1.
Era da poco passato mezzogiorno, in città il caldo era asfissiante. Troppa umidità nell’aria, anche se non pioveva da due mesi. Clotilde tornava a casa dopo aver trascorso la mattinata da Bice, sfogliando libri per la sua tesi di laurea.
Bice Pittore, vedova Di Meo, era stata la sua professoressa di filosofia al liceo Genovesi di piazza del Gesù. Clotilde era stata la sua ultima allieva e la sua prima amica. Conquistare Bice non era stato facile. Era una donna riservata, gelosa di sé e della sua vita privata, ma Clotilde s’era messa in testa che la sua ex professoressa doveva continuare a essere il suo faro. Finita la scuola, aveva tormentato la donna finché era riuscita a strapparle un invito a casa.
Camminando per via Benedetto Croce, Clotilde si ricordò il loro primo incontro extrascolastico.
«Che vuoi da me?» aveva chiesto bruscamente Bice, dopo averla fatta aspettare cinque minuti buoni fuori dalla porta.
«Perché crede che voglia qualcosa?»
Bice era una donna minuta e fragile, i capelli bianchi immancabilmente disposti in una sottile aureola intorno al viso.
Aveva fatto sedere Clotilde in terrazza, su un grande dondolo di vimini, mentre dall’interno dell’appartamento proveniva il suono della voce di un cantante che la ragazza non conosceva.
«Sono stanca di voi ragazzini» aveva brontolato Bice.
«Non ci credo, chi è che canta?»
«Ti dico che sono stanca, bisogna sempre spiegarvi tutto. Non conosci neanche Frank Sinatra…»
«Il nome lo conosco… è un vecchio sempre in smoking! Io invece sono giovane e curiosa…»
«Questo è il guaio.»
Così era cominciata la loro amicizia, che durava ancora oggi, a distanza di anni, ed era un legame forte come il volume al quale quel giorno Bice teneva lo stereo. Non che Clotilde avesse bisogno di un supplemento di figura materna, piuttosto Bice, con la sua razionalità e autonomia affettiva, era un antidoto, una specie di brodo per allungare il maternalismo della signora Bianca, sua legittima madre.
Clotilde camminava, le piaceva camminare, ma quella mattina non era contenta, non stava passando un buon periodo. Per tutti era il tempo delle vacanze, per lei ancora tempo di studi e di litigi con Marco, il suo ragazzo, anche lui impegnato nella stesura della tesi di laurea. Da una settimana discutevano sul campeggio da scegliere per passare una quindicina di giorni lontano dalla città, possibilmente vicino a un mare pulito e non troppo affollato. Marco nicchiava, accampava scuse, e Clotilde sapeva benissimo la verità. Il suo ragazzo non sapeva staccarsi dai libri e neppure da suo padre, cui era legatissimo.
«Ma tu il complesso di Edipo non l’hai proprio avuto?» gli aveva chiesto un giorno esasperata. «Non sai che i figli maschi madreggiano, uccidono il padre per unirsi con la madre?»
In verità anche Clotilde era molto affezionata ai suoi genitori. La signora Bianca, svanita e surreale, sempre con la testa fra le nuvole, architetta a scartamento ridotto, e il signor Alberto, alto e magro come un grissino, funzionario delle Ferrovie dello Stato, che invano cercava di nascondere la sua timidezza dietro un enorme paio di baffi neri.
Poi c’era Lele, il fratello di tre anni più piccolo, che esprimeva il suo affetto in maniera originale, polemizzando di continuo per difendere la sua indipendenza.
Adesso Clotilde aveva imboccato via San Biagio dei Librai a passo svelto, per sfuggire alla cappa di caldo che sembrava incombere proprio sulla sua testa. Sapeva che a casa non avrebbe trovato nessuno, troppo presto per suo padre che tornava sempre alle due – sulla cui puntualità si poteva regolare l’orologio – e presto anche per Lele che era ancora a scuola. Sua madre chissà dov’era. Meglio così, si sarebbe messa in libertà, maglietta senza maniche e pantaloncini da ginnastica.
Aveva appena depositato lo zainetto sulla cassapanca di casa quando squillò il telefono.
«Pronto?»
«Vorrei parlare con mister Alberto Melis» disse all’altro capo una voce che parlava un italiano incerto.
«Mio padre non c’è.»
«Oh, allora tu sei Clotilde. Io sono zio Reginald.»
Clotilde sobbalzò.
«Zio chi?»
«Zio Reginald» ripeté la voce ridacchiando, «il fratello di tuo padre… da parte paterna.»
Clotilde pensò a uno scherzo.
«Si sbaglia, mio padre non ha nessun fratello, buongiorno.»
«Aspetta, non mi sbaglio. Quando posso trovare Alberto?»
«Alle due… in punto» abbozzò lei, balbettando.
«Well, richiamerò.»
Clotilde rimase sulle spine per tutta la mattinata. Se fosse stato uno scherzo sarebbe stato di pessimo gusto. Per quello che ne sapeva, suo padre era nato nel marzo del ’43, come nella canzone di Lucio Dalla. Frutto di un amore di guerra anonimo e clandestino, tanto che aveva assunto il cognome della mamma, Melis.
Quando sentì la chiave girare nella serratura si piazzò davanti alla porta con le mani sui fianchi e l’atteggiamento inquisitorio.
«Ha telefonato “zio Reginald”» disse con voce vibrante.
Il signor Alberto non fece in tempo a poggiare la borsa sulla cassapanca. I suoi baffi fremerono.
«Che hai detto, tesoro?»
«Ho detto che ha telefonato un certo Reginald» ripeté lei senza scomporsi. «Dice di essere tuo fratello.»
«Oh, no» si disperò lui passandosi una mano sulla testa. «Ancora Reginald?»
Clotilde si intenerì subito.
«Ma povero papino, allora è vero che hai un fratello!»
Il signor Alberto, turbato, si mise a fissare il telefono.
«Che voleva questa volta?» chiese angosciato.
«Non so. Richiamerà fra poco» Clotilde fece spallucce. «Dunque tu hai un fratellastro, quindi sai anche chi è tuo padre… E la mamma lo sa?»
«Non c’è niente da sapere» disse lui irritato, la voce dura. «Clotilde, hai già i nonni materni, una caterva di zie e zii, perché vorresti averne uno in più?»
«Ma papino, non si tratta di me, si tratta di te! Non vuoi raccontarmi?»
Il signor Alberto era arrendevole per natura, ma con la figlia, come diceva la signora Bianca, era «una fetta di pane briosciato imburrato da tutti e due i lati». La guardò burbero, ma senza resisterle.
«Si è fatto vivo una volta, vent’anni fa, tu eri nata da poco…»
«Accidenti, due volte in vent’anni! Un tipo seccante, questo Reginald!»
Il signor Alberto non colse l’ironia e, dopo aver tratto un profondo respiro, continuò.
«Si chiama Horatius Kuster, ma il cognome originario è Kustovic, è montenegrino o croato, non ricordo.»
«Ma chi? Tuo padre?»
«Vive in America, a Boston» disse annuendo. «Quando Reginald chiamò la prima volta ignorai la cosa… Avevo finalmente vinto il concorso per dirigente, ci eravamo trasferiti a Napoli…»
Alberto non era solo un uomo timido e mite, più di ogni altra cosa lo spaventavano le novità.
«Dai discorsi di Reginald si capiva che il mio presunto padre aveva tanta voglia di conoscere me quanta io di conoscere lui. Mia madre, tempo fa, mi raccontò di Horatius che era un uomo alto, buono e coraggioso… così lo ricordava. Era scappato dalla Jugoslavia e si era rifugiato in Italia, a Bari, dove conobbe la nonna… e fui concepito io. Ma prima che nascessi, lui se ne scappò di nuovo, e mia madre non seppe più nulla. E questo Reginald, chissà perché, vuole riallacciare…»
«Ma cosa fa tuo padre, cioè il nonno, in America?»
«Insegna all’università, oppure insegnava. Ormai dovrebbe avere più di settant’anni. Sembra che sia uno studioso.»
«Horatius Kuster, non l’ho mai sentito» sospirò Clotilde. La descrizione che la nonna aveva fatto al signor Alberto, quell’uomo «alto, buono e coraggioso», era troppo bella per non suscitare il suo interesse. «Ti dispiace se ci parlo io con Reginald, papino?»
Alberto la fissò a lungo.
«Fa’ pure» borbottò.
Per prima cosa Clotilde andò a consultare l’enciclopedia e, con soddisfazione e sorpresa, ci trovò il padre di suo padre:
H. Kuster (Podgorica, 1920), antropologo americano di origine montenegrina. Nel 1943 si è trasferito negli Stati Uniti per sfuggire alle bande di ustascia. Studioso della cultura e della letteratura slava, ha condotto nell’Università dello Iowa una serie di esperimenti di psicologia sociale e quest’attività, per il suo carattere pionieristico, gli è valsa la direzione di un centro di ricerche sulla dinamica di gruppo presso il prestigioso Massachusetts Institute of Technology a partire dal 1950. Opere principali: Le ragioni dei Balcani (1947), La morale e la scienza dei costumi (1949), Principi di psicologia topologica (1955), Apologia dell’antropologia (1961), Razza e storia (1967), Filosofia, antropologia e altri studi (1972), Contro la storia (1980).
La curiosità di Clotilde ormai divampava come una fiaccola olimpica. Quando Reginald telefonò si diedero appuntamento da Gambrinus per la sera, ma prima Clotilde fece tappa in via Benedetto Croce, da Bice: non poteva andare a un incontro così impegnativo senza avere consultato il suo oracolo privato.
«Horatius Kuster, capisci?» proclamò appena la donna aprì la porta.
Lei la guardò di sottecchi. Alzò un sopracciglio.
«Be’?»
«Horatius Kuster!» saltellò Clotilde.
«Un antropologo slavo americano, e con questo?»
«È mio nonno!» fece la ragazza, trionfante.
Bice, non disse una parola, le voltò le spalle e si diresse in cucina. Clotilde la seguì.
«Non dici niente?» Certe volte l’imperturbabilità di Bice la faceva andare su tutte le furie.
«Dico che sono le sette ed è ora di preparare la cena, mangi con me?»
«Ma che mangiare! Tra un’ora ho appuntamento con mio zio Reginald… Oltre a un nonno ho anche uno zio americano!»
«Sai che onore!» Bice si accorse che Clotilde stava per esplodere e le sorrise. «Avanti tormento, raccontami tutto.»
Clotilde non ci mise molto, quando ebbe finito si riempì un bicchiere d’acqua e bevve avidamente.
«Allora, non è fantastico, incredibile, enorme?»
«Sarà enorme il tuo ritardo, se continui a gingillarti.»
«Vecchia antipatica e dispettosa» Clotilde si diresse verso l’ingresso dell’appartamento correndo. «Lo fai apposta a non darmi soddisfazione!»
Stava uscendo senza salutare e sbattendo la porta, quando sentì la voce di ...