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PAROLE AI POVERI E AI RICCHI
Nell’Emilia grassa, dove il contadino medio non solo riesce a mangiare lavorando senza scannarsi (la terra è buona e le macchine lo aiutano) ma riesce pure ad accumulare; nell’Emilia dove il latifondo è sconosciuto e dove, più che in ogni altra parte d’Italia, è diffusa la piccola proprietà e la mezzadria; nell’Emilia dove nessuno va a piedi perché i bambini prima ancor di imparare a camminare imparano ad andare in bicicletta, dove ogni frazione ha la sua scuola, hanno vinto i comunisti.
Nell’Italia meridionale dove il latifondo incombe sconfinato, dove la terra spesso è cattiva e avara e gretta come chi la possiede, dove la piccola proprietà è un’eccezione e, mancando le case coloniche, la gente deve addensarsi nei paesi e deve, talvolta, dividere col somaro una stanza malsana e ci son più mosche che aria, là i comunisti son stati battuti.
— È l’ignoranza che rovina quei disgraziati — ghignano i comunisti emiliani. — La superstizione, le chiacchiere del prete.
A nugoli, come le zanzare, gli agit-prop hanno invaso il Meridione braccando fin nelle capanne e nelle grotte.
Si chinava, l’agit-prop, raccoglieva una manciata di terra, la mostrava al contadino malvestito e affamato: «Questa terra è tua! E sarà tua e tuo sarà tutto quello che produce se voterai per noi che siamo gli amici dei lavoratori!».
Era quello, magari, il più ignorante contadino della zona: eppure capiva benissimo che, votando per il Fronte, avrebbe fatto il suo interesse.
Ma non lo ha ingannato il pugno di terra offerto dall’agit-prop: i ragionamenti degli agit-prop possono ingannare quel mediocre funzionario che si chiama (e non credo che ora ne sia molto soddisfatto) Togliatti e gli fa dire, mentre sta parlando alla radio di Roma, che i giornalisti della radio di Roma sono dei faziosi che falsano la verità e che, dopo il 18, li avrebbe licenziati tutti. Sono i ragionamenti che hanno indotto i cinque comunisti di San Pietro in Casale (Bologna) a gridare ai carabinieri: «Dopo il 18 aprile giocheremo a bocce con le vostre teste e faremo salsiccia coi vostri corpi!».
Sono i ragionamenti che hanno indotto il giorno 20 aprile a far pensare seriamente a un gruppo di gerarchi comunisti milanesi radunati in una sala vicino a piazza della Scala che forse era il caso di «adoperare la maniera forte».
Il ragionamento dell’agit-prop che si china e raccoglie il pugno di terra e dice: «È tuo! Sarà tua questa terra» ha convinto i progrediti comunisti del Nord, ma non ha ingannato gli ignoranti contadini del Sud: ignoranti ma civili.
Perché epurazione, prelevamento, eliminazione son parole nate nelle nebbie del Nord, in quel Nord dove le progredite masse comuniste trovano logico che nella Germania occupata i russi demoliscano splendidi castelli per costruire con quel materiale delle case popolari. Dove si può arrivare, come è accaduto nel cielo di Udine, a mitragliare un aereo che lancia manifestini di propaganda di un partito avverso al Fronte.
Anno IV - N. 18 - 2 Maggio 1948
Le foibe sono cosa del Nord.
Amici borghesi ricchi, io non ho che parole da dare a quella gente e le darò. Ma voi potete dare ben più a quella gente: voi potete far sì che per quella gente il lavoro non sia più semplicemente una condanna.
Non mandate elemosine: mandate delle macchine, fate sorgere laggiù delle case, aprite delle strade. E aprite il cervello ai borghesi ricchi di laggiù. Molti ne hanno urgente bisogno. L’esperimento della quantità è fallito. Ora comincia il più pericoloso: quello che si basa sulla qualità .
Il giorno in cui il comunismo cesserà d’interessarvi perché non vedrete più nelle piazze le masse urlanti e scomposte e vedrete invece le poche necessarie manifestazioni del comunismo ridotte a tranquille sfilate di poca gente silenziosa e garbata e concluderete: «Anche loro si sono italianizzati e si sono calmati», allora significherà che il comunismo avrà capito che trecentomila uomini sicuri e perfettamente inquadrati possono fare una rivoluzione, mentre una mandria incontrollabile di due milioni può far soltanto del fracasso.
Il nemico non è indebolito! Il nemico si è potenziato perché la crisi del comunismo in Italia è di quantità . È come un carro che ha l’asse delle ruote lungo due metri e deve camminare su una strada larga un metro. Bisogna che restringa la carreggiata. Molti ora se ne andranno: non servono più, l’esperimento di massa non è riuscito.
Amici borghesi ricchi: non è finito niente. Semplicemente qualcosa è stato rimandato.
(C. 17, 25-4-1948)
Anno IV - N. 17 - 25 Aprile 1948
STORIA DI UNO
Casimiro
Questa è la storia di uno che andò in guerra ma, quando ritornò a casa, aprì la porta e non trovò più niente, neanche una mattonella del pavimento.
Si chiamava Casimiro, aveva circa trent’anni e l’ultima naja l’aveva masticata in prigionia: arrivò alla stazione all’imbrunire, saltò giù dal vagone e, dopo una corsa maledetta, si trovò sul pianerottolo semibuio di un terzo piano, davanti a una porta chiusa. Allora girò la maniglia e spalancò la porta e trovò soltanto il cielo bigio della sera.
Rimase lì, sulla soglia dell’abisso, a guardare i rottami e i calcinacci ammucchiati in fondo al baratro. E sul mucchio delle macerie era cresciuta l’erba.
Arrivò ansimando su per la scala un vecchio con un legno in mano.
— Cosa fai tu qui? — domandò il vecchio minaccioso.
— E voi? — rispose Casimiro.
— Il mio mestiere — disse il vecchio. — Monto la guardia agli infissi perché, in questo sporco paese di briganti, ruberebbero perfino la cassa a un morto. Ma tu cosa cerchi? Chi sei?
— Torno dalla prigionia — spiegò Casimiro. — Cercavo i miei: mia mamma e mio babbo.
Il vecchio si sedette sull’ultimo gradino e accese la pipa. Anche Casimiro si sedette vicino al vecchio e, intanto, nel silenzio si sentiva cigolare la porta che era rimasta spalancata contro il cielo bigio e si muoveva per via dell’aria.
— Un disgraziato torna dopo un sacco di tempo, apre la porta di casa sua e non trova più niente: sono gli scherzi schifosi della guerra! — borbottò a un tratto il vecchio. — Però bisogna farsene una ragione: tanti sono morti così.
— Quelli erano i miei — rispose sottovoce Casimiro. — Non ho più nessuno — sussurrò dopo un poco. — Sono solo.
— Sareste più solo e più ancora senza nessuno se foste morto anche voi — esclamò il vecchio. — Accontentatevi che, di tre, se ne sia salvato uno. Lì, al piano di sotto, erano in sette in famiglia e sono morti tutti. Bisogna sempre voltarsi indietro, guardare chi sta peggio.
Si sentirono degli spari, nella strada, poi un urlo di dolore e Casimiro levò la testa.
— Non è finita la guerra qui?
— Sì — spiegò tranquillo il vecchio. — È finita. Però ne è incominciata un’altra. Dove avete intenzione di andare stanotte?
— Non lo so.
— Non vi conviene uscire: è già buio. Il minimo che vi capita è di pigliarvi una pallottola nella zucca o un temporale di legnate sul groppone. Vi conviene arrangiarvi qui.
Casimiro slegò la coperta che portava arrotolata a tracolla, la distese per terra sul pianerottolo e si sdraiò poggiando la testa sullo zaino.
— Buona notte — borbottò il vecchio cominciando a scendere.
Erano i primi di maggio, nel cielo della sera si era alzata la luna. Casimiro, sdraiato sul pianerottolo, guardava la luna attraverso la porta spalancata sull’abisso.
Un soffio di vento arrivò dalla periferia: la porta si chiuse con un colpo secco e Casimiro rimase al buio.
Riudì nel silenzio le parole del vecchio: «Accontentatevi che di tre se ne sia salvato uno».
Pensò che forse sarebbe stato meglio se fosse morto anche lui.
«Oramai è fatta» sospirò. «La guerra è finita: chi è morto è morto chi è vivo è vivo.»
(C. 29, 18-7-1948)
MONDO PICCOLO
Furore
Dalle quattro del mattino, il signor Bacchi stava facendo dei conti.
Bacchi era l’industriale del paese: in origine aiutava suo padre a segare, zappettare e piallare tavolette di gelso per far doghe da bigoncio, poi a vent’anni andò a soldato e così scoperse la città e il bindello, o sega a nastro.
Finita la ferma, fece una scappatina a casa per salutare il padre; poi, siccome aveva delle braccia che parevano pilastri, andò in Canada a fare il boscaiolo e, da solo, rendeva come una squadra di sei uomini. Dopo cinque anni rimpatriò, comprò un bindello e un bel giorno la gente trovò una grande insegna sul tetto della casupola del falegname: «Luigi Bacchi & Padre - Segheria a vapore».
Il bindello marciava e bene; poi la faccenda si perfezionò e si ingrandì e, a cinquantasei anni, Bacchi era il signor Bacchi proprietario e direttore di un’azienda con 45 operai i quali facevano marciare tutte le macchine più importanti che il Padreterno ha creato per la lavorazione del legno.
Il signor Bacchi, dunque, stava sfogliando registri e facendo conti dalle quattro del mattino e, quando alle 8,30 si affacciò alla porta dell’ufficio il ragioniere, alzò la testa e domandò:
— Sette per otto?
— Cinquantasei.
Il signor Bacchi allargò le braccia.
— E allora, se sette per otto fa cinquantasei, o si licenziano quindici operai e gli altri aumentano la produzione del 20 per cento senza aumenti di paga, o qui la baracca salta.
Il ragioniere scosse il capo.
— Lo so perfettamente: ma chi riuscirà a farglielo capire?
— Sono esseri ragionevoli — rispose il Bacchi. — Si chiamano, si mostrano loro i conti, le fatture, le cambiali, e dovranno darmi ragione.
In quel momen...