L'isola e le rose
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L'isola e le rose

Il romanzo di un'incredibile storia vera

  1. 324 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'isola e le rose

Il romanzo di un'incredibile storia vera

Informazioni su questo libro

In una Rimini mai dimenticata, un po' felliniana e un po' rock, si incrociano le vite di quattro ragazzi uniti da un'amicizia nata sui banchi di scuola: Giulio, l'incorreggibile vitellone, Giacomo l'avvocato, Lorenzo, figlio del proprietario del Grand Hotel e l'inquieto ingegnere Simone. È l'estate del 1967, e nulla sembra impossibile. Nemmeno costruire una piattaforma in acque extraterritoriali per accogliere una comunità di giovani artisti, poeti, musicisti, dove la ricerca del bello sia l'unico scopo da perseguire. Basato sull'esperienza reale dell'Isola delle Rose, uno Stato utopistico sorto nell'Adriatico, "l'altro '68" di Walter Veltroni è un romanzo in cui l'ingenuità è un valore in aperta opposizione al potere, e si spinge coraggiosamente a rincorrere un sogno che vale la pena vivere.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817067911
eBook ISBN
9788858655047

Giugno 1967

Ventuno a venti. La prossima palla sarebbe stata decisiva. Giulio si guardò intorno, doveva servire lui che si era aggiudicato l’ultimo punto. Attorno a quel tavolo da ping pong, collocato su una piattaforma di cemento a metà strada tra le cabine e gli ombrelloni, si era riunita una gran folla. La finale del torneo dei bagni «Luciano» era uno dei principali avvenimenti dell’estate riminese. Ne segnava l’inizio, come la Milano-Sanremo per la stagione ciclistica. Da un jukebox in lontananza arrivava la voce di Maurizio Vandelli: «Seduto in quel caffè io non pensavo a te». C’erano decine di persone, forse addirittura un centinaio. Giulio e Alfonso si erano combattuti aspramente per cinque set. Ciascuno ne aveva vinti due e ora tutto dipendeva da quella pallina.
Non potevano essere più diversi, i finalisti. Giulio era il bello della compagnia, guascone e sfrontato, conquistava donne, nazionali ed esportazione, con la facilità di una pesca a strascico. Alfonso era il contrario, brutto come raramente era capitato di essere a un membro della umana specie. Tutto era sbagliato nella sua faccia, sembrava che i componenti fossero stati assemblati in quel modo per burla. Pareva che avesse la maschera di Carnevale incorporata.
Il suo modello di vita, però, era un po’ l’Alberto Sordi di Brevi amori a Palma di Maiorca, il cui protagonista era un personaggio affetto da una fastidiosa invalidità che lo aveva reso claudicante. Sordi lo aveva davvero incontrato un giorno a Ischia. Nella finzione cinematografica era diventato Anselmo Pandolfini detto lo Zoppetto, un tipo umano particolare, esagerato nella sua esuberante invadenza, vigoroso e dinamico, simpatico e travolgente. Del tutto superiore alla sua zoppia si era proposto di conquistare il cuore, con annesso il resto, di una famosa attrice americana in vacanza a Palma. Ovviamente ci era riuscito, complice una memorabile telefonata in cui, imbucatosi nella suite della star, aveva risposto a Gary Cooper dicendogli: «Allò Gary, ho visto il tuo ultimo film. Discreto».
Alfonso era un po’ così. In compagnia era imbattibile, indossava la sua faccia come se fosse un’altra. Ed era ossessionato dalle donne. Ci provava con tutte. Aveva elaborato complessi calcoli statistici che dimostravano, scientificamente, che una su cento doveva cedere e dunque bisognava avere solo pazienza. Una sera Giulio lo aveva seguito, con altri amici, in uno dei suoi tentativi di abbordare una signora di Conegliano Veneto, in verità attempata, in vacanza con suocera e figli. Era riuscito, a colpi di battute, a trascinarla sulla spiaggia. Si erano seduti con le spalle appoggiate a una cabina. Ignari del fatto che dietro vi fossero Giulio e altri amici che ascoltavano tutto.
«Sei bella, sai? Hai gli occhi del colore del mare.»
«Eh, grazie. Vorrei poter dire la stessa cosa» rispose impietosa la donna, quasi in dialetto.
«Posso tenerti la mano?» proseguì Alfonso del tutto privo, nella situazione data, di orgoglio e dignità.
«No.»
«Posso abbracciarti? Solo un abbraccio, da amici.»
«No.»
«Guarda che sarebbe bello, ti assicuro.»
«Lo escludo.»
«Posso darti un bacio?» continuò imperterrito Alfonso.
«Per la carità.»
Per una singolare sindrome, più la donna respingeva schifata le sue avance più Alfonso si faceva audace; invece di scalare la marcia, metteva la quinta. Sparò tutte le cartucce, poi tentò l’ultima carta, quella che usava solo in casi disperati, quindi spesso.
Dopo averle detto: «Facciamo l’amore qui, sulla sabbia, in questa notte meravigliosa» ed essersi sentito rispondere: «È più probabile che lo faccia con l’ombrellone della signora Tafuri», Alfonso provò con la sua bomba atomica, una frase che, di solito, lasciava interdette le interlocutrici e, secondo le sue statistiche, nello 0,5 per cento dei casi portava a un pietoso cedimento da parte delle malcapitate.
«Dài, faccio presto, non se ne accorge nessuno.»
Ma la signora di Conegliano era sventuratamente rubricabile nel restante 99,5 per cento. Rise a crepapelle e si alzò, portandosi via il suo corpo robusto. Alfonso rimase lì, interdetto per tanta incomprensibile scortesia. Giulio e gli altri decisero di non infierire e si allontanarono discretamente. Sapevano che per il loro amico, al quale volevano davvero bene, il sesso era da sempre un problema.
L’adolescenza è il periodo della vita in cui gli uomini sono più brutti, con quelle pelli che sembrano dei soffioni boraciferi di acne e quella grottesca peluria sopra le labbra. Per Alfonso sembrava impossibile pensare a un periodo in cui era stato addirittura più brutto. Ma ci era passato, e per lui era stato un momento davvero difficile, anche psicologicamente.
Una volta il padre, un rappresentante di costumi da bagno per donna, lo aveva trovato – avrà avuto quindici anni – svenuto, riverso a terra nel bagno con una strana bava bianca che gli colava dalla bocca. Erano allora andati da un amico medico e il papà di Alfonso, dopo che il ragazzo era stato visitato, lo aveva fatto uscire e aveva chiesto, angosciato, al professore: «Dimmi la verità, non mi nascondere nulla, è epilessia?».
Il medico aveva fatto passare un istante, prima di rispondere. Un istante che a quell’uomo disperato era sembrata un’eternità.
«Stammi a sentire, fai sparire da casa i tuoi cataloghi e la collezione di Satanik. E ho detto tutto.»
Alfonso era celebre a Rimini anche per una disavventura di qualche anno prima. Quando, riscontrata l’incontenibilità del suo Maracanà ormonale e constatata l’impossibilità di trovare sul mercato dei sentimenti la soluzione naturale, aveva alla fine ceduto a un rimedio che lo umiliava, lo addolorava, lo rendeva infelice. Aveva accettato l’invito di tre suoi amici ad andare con una prostituta. Si era potuto consolare e giustificare solo pensando che sarebbe stata un’esperienza felliniana. La sera prima, in pieno agosto, il più grande ed esperto dei suoi amici gli aveva fatto l’ultima raccomandazione: «Portati l’impermeabile». Lui era arrivato all’appuntamento stretto in un trench, con tanto di cinta alla vita. E Rimini, tutta, poche ore dopo, era al corrente della notizia.
Giulio gli voleva bene. Ma il quinto set della finale è il quinto set della finale. Si era fatto intorno un gran silenzio, per consentire la concentrazione degli atleti. Alfonso aveva calcolato che se avesse vinto il suo prestigio sarebbe aumentato e dunque forse dall’un per cento di fatturato amoroso sarebbe passato addirittura al due. Giulio ponderò il peso della pallina e guardò la sua racchetta. Era coperta di gommapiuma grigia. Diede l’idea di star progettando una battuta a effetto. Si curvò, come per colpire. Poi si rialzò, volse lo sguardo distrattamente sulla destra ed esclamò rapito, in modo che la voce arrivasse al suo avversario: «Madonnina, guarda quella che tette!».
«Dove, dove?» disse Alfonso girandosi subitaneamente verso la parte indicata da Giulio.
Che, spietato, approfittò al volo della indotta distrazione dell’amico e servì sul suo diritto cogliendolo impreparato. Game, set, partita, torneo.
Fu quella sera, alla tradizionale cena di celebrazione della conclusione del torneo, che tutto cominciò. «Cena in piedi» aveva detto il proprietario del bagno, un po’ per dare un tocco di modernità ma soprattutto per risparmiare. C’erano tutti i partecipanti che avevano pagato la quota di iscrizione, ben duemila lire, comprendente partite, ombrellone, cena sociale.
Mentre assaggiavano il roast beef con le patatine fritte, in verità provenienti dalle bustine della Pai, Giulio e altri amici si sedettero sulla sabbia, poco lontano dal bagnasciuga. Si parlava del più e del meno: i più politicizzati si concentravano sul golpe dei colonnelli in Grecia o sulla Guerra dei sei giorni, i ragazzi più giovani commentavano l’incredibile copertina del nuovo disco dei Beatles. Qualcuno l’aveva addirittura portata con sé e si formavano dei capannelli nei quali ci si sfidava a riconoscere i volti dei personaggi che contornavano i Fab Four, immortalati in divise dai colori allegri. Tony Curtis e Sonny Liston – chissà perché non Muhammad Ali –, Marilyn Monroe e Stanlio e Ollio venivano individuati a tempo di record, i colti della comitiva riuscivano a riconoscere anche Freud e Jung e il barbone di Marx. Una ragazza, per questo insultata, indicò persino il volto di Dylan Thomas e quello di Edgar Allan Poe.
Giulio, che non era propriamente un raffinato intellettuale mitteleuropeo, stava commentando con degli amici la rocambolesca giornata conclusiva del campionato di calcio in cui un’imprevista, e chiacchierata, sconfitta dell’Inter a Mantova e la vittoria in casa con la Lazio avevano assegnato alla Juve lo scudetto. Ma, quando sentì citare Edgar Allan Poe, il ragazzo sembrò alzare le antenne. Si staccò dalle discussioni su Zigoni e sul perché un grande portiere come Giuliano Sarti si fosse fatto uccellare dal tiepido tiro di Di Giacomo, e si approssimò al circolo beatlesiano.
«Chi ha parlato di Edgar Allan Poe?» disse con l’autorevolezza che gli era riconosciuta in spiaggia per il suo palmarès amoroso e ora anche per la vittoria nella Coppa Davis della Riviera.
«Io» rispose una fanciulla con i capelli raccolti in uno chignon elegante. Giulio la squadrò secondo un suo personalissimo, ma assai diffuso tra gli uomini, criterio di classificazione del genere umano femminile per decidere, istintivamente, che era un tipo troppo cerebrale per lui. Però decise di arricchire la sua immagine, che trasmetteva allegria e fisicità estreme, con un tocco di inaspettata profondità.
«Voi certamente sapete, immagino, che Poe diede origine a una comunità intellettuale che da allora si ritrova a Saratoga Springs, nello Stato di New York. È una villa che fu comprata, alla fine del Settecento, da un soldato che, trasportando un gruppo di feriti, scoprì questo luogo favoloso. Sembra ci fosse una vista spettacolare. Il sergente, finita la guerra, costruì una segheria, che poi divenne una locanda. Era un brav’uomo, questo soldato, liberò gli schiavi e li fece lavorare con lui. In questo incanto arrivò Poe.»
Giulio si interruppe un istante per assicurarsi di aver catturato l’attenzione del gruppo. Poi, con tono competente, proseguì: «Era un tipo strano, vestito sempre di nero, malinconico e contemplativo. Passava molto tempo a passeggiare e a pescare. E a parlare con il nipote dodicenne del defunto sergente. Si sedevano su un tronco di legno, davanti al lago, e conversavano, come due amici. Lì Poe scrisse Il corvo. Strana storia, eh?».
Giulio si fermò qui, aveva sparato tutte le munizioni. Infatti queste nozioni erano il prodotto della lettura casuale di un articolo dell’unica rivista rimasta sul tavolo del suo barbiere, «Selezione dal Reader’s Digest». «Epoca» e «La Domenica del Corriere», «Lo Sport Illustrato» e «Oggi» facevano capolino dalle mani degli altri fortunati clienti.
Giulio era rimasto affascinato da quell’articolo dedicato a una comunità letteraria am...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. Pedro Salinas, La voce a te dovuta, XIII
  5. Oggi
  6. Giugno 1967
  7. Oggi
  8. Ringraziamenti