I have a dream
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I have a dream

  1. 192 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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I have a dream

Informazioni su questo libro

Parole di giustizia, di fratellanza, di verità. Parole pesanti come pietre. Sono raccolte in questo libro, introdotte da atmosfere indimenticabili come Redemption Song di Bob Marley e Imagine di John Lennon. Martin Luther King, Gandhi, Mandela, Malcolm X, Allende, Sadat, Rabin e Arafat… i grandi uomini del Novecento che hanno camminato con coraggio 'in direzione ostinata e contraria'. Per un mondo migliore. Per insegnarci che niente viene da solo. Che bisogna metterci del proprio. Non solo crederci, ma rischiare.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817011013
eBook ISBN
9788858655238

IL SOGNO DELLA PACE E DELLA CONCORDIA

... We shall live in peace,
we shall live in peace,
we shall live in peace some day.
Oh, deep in my heart, I do believe,
we shall overcome some day ... *
Joan Baez (Pete Seeger),
We shall overcome
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PAPA GIOVANNI XXIII

(1881-1963)

Questo è il testo del discorso con cui Giovanni XXIII si rivolse alla folla la sera dell’11 ottobre 1962, al termine della giornata di apertura del Concilio Vaticano II. Letto oggi, ha un carattere intimo, familiare, quasi personale. Un discorso che nella solennità del momento evita le grandi parole e trova la forma semplice della comunicazione, per certi aspetti vicina alla retorica del discorso di un parroco ai suoi parrocchiani. Un aspetto, questo, che forse può sorprendere per l’occasione, la solennità, lo scenario complessivo, ma che deve far riflettere sulla capacità di trasmettere comunanza non tanto per i concetti che si enunciano o per le promesse che si fanno, ma per le parole che si trovano.


Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una sola, ma riassume tutte le voci del mondo; e qui, di fatto, il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera... Osservatela in alto, a guardare questo spettacolo... Noi chiudiamo una grande giornata di pace... Sì, di pace: Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà.
Se domandassi, se potessi chiedere ora a ciascuno: voi da che parte venite? I figli di Roma, che sono qui specialmente rappresentati, risponderebbero: ah, noi siamo i figli più vicini, e voi siete il nostro vescovo. Ebbene, figlioli di Roma, voi sentite veramente di rappresentare la Roma caput mundi, la capitale del mondo, così come per disegno della Provvidenza è stata chiamata ad essere attraverso i secoli.
La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto padre per volontà di Nostro Signore... Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così; guardandoci così nell’incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà... Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: «Questa è la carezza del Papa». Troverete forse qualche lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola di conforto. Sappiano gli afflitti che il Papa è con i suoi figli specie nelle ore della mestizia e dell’amarezza... E poi tutti insieme ci animiamo: cantando, sospirando, piangendo, ma sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, continuiamo a riprendere il nostro cammino. Addio, figlioli. Alla benedizione aggiungo l’augurio della buona notte.

JOHN FITZGERALD KENNEDY

(1917-1963)

Testo del discorso tenuto a Berlino, il 26 giugno 1963, in nome della libertà e contro il Muro. È forse il discorso più noto di Kennedy, ma anche quello che è ricordato proprio per la sua irritualità. Rappresenta l’essenza stessa della figura del presidente americano e del suo mito: quello della sfida anticonvenzionale, della capacità retorica di dire le parole di tutti con l’autorevolezza di una carica pubblica. In questo sta la natura di sogno iscritta nel testo: nel fatto che si possano dire cose «naturali», comunque non straordinarie, e che le si possa dire dall’alto di una carica e di una responsabilità che richiederebbe un linguaggio più mediato, comunque diplomaticamente più conveniente.


Sono fiero di trovarmi in questa città come ospite del vostro illustre sindaco, che ha simboleggiato nel mondo lo spirito combattivo di Berlino Ovest. E sono fiero di visitare la Repubblica Federale con il vostro illustre cancelliere, che da tanti anni impegna la Germania per la democrazia, la libertà e il progresso, e di trovarmi qui in compagnia del mio compatriota generale Clay, che è stato in questa città nei grandi momenti di crisi che essa ha attraversato, e vi ritornerà, se mai ve ne sarà bisogno.
Duemila anni fa il maggiore orgoglio era poter dire: Civis romanus sum. Oggi, nel mondo della libertà, il grido di orgoglio che si solleva è: Ich bin ein Berliner.
Molte persone in questo mondo non vogliono capire – o dicono di non comprendere – qual è la profonda e grande differenza fra il mondo libero e democratico e il mondo comunista. Che vengano a Berlino. Ci sono alcuni che affermano che il comunismo è l’èra del futuro. Che vengano a Berlino. E ci sono alcuni, sia in Europa che altrove, che dicono di poter lavorare con i comunisti. Che vengano a Berlino. E c’è sempre una piccola schiera di persone che, pur ammettendo lo spirito diabolico del comunismo, afferma che è l’unica strada per un progresso economico. Lass’ sie nach Berlin kommen. Che vengano a Berlino.
La libertà presenta molte difficoltà e la democrazia non è certo perfetta, ma noi non abbiamo mai costruito un muro per chiudervi dentro la nostra gente e impedirgli di lasciarci. Io voglio dirvi, a nome dei miei connazionali che vivono molte miglia lontano da voi, all’altro capo dell’Atlantico, che loro sentono il grande vanto di essere stati in grado di dividere con voi, anche nella distanza, diciotto anni di storia. Io non conosco nessuna provincia, nessuna città che sia stata assediata per diciotto anni e che ancora conservi la vitalità, la forza, la speranza e la determinazione della città di Berlino Ovest.
Mentre il muro è il più evidente e vivido simbolo del fallimento del sistema comunista che il mondo ha sotto gli occhi, noi non proviamo alcuna soddisfazione per questo, per quello che rappresenta: un’offesa, come il vostro sindaco ha detto, non solo nei confronti della storia, ma anche nei confronti dell’umanità. Un’offesa che ha separato famiglie, diviso mariti e mogli e fratelli e sorelle e allontanato persone che speravano di vivere assieme. Quello che è vero per questa città, è vero anche per la Germania: una pace duratura non potrà essere raggiunta in Europa finché la Germania si trova costretta a infrangere il più elementare diritto di ogni uomo libero, e cioè il diritto di scegliere. In diciotto anni di pace e di grande fiducia, questa generazione tedesca ha guadagnato il diritto a essere libera, assieme al diritto di vedere unite le proprie famiglie e la propria nazione in una vita di pace e ricca di prospettive per tutti quanti.
Voi vivete in un’isola fortificata della libertà, ma la vostra vita è parte della vita del mondo intero. Vorrei quindi chiedervi di levare lo sguardo oltre i pericoli di oggi e verso la speranza di domani; di guardare oltre la mera libertà di Berlino e della nazione tedesca verso l’affermazione della libertà di ogni parte del mondo; di levare i vostri occhi oltre il muro verso il giorno della pace e della giustizia, di guardare oltre voi stessi e noi stessi verso tutta l’umanità.
La libertà è indivisibile, e quando un uomo è assoggettato, allora nessuno è libero.
Quando tutti saranno liberi, allora potremo guardare al giorno in cui questa città sarà riunita – e così questo paese e questo grande continente europeo – in un mondo pacificato e ricco di speranza. Ogni uomo libero, ovunque viva, è un cittadino di Berlino, perciò, come uomo libero, ho l’orgoglio di poter dire al mondo: Ich bin ein Berliner.

ANDREI D. SAKHAROV

(1921-1989)

Nel 1968 Sakharov scrive questo saggio – Progresso, coesistenza e libertà intellettuale – convinto che la libertà di pensiero sia la sola garanzia della possibilità di applicare un metodo scientifico e democratico alla politica, all’economia e alla cultura. La libertà di pensiero, tuttavia, non basta affermarla, occorre anche operare perché ciò che la minaccia – conformismo culturale, dogmatismo, controllo burocratico, ovvero la forza del partito politico nella realtà sovietica – sia rimosso. Il testo si divide in due parti: la prima è dedicata ai pericoli (guerra nucleare, fame, inquinamento e ambiente, dittature, conformismo culturale), la seconda – che qui si riproduce – è dedicata ai possibili ambiti dello sviluppo.

IL CONFRONTO DEI SISTEMI

Le prospettive del socialismo dipendono oggi dalla nostra capacità di rendere attraente il socialismo. Si tratta di sapere se il fattore decisivo nel paragone tra capitalismo e socialismo sarà il confronto tra l’attrazione morale delle idee del socialismo e della glorificazione del lavoro da un lato, e gli ideali egoistici della proprietà privata e la glorificazione del capitale dall’altro; oppure se la gente, quando penserà al socialismo, avrà soprattutto in mente le limitazioni della libertà intellettuale o addirittura il regime fascistico del culto.
Sto mettendo l’accento sugli aspetti morali, e non a caso. Quando si è realizzato un alto livello di produttività del lavoro sociale, si sono sviluppate al massimo le forze produttive, e si è assicurato un alto tenore di vita alla maggioranza della popolazione, allora sembra davvero che capitalismo e socialismo siano arrivati al punto di dover «giocare una partita di spareggio». Passeremo adesso a esaminare in dettaglio questa questione.
Immaginiamo due sciatori che gareggiano sulla neve alta. All’inizio della gara, uno dei due, in giacca a strisce, aveva un vantaggio di alcuni chilometri ma ora lo sciatore con la giacca rossa lo sta raggiungendo. Che cosa si può dire delle loro forze messe a confronto? Non molto, a dire la verità, perché ognuno dei due sciatori si sta battendo in condizioni diverse. Quello a strisce apre la pista, mentre quello rosso non ha bisogno di farlo. (Il lettore capirà che questa gara di sci rappresenta simbolicamente il peso dei costi di ricerca e sviluppo che il paese-guida nel campo della tecnologia deve sopportare.) Tutto quello che si può dire della gara è che non c’è una gran differenza di valore tra i due sciatori.
La parabola naturalmente non dà un’idea della complessità del paragone tra il progresso economico e tecnologico negli Stati Uniti e nell’URSS, né della rispettiva vitalità dello Slancio Rivoluzionario Russo e dell’Efficienza Americana.
Non possiamo dimenticare che per molta parte del periodo in questione l’Unione Sovietica fu duramente impegnata in guerra, e dovette curare poi le sue ferite. Né possiamo dimenticare che alcune distorsioni del nostro sviluppo non erano un momento intrinsecamente necessario del processo di edificazione socialista ma un tragico incidente, una malattia grave per quanto non inevitabile.
D’altra parte, qualsiasi paragone deve tener conto del fatto che noi stiamo raggiungendo gli Stati Uniti soltanto in alcune vecchie industrie tradizionali che non sono più così importanti come lo furono a suo tempo per gli Stati Uniti (ad esempio il carbone e l’acciaio). In alcuni dei campi più nuovi, come ad esempio l’automazione, i calcolatori, la petrolchimica, e soprattutto nel settore della ricerca e dello sviluppo, non siamo soltanto più indietro ma stiamo anche progredendo più lentamente, tanto che una vittoria totale della nostra economia nei prossimi decenni è abbastanza improbabile.
Bisogna anche tener conto del fatto che il nostro paese è dotato di vaste risorse naturali, dalla fertile terra nera al carbone e alle foreste, dal petrolio al manganese e ai diamanti. Dobbiamo metterci in testa che durante il periodo qui considerato il nostro popolo ha lavorato fino ai limiti delle sue capacità, il che portò a un certo esaurimento delle energie.
Dobbiamo anche aver chiaro in mente che l’Unione Sovietica ha adottato principi di organizzazione industriale e di sviluppo tecnologico provati in precedenza negli Stati Uniti. Come esempi possiamo citare le tecniche della catena di montaggio, gli antibiotici, l’energia nucleare, i convertitori di ossigeno nella fabbricazione dell’acciaio, l’ibridazione del grano, le mietitrici automatiche, le scavatrici rotanti, i semiconduttori in elettronica ecc.
C’è una sola conclusione ragionevole e si può prudentemente formularla in questo modo:
1. Noi abbiamo dimostrato la vitalità del socialismo, che ha fatto molto per la gente dal punto di vista materiale, culturale e sociale e, come nessun altro sistema, ha esaltato il significato morale del lavoro.
2. Non ci sono motivi di affermare, come spesso si fa in omaggio al dogmatismo, che il metodo capitalistico di produzione porta l’economia in un vicolo cieco o che è ovviamente inferiore al metodo socialista nella produttività del lavoro, e non ci sono certamente motivi per affermare che il capitalismo inevitabilmente conduce all’impoverimento assoluto della classe operaia.

Il progresso per mezzo del capitalismo. Il continuo progresso economico che si è ottenuto in regime capitalistico dovrebbe essere un fatto di grande significato teorico per qualunque marxista non dogmatico. È precisamente questo fatto che sta alla base della coesistenza pacifica e suggerisce in teoria che se mai il capitalismo finisse col portare l’economia in un vicolo cieco, non necessariamente si getterebbe in una disperata avventura militare. Ma sia il capitalismo che il socialismo sono in grado di raggiungere un progresso a lungo termine prendendo a prestito reciprocamente gli elementi positivi e avvicinandosi realmente l’un l’altro in taluni aspetti fondamentali.
Sento già le accuse di revisionismo e quelle di attenuare con queste affermazioni il punto di vista di classe. Immagino già i sorrisi ironici di compatimento, per l’ingenuità e l’immaturità politica che ho dimostrato. Ma i fatti dicono che c’è un autentico progresso economico negli Stati Uniti e negli altri paesi capitalistici, che i capitalisti usano realmente i principi sociali del socialismo e che c’è un reale miglioramento della condizione della classe operaia. Più importante ancora, i fatti dimostrano che in qualunque altra eventualità che non sia lo sviluppo della linea di coesistenza pacifica e di collaborazione tra i due sistemi e le due superpotenze, attraverso l’attenuazione dei contrasti e la reciproca assistenza, in qualunque altro caso, ripeto, non c’è che la distruzione del genere umano. Non c’è altra via di uscita.

Rivoluzione in Occidente? Metteremo adesso a confronto la distribuzione del reddito personale e del consumo tra i vari gruppi sociali negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica. La nostra propaganda è solita affermare che c’è una palese disuguaglianza negli Stati Uniti mentre l’Unione Sovietica è un paese assolutamente giusto, che fa una politica totalmente indirizzata nell’interesse della classe operaia. Per la verità tutte e due le affermazioni contengono una parte di verità e molti elementi di ipocrisia.
Non ho intenzione di minimizzare i tragici aspetti della povertà, della mancanza di diritti e dell’umiliazione di 22 milioni di negri americani. Ma noi dobbiamo capire che questo problema non è fondamentalmente un problema di classe, ma un problema razziale, che implica il razzismo e l’egoismo dei lavoratori bianchi e non dobbiamo ignorare che il gruppo dirigente degli Stati Uniti ha interesse a risolvere tale problema. È certo che il governo non è stato attivo come avrebbe dovuto; questo va messo in relazione con le preoccupazioni di carattere elettorale e la paura di porre il paese in una situazione di equilibrio instabile e quindi di stimolare l’estrema sinistra e l’estrema destra. Ma credo che noi membri del campo socialista dovremmo aver interesse a lasciare che il governo degli Stati Uniti affronti il problema negro senza aggravare la situazione del paese.
All’altro estremo la presenza dei milionari negli Stati Uniti non è un serio peso economico, data l’esiguità del loro numero. Il consumo complessivo dei ricchi rappresenta meno del 20 percento del consumo totale, cioè meno dell’aumento del consumo nazionale in un periodo di cinque anni. Da questo punto di vista, una rivoluzione, che probabilmente arresterebbe il progresso economico per più di cinque anni, non sembra sarebbe un atto economicamente vantaggioso per la classe operaia. E non voglio neanche parlare del costo di vite umane inevitabile in una rivoluzione. Né sto parlando del pericolo dell’«ironia della storia» di cui parla così acutamente Federico Engels nella famosa lettera a Vera Zasulich, una «ironia» che nel nostro paese prese la forma dello stalinismo.
Ci sono naturalmente situazioni dove la rivoluzione è l’unica possibilità. Questo si applica soprattutto alle nazioni sottosviluppate.
Ma non è il caso degli Stati Uniti e degli altri paesi capitalistici sviluppati, come è del resto implicitamente ammesso nei programmi dei partiti comunisti di questi paesi.
Per quanto riguarda il nostro paese, anche qui bisogna evitare di dipingere un quadro idilliaco. Sussiste tuttora una grande disuguaglianza di benessere tra città e campagna, specialmente nelle aree rurali che mancano di collegamenti col mercato privato, o non producono nessun bene richiesto da questo. Ci sono grandi differenze tra le città in cui sorgono le industrie nuove e privilegiate, e quelle in cui hanno sede solo industrie vecchie e antiquate. In realtà il 40 percento della popolazione sovietica è in condizioni economiche difficili. Negli Stati Uniti circa il 25 percento della popolazione è sull’orlo della miseria. D’altro canto il 5 percento della popolazione sovietica che appartiene al gruppo dei dirigenti è privilegiato quanto il suo equivalente negli Stati Uniti.

I manager negli USA e nell’URSS. Lo sviluppo della società moderna sia...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL SOGNO POLITICO
  4. BIBLIOGRAFIA
  5. LA RETORICA DEL SOGNO
  6. IL SOGNO DEL RISCATTO
  7. I SUSCITATORI DI SOGNI
  8. IL SOGNO DELLA PACE E DELLA CONCORDIA
  9. LO SCENARIO UNIVERSALISTICO
  10. BIOGRAFIE