I classici e la Scienza
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I classici e la Scienza

Gli antichi, i moderni, noi

  1. 320 pagine
  2. Italian
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I classici e la Scienza

Gli antichi, i moderni, noi

Informazioni su questo libro

Sul confine fra due terre, con lo sguardo rivolto sia avanti che indietro. Francesco Petrarca Perché la parola 'scienza' designa ormai la sola tecnologia e non l'intera conoscenza? Perché 'classico' definisce solo ciò che rimanda al passato e 'scientifico' solo ciò che orienta al futuro? Perché nell'era del web e della massima comunicazione la scienza e le humanae litterae non dialogano tra loro, ma si contrappongono ancora come 'due culture' estranee e rivali? Per rispondere a questi interrogativi, studiosi della scienza si confrontano con studiosi di quella cultura di Atene e di Roma che è al contempo fondativa e antagonista del nostro presente. Ne deriva uno sguardo totale dall'anima di Platone al DNA, dagli atomi di Lucrezio alla tavola di Mendeleiev, dalla democrazia di Pericle alla teoria delle élites, dal 'pane e circensi' al welfare, dal corpo di Ippocrate alle biotecnologie, dall'astronomia dei Greci alla teoria del Big Bang, dagli automi antichi alla robotica medica. Un'alleanza necessaria e non più rinviabile, quella tra scienziati e umanisti, in un Paese come il nostro che sconta una duplice colpa: il deficit di cultura scientifica e la rimozione dei classici. con interventi di: Angeletti, Balzani, Bellone, Bignami, Boncinelli, Cacciari, Cambiano, Canfora, F. Cavalli Sforza, L. Cavalli Sforza, Cosmacini, Dario, Dionigi, Galli, Giardina, Giorello, Hübner, Lo Cascio, Moriggi, Odifreddi, Onofri, Redi, Rossi, Steiner, Vegetti

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817015011

PARTE SECONDA

Dialoghi

Da Platone a Galeno. L’anima
MARIO VEGETTI
EDOARDO BONCINELLI
Mario Vegetti, Il corpo e l’anima
In un eventuale regesto dei lasciti del pensiero filosofico e scientifico antico alla cultura e ai saperi della tradizione occidentale, a prima vista il pensiero sull’anima risulterebbe certamente una delle eredità più sfortunate e per certi versi anche più imbarazzanti che abbiamo ricevuto.
Il modo abituale, direi spontaneo, con cui noi pensiamo che l’antico ci abbia trasmesso questo pensiero è nella forma di una separazione di anima e corpo alla stregua di due sostanze indipendenti, una delle quali pura, immortale, divina come l’anima, e l’altra invece mortale, caduca, impura come il corpo.
Si tratterebbe dunque di una netta opposizione, di una polarità drastica fra due sostanze in qualche misura indipendenti tra loro, che si trovano però a coesistere per il periodo transitorio della vita terrena di ognuno di noi: questa è l’immagine tradizionale, e da questo punto di vista devo dire appunto che si tratta di un’immagine alquanto sfortunata. Essa pone tutta una serie di questioni con cui si è confrontata la tradizione occidentale, e che sono fonte di sicuro imbarazzo intellettuale: come appunto quella dell’immortalità dell’anima, alla quale è stata a lungo connessa la vicenda dei premi e delle punizioni che la attendono nell’aldilà, usata per lo più a scopo di incentivazione al comportamento morale in questa vita; per non parlare delle diverse dottrine della metempsicosi che sono circolate nel mondo occidentale (ma non solo in esso), e di un aspetto ancora più pericoloso, e non solo a livello teorico: una concezione patrimoniale dell’anima, per cui essa è qualche cosa che si può o meno possedere, che qualcuno ha e qualcun altro non ha. Così, per esempio, gli uomini la possiedono, ma gli animali no; e al tempo della conquista spagnola dell’America Azteca e Maia ci fu chi mise fortemente in dubbio che gli indigeni avessero un’anima, giustificando la schiavizzazione e il genocidio appunto sulla base di questa mancanza. Del resto, noi oggi dibattiamo problemi altrettanto imbarazzanti, come, ad esempio, se l’embrione abbia un’anima, quando si cominci ad avere un’anima e cosa significhi avere un’anima.
Ma a ben guardare questo lascito dell’antico è piuttosto l’esito di una distorsione prospettica che una realtà storica; questa concezione dell’anima come sostanza separata è diventata dominante perché è il risultato di un evento culturale prodottosi nei primi secoli dopo Cristo, cioè l’incontro di alcuni testi di Platone, in particolare il Fedone, con il pensiero cristiano.
Questo episodio – diciamo l’incontro del Fedone con Agostino, se vogliamo trovare una formula semplice – ha fatto sì che nella tradizione il pensiero antico fosse considerato il fondatore della concezione dell’anima come una sostanza separata dal corpo e qualitativamente superiore al corpo. Il Cristianesimo platonizzante l’ha trasmessa al Medioevo e da qui è arrivata fino a noi. A ben guardare, tuttavia, non è questa la realtà storica prevalente nel pensiero antico; anzi, io vorrei cercare di mostrare, seppure molto rapidamente e schematicamente, che il discorso è molto più complesso, e che in realtà questa tradizione, diventata per noi quella privilegiata e dominante, ha costituito, nel quadro del pensiero antico, un episodio tutto sommato piuttosto marginale.
Non solo il Fedone non rappresenta tutto Platone, come cercherò di dimostrare, ma certo esso non rappresenta né Aristotele, né gli Stoici e gli Epicurei, e tanto meno Galeno.
Nella prima parte di questo percorso storico gli eventi si svolgono rapidamente, nei cinquant’anni che intercorrono all’incirca fra il 370 e il 320 a.C., e si tratta di eventi intellettuali straordinari, fra Platone e Aristotele. La seconda parte invece, quella galenica, avviene a più di cinque secoli di distanza.
Vorrei riassumere rapidamente le tappe di questo percorso in una sorta di mappa, per poi entrare più nel dettaglio dei testi. Con il Fedone, dialogo di Platone in cui si narra della morte di Socrate (un dialogo quindi inteso alla consolazione della morte, che risente fortemente di una tradizione orfica e pitagorica), si instaura l’inimicizia, l’ostilità fra anima e corpo. Con la Repubblica, si ha invece una scoperta straordinaria: il conflitto non oppone anima e corpo ma è interno all’anima.
Su questa base il Timeo, uno fra gli ultimi dialoghi di Platone, può stabilire una prima prospettiva, sia pure in una forma mitica, di interazione fra anima e corpo. Aristotele pone nettamente i fondamenti di un pensiero della integrazione fra anima e corpo, e infine con Galeno si ha un rovesciamento completo del punto di partenza del percorso, e cioè l’asservimento dell’anima al corpo, la schiavitù dell’anima rispetto al corpo.
Vediamo più da vicino, per quanto possibile, le tappe di questo percorso.
Il Fedone, dicevo, è una consolatio mortis, un discorso che avviene in occasione della morte di Socrate e tende a mostrare che la morte del corpo non è una vera morte perché al di là di essa resta la vera vita dell’anima.
Finché l’anima è prigioniera del corpo, esso le impedisce di conoscere e di pensare veramente, perché il corpo frappone tra l’anima e i suoi veri oggetti – che sono oggetti ideali, oggetti teorici puri – lo schermo dei sensi.
La conoscenza corporea è dunque soltanto sensoriale, mentre l’anima vorrebbe e potrebbe conoscere solo tramite il puro pensiero.
Il corpo ci inchioda ai suoi bisogni, ai suoi desideri. C’è un’espressione bellissima di Platone che in qualche modo nel nostro immaginario rinvia alla scena della Crocifissione, quando afferma che le passioni e i desideri corporei sono come chiodi che tengono l’anima vincolata al corpo, perché l’anima è da essi costretta a pensare a ciò che il corpo vuole, desidera, brama: la ricchezza, il piacere, il cibo, il sesso (Fedone 83d). Dunque l’unica salvezza è lo scioglimento dell’anima dal corpo, scioglimento progressivo che noi possiamo sperimentare durante questa vita, tentando di dimenticare, per quanto possibile, questo richiamo corporeo, questi chiodi che ci crocifiggono, e che sperimenteremo davvero fino in fondo dopo quella morte che è appunto la liberazione dell’anima immortale dal corpo mortale, quindi l’inizio della sua vera vita. La filosofia, in questo contesto, è preparazione alla morte, esercizio di morte.
L’orizzonte del Fedone è però in buona parte rovesciato da Platone stesso nella Repubblica: qui non si tratta più di offrire una consolazione per la morte del filosofo, ma di costruire la possibilità di una città giusta per gli uomini vivi. Questo progetto comporta anche di ripensare a fondo la questione dell’anima; e si delinea qui un’innovazione teorica di Platone che sarebbe stata ripresa e sfruttata fino in fondo soltanto da Freud nel secolo scorso. La scoperta è questa: l’anima non è un elemento puro contrapposto a un altro impuro, ma è invece scissa e conflittuale in se stessa. C’è una parte della nostra psiche che procede razionalmente, c’è un’altra parte che prova desideri di affermazione individuale, collera, ambizione, aggressività vendicativa, e un’altra parte ancora che prova desideri rivolti ai piaceri del cibo, del sesso, e così via. La nostra anima è allora divisa fra queste forze, che possono anche eventualmente realizzare un equilibrio, una concordia fra di loro ma che sono normalmente in conflitto, sicché la nostra condotta e il nostro comportamento dipendono da chi comanda nell’anima, cioè da quale fra queste forze assume il controllo e il governo della condotta.
Il corpo, in tutto questo, rimane sullo sfondo: il conflitto viene ora trasportato sulla scena dell’anima e in particolare delle tre parti, o tre principi, o tre forze che la abitano; Freud avrebbe parlato di istanze, e si può usare lo stesso termine anche per Platone.
Il Timeo compie un passo decisivo verso l’interazione fra anima e corpo, laddove tenta, certo su basi prevalentemente ancora non scientifiche, ma piuttosto grazie a una sorta di potente immaginazione filosofica, di trovare una collocazione somatica di queste tre parti dell’anima, situandone quella razionale nell’encefalo, in sostanza nel cervello, quella passionale ed emotiva nel cuore, e infine quella dei desideri e dei piaceri nei visceri e negli organi sessuali.
Ma la cosa interessante è che qui, per la prima volta, Platone tenta una descrizione di come il corpo possa influire sull’anima e viceversa. Certi disturbi corporei, come la sovrabbondanza di produzione di umori, possono produrre disturbi psichici, quindi determinare squilibri nel corretto funzionamento dell’anima; reciprocamente, un’anima ordinata e armoniosa può influire sulla salute del corpo. C’è dunque una circolarità per la quale i disturbi del corpo minacciano l’integrità dell’anima, e viceversa l’anima – se integra – può ottenere un corpo più sano. Qui Platone ha una osservazione che merita di essere letta. Vi sono dei comportamenti, per esempio l’incontinenza nei piaceri sessuali, dei quali noi diamo una valutazione morale.
Platone scrive invece nel Timeo: «nessuno è volontariamente malvagio, ma il malvagio diviene tale per una cattiva disposizione del corpo e per una crescita senza educazione […]. Se a individui mal costituiti si aggiungono cattive istituzioni, […] se, fin da giovani, non vengono loro impartiti insegnamenti capaci di curarli da tali mali, allora tutti i malvagi tra noi lo diventano per queste due ragioni, senza volerlo: di ciò bisogna sempre considerare responsabili i genitori più dei figli, chi educa più di chi è educato»; e ancora: «bisogna sforzarsi […] di fuggire il male e di perseguire il suo opposto, con l’educazione, con le occupazioni e con gli studi» (Timeo 86e-87b; trad. F. Fronterotta). Queste frasi di Platone sono discutibili, beninteso, ma rivestono uno straordinario interesse perché per la prima volta si imputa il comportamento deviante non tanto a una scelta morale del soggetto quanto a due fattori, l’uno di ordine fisico e somatico, l’altro di ordine educativo-politico. Il convergere di questi due fattori può migliorare o peggiorare la condizione umana a seconda della loro qualità psicosomatica.
Come è facile vedere, ormai qui Platone si è molto allontanato dal discorso del Fedone e apre, sia pure in un modo più immaginifico che scientifico, la via alla formazione di una psicofisiologia scientifica: un processo che inizierà con Aristotele e continuerà nella biologia antica.
Aristotele formula nell’Anima (2, 1), forse anche traendo le conseguenze teoriche di quello che Platone aveva detto nel Timeo, una teoria assolutamente fondamentale: l’anima va concepita come l’atto e la forma, e cioè come l’insieme delle funzioni, di un corpo vivente dotato di organi.
L’anima è per un corpo esattamente ciò che la visione è per l’occhio. Un corpo vivente ha un insieme di funzioni che vengono riassuntivamente raccolte sotto il nome di anima (nutrizione, riproduzione per tutti i viventi; sensazione e movimento volontario per tutti gli animali; pensiero e linguaggio per gli uomini).
Questo è l’assunto fondamentale di ogni pensiero psicofisiologico. Esso, come è facile vedere, proibisce la stessa pensabilità dell’immortalità dell’anima. Se l’anima è l’insieme delle funzioni di un corpo è perfettamente ovvio che quando questo corpo muore vengano meno le sue funzioni, e con esso venga meno la sua anima. Per essere precisi, la teoria proibisce la pensabilità di una immortalità dell’anima individuale (può infatti darsi che esista qualche altra forma di spirito nel mondo che non è individuale e che non è mortale); ma certamente l’anima individuale, la mia anima, è l’insieme delle funzioni che il mio corpo eroga e, come tale, viene meno insieme con il corpo.
Accadde a questo punto un incontro sorprendente fra un pensiero filosofico come quello di Platone, che si era svolto al di fuori del pensiero scientifico, e l’innovazione più straordinaria della biologia antica: l’anatomia di Erofilo e di Erasistrato che si sviluppa ad Alessandria all’inizio del III secolo a.C. Questi grandi anatomisti, che usarono per la prima volta la dissezione e anche la vivisezione del corpo umano, giungono a una sequenza impressionante di scoperte: il sistema nervoso, la sua connessione con il cervello, la distinzione del sistema nervoso in due insiemi, quello sensorio e quello motorio; la distinzione fra arterie e vene, la connessione di entrambi i sistemi, arterioso e venoso, al cuore, con tutta una serie di corollari inerenti a queste innovazioni scientifiche.
Perché questo in qualche modo si allea con l’immaginifico pensiero di Platone? Perché gli anatomisti alessandrini introducono tre sistemi – nervi, arterie e vene – e due principi somatici – cervello e cuore. Platone aveva detto che ci sono tre parti dell’anima. Quella razionale aveva sede nel cervello, e questo collima perfettamente con la scoperta alessandrina, perché il cervello è connesso agli organi di senso e al movimento volontario attraverso il sistema nervoso, e quindi si conferma che il centro di guida del comportamento, del pensiero, della sensazione, del movimento volontario sia collocato nel cervello, grazie appunto al sistema nervoso che Platone ignorava.
Platone aveva situato nel cuore la parte irascibile, collerica, aggressiva dell’anima; anche questo viene ora confermato, perché il cuore è connesso attraverso il sistema vascolare al sangue, cui si può attribuire la causa somatica di quei comportamenti. Platone però aveva collocato un terzo principio, quello dei desideri, nei visceri, e questo non può venir confermato dall’anatomia alessandrina perché essa riconosceva soltanto due principi somatici (cervello e cuore) nonostante l’esistenza di tre sistemi (nervoso, arterioso e venoso).
Cinque secoli dopo, Galeno (che visse nel II secolo d.C.), grandissimo medico, grandissimo anatomo, ma anche raffinato filosofo, tentò di raccordare la teoria dell’anima di Platone con l’anatomia alessandrina. Per fare questo introdusse un errore anatomico nell’anatomia alessandrina: pur mantenendo la connessione cervello-nervi, e quella cuore-arterie, per avere un terzo principio che costituisse l’origine del terzo sistema, egli connesse le vene e il sangue venoso non al cuore ma al fegato.
In questo modo si ottiene un quadro di tre sistemi e tre principi che collimano perfettamente con le tre parti dell’anima platonica, perché si può ora dire che il fegato è il luogo dove si colloca l’anima desiderante.
Tutto questo pone una serie di problemi scientificamente molto interessanti, ma soprattutto consente a Galeno di fare un ulteriore passo avanti rispetto ad Aristotele nella concezione del rapporto tra anima e corpo. Nel suo breve trattato Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi, Galeno ragiona così: che cosa significa che le parti dell’anima hanno sede (come diceva Platone) nei rispettivi organi corporei, cervello, cuore e fegato? Non si tratta, evidentemente, di inquilini che abitano in un appartamento.
Aristotele aveva sostenuto che solo l’anima rappresenta l’insieme delle funzioni di un corpo vivente, e quindi potremmo dire che la ragione è la funzione del cervello. Galeno fa un passo ulteriore in senso materialistico e organicistico. Il cervello funziona soltanto se la sua composizione elementare (cioè i tessuti, noi diremmo, mentre Galeno parlava di parti solide e fluide, calde e fredde) è corretta; soltanto se la formula di composizione del cervello, e lo stesso si può dire di quella del cuore e del fegato, è corretta, questi organi funzionano, cioè erogano in modo appropriato quella prestazione in cui consiste la rispettiva parte dell’anima.
Ma allora, se la funzione dipende da questa formula (Galeno usa il termine greco krasis, che viene di solito tradotto con «temperamento»), noi possiamo in realtà ridurre le parti dell’anima alla formula chimica di composizione degli organi rispettivi: l’anima e le sue parti coincidono con la funzione e cioè con la composizione materiale dell’organo.
L’anima è forse indipendente dal corpo? Certamente in questa prospettiva non più. Galeno ha tutta una serie di esempi che lo dimostrano. Quando anche il più intelligente degli uomini ha bevuto troppo vino, perde la sua facoltà razionale e questo vuol dire che il vino ingerito dal corpo agisce sulla parte razionale dell’anima, e così agiscono le febbri e tutti gli altri processi corporei.
Dunque il cervello funziona bene – e noi siamo individui razionali – se ha una buona composizione somatica, se l’organo è ben fatto; così come l’occhio vede bene se c’è un corretto rapporto tra retina, cristallino e cornea, mentre se questo rapporto è danneggiato noi perdiamo la vista, se il cervello è danneggiato noi perdiamo letteralmente la ragione.
Questo serve a Galeno per concludere che in realtà l’anima non è soltanto in rapporto con il corpo, come già il Timeo di Platone aveva detto e come Aristotele aveva ribadito, ma che l’anima dipende dal corpo. Un buon corpo avrà una buona anima; un cattivo corpo una cattiva anima e cioè una cattiva razionalità, una cattiva moralità, una cattiva emotività, e tutto quanto ne segue.
Non è possibile qui discutere di alcuni sviluppi molto interessanti della psicofisiologia di Galeno. Il quadro d’insieme però è questo: noi possiamo pensare che si tratti di un passo verso un pensiero scientificamente positivo sulla questione del rapporto fra corpo e psiche, che non è però, come spesso accade nella storia della scienza o della tradizione filosofica e scientifica, esente da qualche problema. La conclusione del ragionamento condotto da Galeno nell’opera Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi, che riveste per lui la massima importanza, è che il garante de...

Indice dei contenuti

  1. Classici e la Scienza (I)
  2. Copyright
  3. Presentazione
  4. PARTE PRIMA
  5. PARTE SECONDA
  6. PARTE TERZA