
- 154 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Ethan Frome
Informazioni su questo libro
Pochi libri sanno trasmettere in modo così efficace il peso delle convenzioni sociali, della miseria e del destino segnato come questo romanzo. L'abilità della Wharton però è quella di raccontarci l'illusione della felicità: per tutto il romanzo sembra che Frome sia a un passo dal conquistarla grazie all'amore della giovane Mattie. La tragedia arriva solo nelle ultime pagine, quasi sbrigativamente. Ed è proprio questa scarna ineluttabilità a renderlo un libro indimenticabile." - Matteo B. Bianchi è autore tra gli altri dei romanzi Generations of love (1999) ed Esperimenti di felicità provvisoria (2006).
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Informazioni
Print ISBN
9788817023214eBook ISBN
9788858655658ETHAN FROME
INTRODUZIONE DELL’AUTRICE
Sapevo qualcosa sulla vita di paese del New England molto tempo prima di stabilirmi nella stessa contea dove ho ambientato il mio immaginario Starkfield; ma durante gli anni trascorsi laggiù alcuni dei suoi aspetti mi divennero molto più familiari.
Anche prima di conoscerlo così a fondo, però, avevo avuto la vaga sensazione che il New England della letteratura avesse poca somiglianza – eccetto, vagamente, quella botanica e dialettale – con il paese aspro e meraviglioso che io avevo conosciuto. Anche leggendo le prolisse enumerazioni di tipi di felci, asteri e allori di montagna, e la coscienziosa riproduzione del dialetto, mi rimaneva sempre la sensazione che il granito che affiorava in quella terra fosse stato trascurato in ambedue i casi.
Questa impressione è assolutamente personale: è il motivo per cui è stato scritto Ethan Frome, e può, per alcuni lettori, giustificarlo in parte.
Questo, per quanto riguarda l’origine della storia: di essa non vi è altro da dire, tranne ciò che concerne la sua struttura.
Il problema che avevo dinanzi, quale lo vidi al primo istante, era il seguente: avevo a che fare con un soggetto in cui l’acme – o meglio l’anti-acme – drammatico si verifica una generazione dopo il primo atto della tragedia.
Il forzato intercorrere di questo lasso di tempo sembrerebbe indicare a chiunque sia persuaso, come lo sono sempre stata io, che ogni soggetto (nel senso letterario della parola) contiene implicitamente la propria forma e le proprie dimensioni, che Ethan Frome debba essere il soggetto per un romanzo. Ma io non lo pensai neppure per un attimo perché, nello stesso tempo, sentivo che il tema del mio racconto era un tema sul quale non si potevano fare molte variazioni. Doveva essere trattato così crudamente e sommariamente come la vita si era sempre presentata ai miei protagonisti: qualsiasi tentativo di elaborare e complicare i loro sentimenti avrebbe per forza falsificato l’insieme. Questi personaggi erano in realtà il mio granito che affiorava: solo parzialmente emersi dal suolo e poco più di esso articolati.
Questa incompatibilità tra soggetto e costruzione avrebbe potuto forse suggerire l’idea che la mia trama, dopotutto, fosse una di quelle da scartare. Ogni romanziere è stato tentato dai seducenti fantasmi di ingannevoli “buone trame”, soggetti allettanti come sirene che attirano il suo guscio di noce verso gli scogli; la loro voce è udita più sovente, e il miraggio del loro mare si presenta più spesso, quando egli traversa il deserto privo d’acqua che lo attende a metà strada di qualsiasi lavoro abbia al momento tra le mani. Sapevo molto bene quale allettante melodia cantassero queste sirene, e spesso mi ero volontariamente inchiodata al mio monotono lavoro finché la loro voce non si fosse allontanata – forse portando con sé, avvolto in veli di arcobaleno, un capolavoro perduto.
Ma non avevo timore di loro nel caso di Ethan Frome. Era la prima volta che avvicinavo un soggetto con la piena convinzione che esso fosse valido per il mio intento, e con una relativa fiducia nella mia stessa capacità di riuscire a esprimere almeno una parte di ciò che vedevo in esso.
A ogni romanziere, ripeto, che intenda seriamente la sua arte, è capitato di trovare tali soggetti, e di essere affascinato dalla difficoltà di renderli con pieno rilievo, senza aggiungervi ornamenti o giochi di pieghe o di luce. Era questo che dovevo fare, se volevo raccontare la storia di Ethan Frome; e ancora penso che il mio schema di costruzione in questo caso particolare sia giustificato – sebbene fosse accolto con immediata e categorica disapprovazione da parte dei pochi amici ai quali tentai di spiegarlo per sommi capi. A me sembra infatti che, mentre si presta un’aria di artificialità a un racconto di gente complessa e sofisticata che, secondo il romanziere, deve essere resa plausibile e interpretata anche da un qualsiasi semplice spettatore, non vi debba essere un simile svantaggio se è sofisticato lo spettatore e i personaggi che egli interpreta sono semplici. Se egli è capace di vedere tutto intorno a loro, non viene fatta violenza alla probabilità nel permettergli di esercitare questa sua dote; è abbastanza naturale che egli agisca come intermediario tra i suoi personaggi rudimentali e le menti più complicate alle quali cerca di presentarli. Ma tutto ciò è evidente in sé, e ha bisogno di essere spiegato solo a coloro che non hanno mai pensato al romanzo come a un’arte di composizione.
Il vero merito della mia costruzione mi sembra sia in un particolare secondario. Dovevo trovare il sistema di portare la mia tragedia a conoscenza del narratore, in un modo che avesse la stessa naturalezza e immediatezza di un quadro. Lo avrei potuto mettere seduto davanti a un pettegolo del villaggio, il quale gli avrebbe raccontato tutta la storia in un fiato, ma facendo così avrei falsato due elementi essenziali del mio quadro: primo, la radicata reticenza e il riserbo della gente che cercavo di descrivere, e secondo, l’effetto di “rotondità” (in senso plastico) prodotto dal far sì che la storia fosse vista da occhi così differenti come quelli di Harmon Gow e della signora Ned Hale. Ognuno dei miei cronisti contribuisce alla narrazione giusto quel tanto che ognuno è capace di comprendere di ciò che, per loro, è un caso complicato e misterioso; e solo colui che narra la storia ha una visuale abbastanza vasta per vederla tutta, per riportarla alla semplicità e per metterla al giusto posto fra le più vaste categorie.
Non avanzo pretese di originalità nel seguire un metodo di cui La grande Bretêche e The Ring and the Book1 mi hanno dato un magnifico esempio; il mio unico merito è forse quello di aver indovinato che il procedimento adoperato colà si poteva applicare anche al mio breve racconto.
Ho scritto questa breve analisi – la prima che ho mai pubblicato di qualche mio libro – perché, come introduzione di uno scrittore al suo lavoro, non posso immaginare nessun’altra cosa che possa avere valore per i lettori tranne una dichiarazione sul perché egli abbia deciso di intraprendere il lavoro in questione, e perché abbia scelto una forma piuttosto che un’altra.
Questi scopi primari, gli unici che possano essere esplicitamente enunciati, devono essere sentiti dall’artista quasi istintivamente e messi in atto prima che nella sua creazione possa entrare quell’imponderabile qualcosa di più che fa sì che la vita vi circoli, e la preserva per un poco dal decadimento.
EDITH WHARTON
Avevo sentito la storia, a frammenti, da varie persone, e, come spesso accade in casi simili, ogni volta era una storia diversa.
Se conoscete Starkfield, Massachusetts, conoscete anche l’ufficio postale. Se conoscete l’ufficio postale, dovete aver visto Ethan Frome fermarvisi dinnanzi col suo calesse, gettare le redini sulla groppa incavata del suo cavallo baio, e trascinarsi fino al bianco colonnato, attraversando il marciapiede di mattoni; e dovete aver chiesto chi fosse.
Fu qui, molti anni fa, che lo vidi per la prima volta: e il suo aspetto mi colpì.
Anche allora, sebbene non fosse più che una rovina di uomo, egli era la figura più imponente e impressionante di Starkfield.
Non era solamente la sua altezza che lo distingueva, perché i nativi del luogo si riconoscevano facilmente per la dinoccolata, longilinea figura, dalla razza straniera, più tarchiata: era l’aspetto possente e noncurante che aveva quantunque fosse zoppo e ciò gli impedisse ogni passo come lo strappo di una catena. Vi era qualcosa di lugubre e di scostante sul suo volto, ed era talmente irrigidito e brizzolato che pensai fosse un vecchio, e rimasi sorpreso di sentire che non aveva più di cinquantadue anni. Me lo disse Harmon Gow, che aveva guidato la diligenza da Bettsbridge a Starkfield in tempi anteriori al tram, e conosceva la cronistoria di tutte le famiglie che abitavano sul suo percorso.
«Ha sempre avuto questo aspetto dal giorno dell’incidente; saranno ormai ventiquattro anni a febbraio» Harmon disse, tra pause durante le quali il suo pensiero riandava al ricordo.
Era stato “l’incidente” – per quanto riuscii a capire dallo stesso informatore – che, oltre a segnare la rossa cicatrice attraverso la fronte di Ethan Frome, aveva storpiato e accorciato il suo fianco destro in tal modo che gli costava un visibile sforzo fare i pochi passi dal suo calesse allo sportello dell’ufficio postale.
Aveva l’abitudine di venire in città dalla sua fattoria ogni giorno, verso mezzodì, e siccome a quell’ora io passavo a prendere la posta, lo incontravo spesso sotto il portico e attendevo in piedi vicino a lui, osservando la mano che distribuiva la corrispondenza dietro l’inferriata.
Notai che, sebbene venisse sempre così puntualmente, non riceveva altro che un giornale, L’aquila di Bettsbridge, che senza guardare infilava nella tasca sdrucita.A volte, raramente, l’ufficiale postale gli porgeva una busta indirizzata alla signora Zenobia – o Zeena – Frome, che di solito recava stampato nell’angolo sinistro, bene in vista, l’indirizzo di qualche fabbricante di medicinali e il nome della specialità. Anche quando arrivavano queste buste, il mio vicino se le infilava in tasca senza dar loro uno sguardo, come se fosse troppo abituato a esse per incuriosirsi sul loro numero e la loro varietà, e poi se ne andava in silenzio, con un cenno del capo all’ufficiale postale.
Tutti a Starkfield lo conoscevano e gli rivolgevano il saluto adeguandolo alla sua grave espressione; ma il suo silenzio veniva rispettato, e solo in rare occasioni uno dei vecchi del posto lo tratteneva per fare quattro chiacchiere. Quando ciò accadeva, egli ascoltava in silenzio, gli azzurri occhi fissi sul viso dell’interlocutore, e rispondeva a voce tanto bassa che le sue parole non raggiungevano il mio orecchio; poi si arrampicava faticosamente sul calesse, prendeva le redini nella sinistra e partiva lentamente in direzione della sua fattoria.
«Fu un incidente grave?» chiesi a Harmon, seguendo con gli occhi la figura di Frome che si allontanava, e pensando quanto fieramente il suo asciutto, bruno viso, con il ciuffo di capelli biondi, doveva stare eretto sulle forti spalle, prima che fossero storpiate e incurvate.
«Della peggiore specie,» assentì il mio informatore «più che sufficiente per ammazzare chiunque. Ma i Frome sono resistenti. Ethan probabilmente arriverà a cent’anni.»
«Dio mio!» esclamai. In quel momento Ethan Frome, dopo essersi arrampicato sul suo sedile, si era chinato per vedere se una cassetta di legno – anche quella con l’etichetta di una farmacia – che aveva messo nella parte posteriore del calesse, era bene assicurata, e io vidi il suo viso con l’espressione che probabilmente aveva quando credeva di essere solo. «Quell’uomo arrivare a cent’anni! Ha già l’aspetto di un morto, e di un morto all’inferno!»
Harmon prese una tavoletta di tabacco dalla tasca, ne tagliò un pezzetto e lo pressò nella sua guancia come in una borsa di cuoio. «Forse è stato a Starkfield troppi inverni. I migliori se ne vanno.»
«Perché non se n’è andato anche lui?»
«Qualcuno doveva rimanere a prendersi cura della famiglia. Non vi è mai stato nessun altri che Ethan. Prima suo padre, poi sua madre, poi sua moglie.»
«E poi l’incidente?»
Harmon ridacchiò sardonicamente. «Esatto. E allora dovette restare.»
«Capisco. E da allora gli altri hanno dovuto prendersi cura di lui?»
Harmon spostò il tabacco nell’altra guancia, con cura. «Oh, quanto a questo, è sempre stato Ethan a curare gli altri.»
Sebbene Harmon Gow sviluppasse la storia per quanto la sua portata mentale e morale glielo permettesse, vi erano evidenti lacune tra i fatti del suo racconto, e io avevo la sensazione che il significato più profondo della storia stesse proprio in queste lacune. Ma una frase mi era rimasta impressa nella memoria, e mi servì come nucleo intorno a cui raggruppare le mie susseguenti deduzioni: «Forse è stato a Starkfield troppi inverni».
Prima che il mio periodo di permanenza laggiù terminasse, avevo imparato a comprendere cosa significasse questa frase. Eppure io vi ero giunto ai tempi degenerati del tram, della bicicletta, quando le comunicazioni erano facili tra i villaggi sparsi sulle montagne, e le città più grandi nelle vallate, come Bettsbridge e Shadd’s Falls, avevano librerie, teatri, sale Y.M.C.A.1 alle quali si recava la gioventù delle colline per distrarsi. Ma quando l’inverno si chiuse su Starkfield, e il villaggio fu sotto una coltre di neve perpetuamente rinnovata dal pallido cielo, cominciai a capire che cosa la vita – o piuttosto la negazione della vita – dovesse essere stata ai tempi della gioventù di Ethan Frome.
Io ero stato mandato laggiù dai miei superiori per un lavoro connesso alla grande centrale elettrica, e un prolungato sciopero di carpentieri aveva talmente ritardato il lavoro che io mi trovai ancorato a Starkfield – il posto abitabile più vicino – per la maggior parte dell’inverno. Dapprima mi ribellai, ma poi, sotto l’effetto ipnotico dell’abitudine, gradualmente cominciai a trovare un cupo piacere in quella specie di vita. Nel primo periodo del mio soggiorno ero stato colpito dal contrasto tra la vitalità del clima e l’apatia della gente. Giorno per giorno, dopo che le nevicate di dicembre furono finite, un intenso cielo azzurro rovesciava torrenti di luce e aria sul candido paesaggio, che li rifletteva con uno scintillio ancora più intenso. Si penserebbe che una simile atmosfera dovesse ravvivare le emozioni così come il sangue: ma invece non sembrava produrre alcun cambiamento, tranne che rallentare ancor di più i battiti del lento polso di Starkfield.
Dopo che ero stato lì un altro po’ di tempo, e avevo visto questa fase di limpidezza cristallina chiudersi ed essere seguita da lunghi periodi di freddo senza sole; quando le tempeste di febbraio si attendarono, ammantate di bianco, intorno al villaggio, e la selvaggia cavalleria dei venti di marzo giunse alla carica in loro aiuto, allora cominciai a comprendere perché Starkfield emergeva dai suoi sei mesi di assedio come una guarnigione affamata che si arrende senza quartiere. Venti anni prima, i mezzi di resistenza dovevano essere molto minori, e il nemico doveva controllare quasi tutte le linee d’accesso tra i villaggi assediati; e considerando tutte queste cose, sentii la sinistra potenza della frase di Harmon: «I migliori se ne vanno».
Ma se questo era il caso, come era possibile che una combinazione di ostacoli avesse impedito la fuga di un uomo come Ethan Frome?
Durante il mio soggiorno a Starkfield dimoravo presso una vedova di mezza età, conosciuta familiarmente come la signora Ned Hale. Il padre della signora Hale era stato l’avvocato del villaggio della passata generazione, e la «casa dell’avvocato Varnum», dove la mia padrona ancora viveva con la madre, era la residenza più importante del paese.
Si ergeva a un capo della strada principale, e il suo portico in stile classico e le finestre a piccoli riquadri guardavano lungo un sentiero a lastroni di pietra, fiancheggiato da abeti di Norvegia, verso lo snello, bianco campanile dell...
Indice dei contenuti
- Ethan Forme
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- Introduzione
- Cronologia Della Vita e Delle Opere
- Bibliografia
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- sommario