1
Sotto il primo sole del mattino, l’acciottolato fuori dall’ingresso di servizio del Museo di Storia Naturale di New York brillava di riflessi dorati. Davanti al portale di granito, la luce inondava la guardiola vetrata in cui un uomo anziano sedeva scomposto su una poltroncina. Era una figura familiare a tutto il personale. Fumava compiaciuto una pipa di calebasse e si godeva il tepore di uno di quei giorni ingannevolmente primaverili che capitano talvolta nel febbraio newyorkese e fanno fiorire prematuramente narcisi, crochi e alberi da frutto, solo per farli morire con il ritorno del gelo.
“’Giorno, dottore”, ripeteva Curly a tutti quelli che entravano, che fossero gli ultimi tra gli impiegati o i primi tra gli studiosi. I curatori avevano i loro momenti di gloria e di declino; i direttori potevano far carriera, vivere un trionfo e sprofondare nell’oblio; gli uomini un giorno aravano il campo e un altro vi si facevano seppellire; ma sembrava che Curly non sarebbe mai stato scalzato dalla sua guardiola. Faceva parte del Museo, né più né meno dei dinosauri che accoglievano i visitatori nella Grande Rotonda.
“Ecco qui, nonno!”
Il guardiano alzò lo sguardo, indispettito da quel tono colloquiale, giusto in tempo per vedere un giovanotto che infilava un pacco nella finestrella, facendolo piombare sulla mensola su cui Curly teneva il tabacco e i guanti.
“Mi scusi”, disse il vecchietto, richiamandolo con un cenno.
“Ehi!” Ma il ragazzo era già in sella alla sua mountain bike, con in spalla uno zaino nero traboccante di pacchetti.
“Cielo”, borbottò Curly, guardando il pacco: una scatola trenta centimetri per ventiquattro per ventiquattro, confezionata in carta marroncina e legata con abbondanza di spago, come si usava una volta. Il pacco era così ammaccato che c’era da chiedersi se il fattorino non fosse finito sotto un camion mentre glielo portava. L’indirizzo era scritto con grafia infantile: Per il curatore di rocce e minerali, Museo di Storia Naturale.
Il guardiano ripulì la pipa mentre studiava il pacco. Il Museo riceveva ogni settimana centinaia di “donazioni” da parte di bambini, che andavano da insetti spiaccicati a sassi insignificanti, da punte di freccia ad animali morti raccolti per strada. Curly sospirò, rinunciò dolorosamente alla comodità della sua poltroncina e mise il pacchetto sottobraccio. Depose la pipa, aprì la porta della guardiola e uscì sotto il sole, battendo le palpebre alla luce. Si diresse verso l’ufficio di smistamento della posta, sul vialetto, a poche decine di metri dall’ingresso di servizio.
“Che cos’abbiamo lì, signor Tuttle?”, domandò una voce.
Curly si voltò. Era Digby Greenlaw, il nuovo vicedirettore dell’amministrazione, che stava arrivando dal parcheggio del personale.
Il guardiano non gli rispose subito. Greenlaw non gli era simpatico, né gli andava a genio l’aria condiscendente con cui diceva signor Tuttle. Qualche settimana prima aveva anche avuto da ridire su come Curly controllava i tesserini dei dipendenti. “Non li guarda con attenzione”, aveva sostenuto. Accidenti, non aveva davvero bisogno di guardarli: conosceva di persona ogni singolo impiegato del Museo. “Un pacchetto”, bofonchiò.
La voce di Greenlaw assunse un tono ufficiale: “I pacchi andrebbero consegnati direttamente allo smistamento. E lei non dovrebbe lasciare la guardiola”.
Curly non si fermò. Alla sua età aveva imparato che il modo migliore per affrontare le persone spiacevoli è ignorarle.
Sentì alle sue spalle il vicedirettore che affrettava il passo e alzava la voce, dando per scontato che fosse duro d’orecchi. “Signor Tuttle? Le ho detto che non deve lasciare la guardiola incustodita.”
Curly si fermò, si voltò e gli porse il pacco. “Grazie, dottore, lei è molto gentile.”
Greenlaw lo fissò, gli occhi ridotti a due fessure. “Non ho detto che lo consegnavo io.”
Il guardiano non si mosse
“Oh, per l’amor del cielo!” Greenlaw, seccato, fece per prendere il pacco, ma le sue mani si fermarono a mezz’aria. “Curioso. Che cosa sarà?”
“Non lo so, dottore. L’ha portato un fattorino.”
“È tutto ammaccato.”
Il vecchietto si strinse nelle spalle.
Il vicedirettore non si decideva. Si chinò a osservare meglio. “È rotto. C’è un buco… Vede? Sta uscendo qualcosa.”
Curly guardò. C’era effettivamente un buco in un angolo, e fuoriusciva un fiotto sottile di polvere marrone. “Che diamine?…”
Greenlaw fece un passo indietro. “È una specie di polvere”, constatò in tono acuto. “Oh, Signore, che cos’è?”
Il guardiano non si spostò di un millimetro.
“Buon Dio, Curly, lo butti via! È antrace!” Greenlaw indietreggiò, malfermo sulle gambe, il volto distorto dal panico. “È un attacco terrorista! Qualcuno chiami la polizia! Io sono stato esposto! Oh, mio Dio, sono stato esposto!”
Il vicedirettore inciampò sull’acciottolato e cadde all’indietro, ma si rialzò di scatto e corse via. Quasi all’istante, due guardie uscirono dalla porta sull’altro lato. Una intercettò Greenlaw, l’altra si diresse verso Curly.
“Ma che fate?”, strillava Greenlaw. “State lontani! Chiamate il 911!”
Il guardiano rimase dov’era, con il pacco in mano. Era un’esperienza così insolita che la sua mente sembrava aver smesso di funzionare.
Le guardie tornarono indietro, tallonate da Greenlaw. Per un istante, nel vialetto regnò un silenzio irreale. Poi si mise a suonare un campanello d’allarme, assordante in quello spazio ristretto. In meno di cinque minuti nell’aria riecheggiavano le sirene e ben presto fu tutto un fervore di attività: auto della polizia, lampeggiatori, radio che crepitavano, megafoni e agenti in uniforme che correvano da ogni parte circondando la zona con il nastro giallo che indicava il pericolo di contaminazione, per tenere alla larga la folla crescente. I poliziotti ordinarono a Curly di buttare a terra il pacco e allontanarsi, buttare a terra il pacco e allontanarsi.
Ma lui non buttò a terra il pacco e non si allontanò. Era paralizzato, in totale confusione, mentre fissava il fiotto marrone che continuava a sgorgare dallo strappo nella carta formando un mucchietto tra i ciottoli ai suoi piedi.
E poi due strani individui con indosso rigonfie tute bianche e cappucci con visori di plastica gli si avvicinarono con passo lento, protendendo le mani in avanti, come nei vecchi film di fantascienza. Uno gli appoggiò una mano sulla spalla, l’altro gli prese gentilmente il pacco dalle dita e, con estrema cura, lo depose in una scatola blu. Il primo condusse Curly da parte e gli passò addosso la bocchetta di un buffo aspirapolvere. Poi fecero indossare anche a lui una di quelle tute, ripetendogli con le loro basse voci elettroniche che tutto sarebbe andato bene, che lo avrebbero portato in ospedale per fare qualche controllo e che non si doveva preoccupare. Mentre gli mettevano il cappuccio in testa, il vecchietto sentì il cervello che tornava in funzione e il corpo che riprendeva a muoversi.
“Mi scusi, dottore”, disse a uno dei due.
“Sì?”
“La mia pipa.” Indicò la guardiola. “Non scordatevi di prendermi la pipa.”
2
La dottoressa Lauren Wildenstein seguì con lo sguardo la squadra di pronto intervento che collocava il contenitore di plastica blu sotto la cappa, in laboratorio. Erano stati chiamati in servizio venti minuti prima e tanto lei quanto il suo assistente, Richie, erano pronti. Sulle prime era sembrato che stavolta potesse trattarsi di una cosa seria, tanto per cambiare: un pacco che perdeva polvere marrone, spedito a una notissima istituzione newyorkese, corrispondeva al classico profilo di un attacco bioterroristico. Ma i test per l’antrace eseguiti in loco avevano dato esito negativo e la dottoressa era certa che anche questo fosse un falso allarme. Nei due anni passati a capo del laboratorio di sorveglianza del dipartimento di Sanità di New York City erano arrivate oltre quattrocento segnalazioni di polveri sospette; grazie a Dio, nessuna era risultata un agente biologico letale. Finora.
La Wildenstein occhieggiò la tabella delle sostanze appesa alla parete: zucchero, sale, farina, soda caustica, eroina, cocaina, pepe e terra, in ordine di frequenza. Quella lista era una testimonianza della paranoia e dell’eccesso di allarmismo del tempo in cui vivevano.
La squadra se ne andò e la dottoressa si soffermò a esaminare il contenitore sigillato. Era stupefacente l’effetto che poteva fare un pacchetto pieno di polvere: era stato consegnato al Museo un’ora e mezza prima e già un guardiano e un vicedirettore erano in quarantena e sotto osservazione psichiatrica.
Sembrava che quest’ultimo fosse in preda a un attacco isterico.
Lauren Wildenstein scosse il capo.
“Che ne pensi?” Una voce da sopra la sua spalla. “Cocktail terrorista du jour?”
Lei ignorò la battuta. Il lavoro di Richie era ineccepibile, anche se il suo sviluppo emotivo si era arrestato in qualche momento durante le scuole elementari. “Passiamolo ai raggi X.”
“In marcia.”
L’immagine a falsi colori apparve sul monitor. Il pacco risultava contenere una sostanza amorfa. All’interno non c’erano lettere né altri oggetti visibili.
“Nessun detonatore”, commentò Richie. “Accidenti.”
“Procedo all’apertura del contenitore.” La dottoressa ruppe i sigilli di sicurezza ed estrasse il pacco. Notò la grafia approssimativa, infantile, la mancanza del mittente, i giri di spago male annodato. Tutto sembrava preparato ad arte per destare sospetti. Un angolo del pacco si era strappato. Ne usciva una polvere fine, marroncina. Non assomigliava a nessuno degli agenti biochimici usati dai terroristi, limitatamente agli studi compiuti da Lauren. Goffamente, a causa dei grossi guanti di protezione, la dottoressa tagliò lo spago e aprì il pacco, estraendone un sacchetto di plastica.
“Un sacco di sabbia”, sbuffò Richie.
“Comportiamoci come se fosse materiale a rischio, fino a quando non avremo chiarito che cos’è”, lo ammonì lei. Dentro di sé la pensava come il suo assistente, comunque era sempre meglio eccedere in cautela.
“Peso?”
“Un chilo virgola due. Per la cronaca, tutti i segnali di rischio biochimico sotto la cappa sono a zero.”
Con una spazzola, Lauren raccolse qualche dozzina di granuli di sostanza, e li distribuì in sei provette. Le sigillò e le dispose nell’apposito contenitore, che tirò fuori dalla cappa e consegnò a Richie.
Senza che occorresse dirglielo, l’assistente cominciò la consueta serie di test con i reagenti chimici. “È una fortuna averne così tanta”, osservò ridacchiando. “Possiamo bruciarla, cuocerla, dissolverla… e ce ne rimane abbastanza per farci un castello di sabbia.”
Lauren attese che lui svolgesse con l’abituale destrezza tutti i controlli.
“Tutto negativo”, confermò Richie. “Ma che diavolo è questa roba?”
La dottoressa raccolse altri campioni. “Fai un test di calore in atmosfera ossidante e passa i vapori all’analizzatore.”
“Vado.” Richie prese una provetta, la collegò con un tubicino all’analizzatore e la riscaldò su un bruciatore Bunsen. La Wildenstein osservava con attenzione. A sorpresa, il campione si infiammò rapidamente, emise un rapido bagliore e si dissolse senza lasciare né cenere né residui.
“Brucia, baby, brucia.”
“Che risultati hai, Richie?”
L’assistente esaminò la lettura. “Diossido e monossido di carbonio, tracce di vapore acqueo.”
“Il campione doveva essere carbonio puro.”
“Un momento, boss… da quando il carbonio è sotto forma di sabbia marrone?”
Lauren guardò la polvere sul fondo di una provetta. “Voglio vederla sotto lo stereozoom.” Distribuì alcuni granuli su un vetrino e lo mise sotto il microscopio. Accese la luce e osservò attraverso l’oculare.
“Che cosa vedi?”, chiese Richie.
Lauren non gli rispose. Era stupefatta. Al microscopio i granuli non erano affatto marroni, bensì piccoli frammenti di una sostanza vetrosa. La luce si rifrangeva in una miriade di colori: blu, rosso, giallo, verde, marrone, nero, viola, rosa. Senza staccarsi dall’oculare, prese un cucchiaio metallico e lo premette su uno dei granuli. Con uno scricchiolio appena udibile, il granulo graffiò il vetro.
Lauren alzò lo sguardo. “Ce l’abbiamo un rifrattometro, da qualche parte?”
“Sì, un arnese da quattro soldi che risale al Medioevo.” Richie rovistò in un armadietto e tirò fuori un apparecchio avvolto in un rivestimento di plastica ingiallito e impolverato. Lo preparò e inserì la spina. “Sai come farlo funzionare?”
“Credo di sì.” Lauren fece cadere una goccia di olio minerale su un vetrino e vi fece affondare un granulo. Poi collocò il vetrino nel rifrattometro. Dopo qualche falsa partenza, riuscì a capire come regolare l’apparecchio e ottenere una lettura. Alzò la testa, sorridente. “Proprio come sospettavo. Abbiamo un indice di rifrazione due virgola quattro.”
“Ah, sì? E allora?”
“Ci siamo. Beccato!”
“Beccato cosa,...