
- 580 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La vita istruzioni per l'uso
Informazioni su questo libro
Icataloghi, le descrizioni, il racconto delle cose inanimate: questo aspetto è una caratteristica del libro e una ragione del suo fascino. Ma certo la sua presa di lettura sta nell'altro aspetto: il libro brulicante di storie, d'avventure, di delitti, d'indagini poliziesche. Non per nulla nel frontespizio dell'edizione francese sotto il titolo La Vie mode d'emploi figura la dicitura romans: "romanzi" al plurale. Ogni appartamento dello stabile cela un mistero, un dramma, una peripezia che si dirama nelle più esotiche contrade del mondo o trae origine in epoche remote. Le cento stanze diventano le Mille e una notte."
Domande frequenti
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Informazioni
Dedica
Alla memoria di Raymond Queneau
PREAMBOLO
L’occhio segue le vie che nell’opera gli sono state disposte
Paul Klee, Pädagogisches Skizzenbuch
All’inizio, l’arte del puzzle sembra un’arte breve, di poco spessore, tutta contenuta in uno scarno insegnamento della Gestalttheorie: l’oggetto preso di mira – sia esso un atto percettivo, un apprendimento, un sistema fisiologico o, nel nostro caso, un puzzle di legno – non è una somma di elementi che bisognerebbe dapprima isolare e analizzare, ma un insieme, una forma cioè, una struttura: l’elemento non preesiste all’insieme, non è più immediato né più antico, non sono gli elementi a determinare l’insieme, ma l’insieme a determinare gli elementi: la conoscenza del tutto e delle sue leggi, dell’insieme e della sua struttura, non è deducibile dalla conoscenza delle singole parti che lo compongono: la qual cosa significa che si può guardare il pezzo di un puzzle per tre giorni di seguito credendo di sapere tutto della sua configurazione e del suo colore, senza aver fatto il minimo passo avanti: conta solo la possibilità di collegare quel pezzo ad altri pezzi e in questo senso l’arte del puzzle e l’arte del go* hanno qualcosa in comune; solo i pezzi ricomposti assumeranno un carattere leggibile, acquisteranno un senso: isolato, il pezzo di un puzzle non significa niente; è semplicemente domanda impossibile, sfida opaca; ma se appena riesci, dopo molti minuti di errori e tentativi, o in un mezzo secondo prodigiosamente ispirato, a connetterlo con uno dei pezzi vicini, ecco che quello sparisce, cessa di esistere in quanto pezzo: l’intensa difficoltà che ha preceduto l’accostamento e che la parola puzzle – enigma – traduce così bene in inglese, non solo non ha più motivo di esistere, ma sembra non averne avuto mai, tanto si è fatta evidenza: i due pezzi miracolosamente riuniti sono diventati ormai uno, a sua volta fonte di errori, esitazioni, smarrimenti e attesa.
La parte dell’artefice di puzzle è difficile da definire. Nella maggior parte dei casi – per tutti i puzzle di cartone in particolare – i puzzle sono fatti a macchina e i loro contorni non seguono necessità alcuna: una pressa tranciante regolata secondo un disegno immutabile taglia i fogli di cartone sempre nel medesimo modo; il vero amatore respinge questo tipo di puzzle, non tanto perché sono di cartone invece che di legno, né perché sulla confezione è riprodotto il modello, ma soprattutto perché con questo sistema si viene a perdere la specificità stessa del puzzle; poco importa all’occorrenza, contrariamente a un’idea fortemente ancorata nella mente del pubblico, che l’immagine iniziale si consideri facile (una scena di genere alla maniera di Vermeer per esempio, o la fotografia a colori di un castello austriaco) oppure difficile (un Jackson Pollock, un Pissarro o – misero paradosso – un puzzle bianco): non nel soggetto del quadro o nella tecnica del pittore sta la difficoltà del puzzle, ma nella sapienza del taglio, e un taglio aleatorio produrrà necessariamente una difficoltà aleatoria, oscillante fra una facilità estrema per i bordi, i particolari, le macchie di luce, gli oggetti ben definiti, le pennellate, le transizioni, e una difficoltà fastidiosa per tutto il resto: il cielo senza nuvole, la sabbia, i prati, i coltivi, le zone d’ombra, eccetera.
Nei puzzle del genere i pezzi si dividono in alcune classi maggiori fra cui le più note sono:
gli ometti

le croci di Lorena

e le croci

e poi riformati i bordi, messi a posto i particolari – la tavola con la tovaglia rossa a frange gialle molto chiare, quasi bianche, che regge un leggìo con un libro aperto, la ricca cornice dello specchio, il liuto, l’abito rosso della donna – e le grandi masse degli sfondi divise a blocchi seguendone le tonalità di grigio, marrone, bianco o azzurro cielo – la soluzione del puzzle consisterà solo nel tentare via via tutte le combinazioni plausibili.
L’arte del puzzle inizia con i puzzle di legno tagliati a mano quando colui che li fabbrica comincia a porsi tutti i problemi che il giocatore dovrà risolvere, quando, invece di lasciare che il caso imbrogli le piste, vuole sostituirgli l’astuzia, la trappola, l’illusione: il modo premeditato, tutti gli elementi che figurano sull’immagine da ricostruire – questa poltrona di broccato d’oro, quel tricorno nero ornato da una piuma nera un po’ sciupata, quell’altra livrea color giunchiglia tutta coperta di galloni d’argento – saranno il punto d’avvio di un’informazione ingannevole: lo spazio organizzato, coerente, strutturato, significante, del quadro verrà spezzettato non solo in elementi inerti, amorfi, poveri di significato e informazione, ma anche in elementi falsificati, portatori di false informazioni: due frammenti di cornicione che s’incastrino perfettamente mentre in realtà appartengono a due parti molto distanti del soffitto, la fibbia di una cintura di uniforme che si rivela in extremis un pezzo di metallo reggitorcia, vari pezzi tagliati quasi allo stesso modo appartenenti, gli uni a un arancio nano sulla mensola di un caminetto, gli altri al suo riflesso appena appannato in uno specchio, sono i classici esempi di trabocchetti tesi all’appassionato.
Se ne potrà dedurre quella che è probabilmente la verità ultima del puzzle: malgrado le apparenze, non si tratta di un gioco solitario: ogni gesto che compie l’attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto prima di lui; ogni pezzo che prende e riprende, esamina, accarezza, ogni combinazione che prova e prova ancora, ogni suo brancolare, intuire, sperare, tutti i suoi scoramenti, sono già stati decisi, calcolati, studiati dall’altro.
PRIMA PARTE
CAPITOLO I
Per le scale, 1
Sì, tutto potrebbe iniziare così, qui, in questo modo, una maniera un po’ pesante e lenta, nel luogo neutro che appartiene a tutti e a nessuno, dove la gente s’incontra quasi senza vedersi, in cui la vita dell’edificio si ripercuote, lontana e regolare. Di quello che succede dietro le pesanti porte degli appartamenti, spesso se non sempre si avvertono solo quegli echi esplosi, quei brani, quei brandelli, quegli schizzi, quegli abbozzi, quegl’incidenti o accidenti che si svolgono in quelle che si chiamano le parti comuni, i piccoli rumori felpati che la passatoia di lana rossa attutisce, gli embrioni di vita comunitaria che sempre si fermano sul pianerottolo. Gli abitanti di uno stesso edificio vivono a pochi centimetri di distanza, separati da un semplice tramezzo, e condividono gli stessi spazi ripetuti di piano in piano, fanno gli stessi gesti nello stesso tempo, aprire il rubinetto, tirare la catena dello sciacquone, accendere la luce, preparare la tavola, qualche decina di esistenze simultanee che si ripetono da un piano all’altro, da un edificio all’altro, da una via all’altra. Si barricano nei loro millesimi – è così che si chiamano infatti – e vorrebbero tanto che non ne uscisse niente, ma per quanto poco ne lascino uscire, il cane al guinzaglio, il bambino che va a prendere il pane, l’espulso o il congedato, è sempre dalle scale ch’esce tutto. Tutto quello che passa infatti passa per le scale, tutto quello che arriva arriva dalle scale, lettere, partecipazioni, i mobili che gli uomini dei traslochi portano o portano via, il dottore chiamato d’urgenza, il viaggiatore che torna da un lungo viaggio. È per questo che le scale restano un luogo anonimo, freddo, quasi ostile. Nelle antiche case, c’erano ancora gradini di pietra, ringhiere di ferro battuto, qualche scultura, delle torciere, una panchina a volte per dar modo alle persone anziane di riposarsi fra un piano e l’altro. Negli edifici moderni, ci sono ascensori con le pareti coperte di graffiti che si vorrebbero osceni e scale dette “di sicurezza", di cemento grezzo, sporche e sonore. In questo edificio, dove c’è un vecchio ascensore quasi perennemente guasto, le scale sono un luogo vetusto, di dubbia pulizia, che si degrada di piano in piano secondo le convenzioni della rispettabilità borghese: passatoia due volte spessa fino al terzo, spessore unico dal terzo in poi, per finire in niente agli ultimi due sotto i tetti.
Sì, inizierà da qui: fra il terzo e il quarto piano di rue Simon-Crubellier, numero 11. Una donna sui quarant’anni sta salendo le scale; indossa un lungo impermeabile di skai e porta in testa una specie di berretto di feltro a pan di zucchero, un po’ sul genere secondo noi folletto, diviso a scacchi rossi e grigi. Un borsone di tela bigia, di quelli volgarmente detti “chiava-e-via", le pende dalla spalla destra. Un fazzolettino di batista è annodato intorno a uno degli anelli di metallo cromato che legano la borsa alla tracolla. Su tutta la superficie della borsa si ripetono tre motivi pseudo stampigliati: un grosso orologio a bilanciere, una pagnotta campagnola tagliata al centro, e una specie di recipiente di rame senza manici.
La donna guarda una pianta che tiene nella mano sinistra. È un semplice foglio di carta, le cui grinze ancora visibili testimoniano una piegatura in quattro, fissato per mezzo di un fermaglio a un grosso volume multigrafico: il regolamento di comproprietà riguardante l’appartamento che la donna sta per visitare. Sul foglio in realtà sono state schizzate non una, ma tre piante: la prima, in alto e a destra, permette di localizzare l’edificio, pressapoco a metà di rue Simon-Crubellier che divide obliquamente il quadrilatero formato, nel quartiere de la Plaine Monceau, XVII arrondissement, dalle vie Médéric, Jadin, De Chazelles e Léon Jost; la seconda, in alto e a sinistra, è uno spaccato dell’edificio che indica schematicamente la disposizione degli appartamenti, precisando i cognomi di qualche abitante: signora Nochère, la portinaia; signora de Beaumont, secondo a destra; Bartlebooth, terzo a sinistra; Rémi Rorschash, produttore televisivo, quarto a sinistra; dottor Dinteville, sesto a sinistra, così come l’appartamento vuoto, sesto piano a destra, occupato fino alla morte da Gaspard Winckler, artigiano; la terza pianta, nella metà inferiore del foglio, è quella dell’appartamento di Winckler: tre locali che danno sulla strada, una cucina e uno stanzino da bagno sul cortile, un ripostiglio cieco.
La donna tiene nella mano destra un voluminoso mazzo di chiavi, quelle di tutti gli appartamenti visitati in giornata indubbiamente; parecchie sono attaccate a portachiavi fantasia: una bottiglia in miniatura di Marie Brizard, un tee* da golf e una vespa, un pezzo di domino raffigurante un doppio sei, e un gettone di plastica, ottagonale, nel quale è incastonato un fiore di tuberosa.
dp n="13" folio="13" ? Gaspard Winckler è morto da quasi due anni. Non aveva figli. Non gli si conoscevano parenti. Bartlebooth incaricò un notaio di rintracciare eventuali eredi. La sua unica sorella, Anne Voltimand, era morta nel 1942. Il nipote, Grégoire Voltimand, era stato ammazzato sul Garigliano nel maggio 1944, all’epoca dello sfondamento della linea Gustav. Al notaio occorsero parecchi mesi per scovare un lontano cugino di Winckler; si chiamava Antoine Rameau e lavorava in una fabbrica di divani modulari. I diritti di successione cui si aggiungevano le spese occasionate dall’accertamento dei successibili, si rivelarono talmente alte che Antoine Rameau dovette vendere tutto all’asta. E già da qualche mese i mobili sono in Sala aste e da qualche settimana l’appartamento è stato rilevato da un’agenzia.
La donna che sale le scale non è la direttice dell’agenzia, ma la sua vice; non si occupa di questioni commerciali, né di relazioni con i clienti, ma esclusivamente di problemi tecnici. Dal punto di vista immobiliare, l’affare è buono, il quartiere valido, la facciata in pietra da taglio, le scale discrete malgrado la decrepitezza dell’ascensore, e la donna è venuta a ispezionare più accuratamente lo stato dei luoghi, a buttar giù una pianta più precisa dei locali con, per esempio, dei tratti più marcati per distinguere le pareti divisorie e dei semicerchi con freccia per indicare in che senso si aprono le porte, prevedere i lavori e preparare un primo preventivo per il rammodernamento: il tramezzo che divide lo stanzino da bagno dal ripostiglio sarà abbattuto, per far posto a un bagno vero con vasca scalinata e water; le mattonelle della cucina verranno sostituite; una caldaia murale a gas cittadino, mista (riscaldamento centrale, acqua calda), sostituirà la vecchia caldaia a carbone; il parquet a pezzi e bocconi delle tre stanze verrà rimosso e rimpiazzato da una copertura di cemento a sua volta coperta di thibaude** e moquette.
Delle tre stanzette in cui Gaspard Winckler ha vissuto e lavorato per quasi quarant’anni, non resta molto. Quei pochi mobili, il piccolo banco da lavoro, la sega a due tempi, le minuscole lime, non c’è più niente. Sulla parete di camera sua, di fronte al letto, vicino alla finestra, se n’è andato il quadro quadrato che gli piaceva tanto: figurava un’anticamera nella quale si trovavano tre uomini. Due in piedi, con la finanziera, pallidi e grassi, e sovrastati da cilindri che parevano avvitati si I cranio. Il terzo, anche questo vestito di nero, era seduto accanto alla porta nell’atteggiamento di chi aspetti qualcuno e impegnato a infila si un paio di guanti nuovi le cui dita aderivano perfettamente alle sue.
dp n="14" folio="14" ? La donna sale le scale. Fra poco, il vecchio appartamento diventerà un grazioso piccolo alloggio, doppio soggiorno + camera e servizi, vista, tranquillità. Gaspard Winckler è morto, ma la lunga vendetta che ha ordito con tanta pazienza, con tanta minuzia, non si è ancora compiuta.
CAPITOLO II
Beaumont, 1
Il salotto della signora de Beaumont è quasi completamente occupato da un grande pianoforte da concerto sul leggìo del quale è appoggiata la partitura chiusa di un celebre ritornello americano, Gertrude of Wyoming, di Arthur Stanley Jefferson. Davanti al pianoforte è seduto un vecchio con la testa coperta da un foulard di nylon, e sta per accordarlo.
Nell’angolo sinistro della stanza, c’è una grande poltrona moderna, fatta di una gigantesca semisfera di plexiglas cerchiata d’acciaio, che poggia su una crociera di metallo cromato. Di fianco, un blocco di marmo di sezione ottagonale funge da tavola bassa; sopra, è appoggiato un accendino d’acciaio insieme a un sottovaso cilindrico da cui spunta una quercia nana, uno di quei bonzai giapponesi la cui crescita è stata ormai controllata, rallentata, modificata al punto da presentare tutti i segni della maturità, e cioè della senescenza, pur non essendo praticamente mai cresciuti, e la cui perfezione a detta di chi li cresce dipende più dalla concentrazione meditativa dedicatagli dall’allevatore che dalle cure materiali che gli si possono dare.
Posato direttamente sul parquet di legno chiaro, un po’ avanzato rispetto alla poltrona, c’è u...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Copyright
- LA VITA ISTRUZIONI PER L’USO
- Preambolo
- PRIMA PARTE
- SECONDA PARTE
- TERZA PARTE
- QUARTA PARTE
- QUINTA PARTE
- SESTA PARTE
- Epilogo
- Riferimenti cronologici
- Cenni sulle principali storie raccontate in quest’opera
- Post scriptum