo fratello Giuseppe lo distrae da questa prospettiva.
«Boom boom! Fabio, hai sentito i colpi? Che sono, spari?» Giuseppe corre alla finestra lasciando i suoi giochi in un angolo, attratto da qualcosa che sembra molto più eccitante. Gesticola simulando una sparatoria.
Fabio si gira di scatto e si avvicina alla finestra con sua madre.
Dall’alto non si capisce un granché. Di sotto c’è una gran ressa, è fitto come un cespuglio di rovi, non si distingue niente. È buio, nemmeno le luci intermittenti delle volanti aiutano a definire i contorni di quella scena. Neanche la luna, più pallida di una lampada votiva. Eppure qualcosa di grave deve essere successo.
«Restate qua, vado a vedere cosa è successo» dice Fabio e si precipita giù di corsa per le scale. Poco lontano dall’androne, sul ciglio della strada, quasi a ridosso delle auto parcheggiate, giace a terra il corpo di un uomo. Bloccato dalla vista del sangue, Fabio non riesce ad avvicinarsi più di tanto alla scena del delitto. Fabio torna in casa, corre al telefono e chiama la redazione in cerca di suo padre.
«Sotto casa nostra c’è un caos che sta bloccando il traffico. Mandate un cronista... passatemi mio padre... Ah, papà è già uscito. Da molto? Va bene. Mandate un fotografo, pare ci sia un morto. Ora vado a vedere chi è e magari vi richiamo.»
Fabio ritorna in strada. Si fa spazio fra i rovi umani e intravede sull’asfalto la sagoma del cadavere. Appartiene a un uomo robusto, avvolto in un loden verde. Il sangue scorre e si mescola velocemente nelle pozzanghere. Fabio tira un sospiro di sollievo.
«Menomale, è troppo grosso per essere papà. Per un momento avevo temuto... Ha un abito grigio. No, non può essere. Non ha nemmeno messo l’auto dove la parcheggia di solito, vicino al cancello del garage. Quindi non è ancora arrivato...» Il suo sguardo si muove incasellando a scatti ogni dettaglio nella mente. Li ordina per avere il controllo dell’intera scena. Ma poi tutto si rianima, non c’è spazio per la logica. Si guarda intorno e si accorge di non essere solo. Guarda i suoi fratelli, con complicità e disperazione. C’è Giulio, ed ecco Massimo... è sceso anche Massimo. Menomale che Giuseppe ha la febbre ed è rimasto in casa, è piccolo e potrebbe spaventarsi. Se nessuno dice niente, non ci sarà niente da dire. Pensa sollevato avvitandosi disperatamente ai suoi fratelli, per non tornare solo, a pensare. Barcollando si dirige verso Boris Giuliano, che lo sorregge e lo fa accomodare con dolcezza sul muretto nella portineria.
Massimo ha quattordici anni. A terra c’è un cadavere. È curioso. “Appena vedo papà gli racconto quello che ho visto” pensa. “A proposito, papà dov’è?” Massimo è raggiunto da un brivido. Guarda quell’uomo a terra e punta diretto alla forma del cranio. Poi alza lo sguardo. È l’unico che nota l’auto del padre. Si avvicina alla macchina e la tocca. È ancora calda.
«Fatemi passare! Devo capire, vedere...» Si fa strada fra la gente. Cerca di ragionare, di restare lucido e si chiede: cosa farebbe papà al mio posto? Massimo si allontana dalla folla, rientra in casa precipitandosi su per le scale, raggiunge la madre trafelato.
«Mamma, dimmi com’è vestito papà. Non chiedermi perché, dimmi com’è vestito e basta.»
Maria scandisce le parole lentamente quasi sperando di essere interrotta, di vedere smentito il suo presentimento. Inizia la descrizione mentre i suoi lineamenti, sempre composti, controllati, crollano al pronunciare quelle parole fatali: loden verde, abito grigio elegante.
«Massimo parla, dimmi qualcosa, perché me lo chiedi?»
«Ma come perché te lo chiedo, mamma! Mamma... guarda di sotto. Non vedi? Non vuoi più affacciarti... L’abbiamo visto tutti. Mamma!»
Intanto Fabio è tornato giù in strada. Vede Giulio impietrito, accanto a Boris Giuliano che lo tiene sotto braccio senza proferire parola. Vanno avanti e indietro, ma Giulio è come se non ci fosse. È il poliziotto a pilotare la camminata. Giulio ha ancora il taccuino aperto. La penna è caduta. Non ha preso nessun appunto. Non serve memorizzare il nome della vittima.
Gli agenti allontanano i due ragazzi da quella pozza di sangue stagnante che ha soffocato la pioggia.
Fabio guarda negli occhi Giulio, gli chiede: «È papà?».
Giulio ricambia lo sguardo senza rispondergli, circondandolo con un abbraccio impalpabile. Si mescolano pianto, singhiozzi e silenzio.
Si sentono beffati da quei minuti in cui, per tutti, niente è stato come credevano.
Il 26 gennaio del 1979 non è più un giorno come tanti. Al numero 15 di viale Campania un uomo è stato ucciso. L’hanno abbattuto e l’asfalto si è portato via il suo ultimo respiro.
Quella sera, alle nove e dieci, Mario Francese aveva posteggiato la sua auto, una Alfa Romeo, non al solito posto all’uscita del garage, ma di fronte, vicino alla pompa di benzina. Aveva attraversato la strada, a piedi, estraendo dalla tasca dei pantaloni le immancabili sigarette e i cerini. Un killer sui trent’anni – giacca, cravatta e un paio di baffi – è sceso da un’Alfetta blu e gli ha sparato alle spalle con precisione. I colpi sono stati esplosi al buio. Chi ha ucciso Mario Francese ha agito con la rapidità di un animale notturno. Nascosto tra un paio di auto posteggiate a spina di pesce e un’altra in doppia fila, ha puntato la pistola alla testa e ha premuto il grilletto. Quattro colpi di una calibro 38 hanno centrato la nuca, uno il collo e il sesto un dito della mano sinistra. Una donna, Ester Mangiarotti, ha visto tutto. Era affacciata alla finestra a circa otto metri di distanza. Il killer l’ha vista, l’ha guardata negli occhi e si è allontanato ostentando freddezza. La signora abitava nell’appartamento situato nel piano rialzato dello stesso stabile della vittima. Ha memorizzato ogni fase. Ogni movimento dell’omicidio. L’uomo è rientrato senza fretta a bordo dell’auto guidata da un complice. Si è seduto e ha affossato il corpo sul sedile posteriore rilassandosi, mentre l’auto sfrecciando ha imboccato viale Trinacria.
La testimone si trovava nella stanza da letto e, dopo aver sentito un rumore simile a un’esplosione, aveva distrattamente rivolto lo sguardo in strada. Scioccata, un attimo dopo si è ritrovata inconsapevolmente coinvolta nell’omicidio del suo vicino, l’uomo che vedeva uscire di casa tutti i giorni.
Quell’uomo si chiamava Mario Francese.
Chi era Mario?
Mario Francese era il giornalista di punta del «Giornale di Sicilia», si occupava di cronaca da oltre quindici anni. Quel giorno aveva scritto con voracità quattro pezzi. Era contento. Quattro mesi prima aveva superato un infarto, un dolore che lo aveva costretto ad affrontare le sue più grandi paure: lasciare i suoi figli e rinunciare al suo lavoro. Finalmente quell’incubo sembrava essere scomparso e Mario si sentiva vivo per la seconda volta, protetto dalle sue carte, la sua linfa vitale. Almeno così credeva.
Ma prima di tutto, Mario era il padre di quattro ragazzi: Giulio, Fabio, Massimo e Giuseppe. Quando li ha lasciati aveva cinquantatré anni.
Quel giorno, una catena di dolore ha legato per sempre il destino di una famiglia.
«Mamma, ma perché gridi, piangi... che succede?» implora Giuseppe sgranando i suoi occhioni neri. Come spiegare a un bambino di dodici anni che qualcuno ha ucciso suo padre?
«Giuseppe, vieni qui. Hanno fatto del male a papà.»
«Chi ha fatto del male a papà, chi? È di nuovo in ospedale? I medici, il cuore?»
«Nessuna malattia.»
«E quando andiamo a trovarlo, quando torna?»
«Non torna, Giuseppe.»
Qualcuno sussurra quasi soffocando le parole: «È stata la mafia».
«La mafia, ma chi è la mafia?»
Sì, la mafia. Nel 1979, chi è? Da quel giorno Giuseppe continuerà a chiederselo per capire chi gli avesse portato via il papà. Era la domanda ingenua di un dodicenne che quel giorno aveva la febbre e giocava in camera aspettando che tutti si sedessero a tavola per cena. Del resto accadeva sempre così in casa Francese. Mario e Giulio tornavano a casa quasi contemporaneamente e subito dopo ci si metteva a tavola. Quella sera la tavola già preparata è restata intatta. Maria ha avuto il coraggio di sparecchiare solo alle prime luci dell’alba.
Ha ...