1
Dieci nuovi studenti
Me ne stavo seduto su una panca nel cortile, all’ombra di un vecchio albero di filicium. Mio padre, seduto accanto a me, mi teneva un braccio attorno alle spalle e scambiava sorrisi e cenni di saluto con gli altri genitori, anche loro in attesa insieme ai figli sulle panche di fronte alla nostra. Io ero ancora un bambino e quella era una mattina davvero memorabile: la mattina del nostro primo giorno di scuola.
Alla fine della lunga fila di panche c’era una piccola costruzione con la porta aperta, e oltre la porta si intravedeva un’aula vuota. Lo stipite pendeva su un lato. A dire la verità tutta la costruzione pendeva su un lato, come se fosse lì lì per crollare. I due insegnanti, in piedi davanti all’ingresso, sembravano due padroni di casa in attesa degli invitati a una festa. L’uomo anziano con l’aria paziente, Bapak K.A. Harfan Effendy Noor, ma per noi solo Pak Harfan, era il preside, e la ragazza al suo fianco, con il capo coperto dal jilbab, si chiamava Ibu N.A. Muslimah Hafsari, o più semplicemente Bu Mus. Sorridevano tutti e due, proprio come mio padre.
Ma il sorriso di Bu Mus era forzato. Aveva un’espressione seria sul viso, ogni tanto le veniva anche un tic. Contava e ricontava noi bambini con aria assorta, così assorta da non accorgersi nemmeno del sudore che le scendeva sugli occhi. La cipria le era colata sulle guance, facendola somigliare alla domestica della regina nel Dul Muluk, una vecchia storia della nostra tradizione che veniva rappresentata spesso al villaggio.
«Nove, soltanto nove, Pamanda Guru. Ne manca ancora uno» disse preoccupata al preside. Pak Harfan le rivolse uno sguardo rassegnato.
L’ansia stava contagiando anche me. Un po’ quella di Bu Mus e un po’ quella di mio padre. Infatti, per quanto sembrasse a suo agio, sentivo che il suo cuore batteva forte. Per un minatore di quarantasette anni con un sacco di bambini e un solo misero stipendio, far studiare un figlio non era una scelta semplice. Dal suo punto di vista sarebbe stato molto più ragionevole mandarmi a fare il garzone al mercato, al banco degli alimentari cinesi, oppure spedirmi sulla costa a lavorare come coolie per contribuire al precario bilancio familiare. Iscrivermi a scuola significava sobbarcarsi anni di spese, un’impresa non da poco per i miei genitori.
Povero papà.
Non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi.
Ma non era il solo a essere in preda all’angoscia. Anche gli altri genitori pensavano al mercato del mattino e immaginavano quanto sarebbe stato meglio mandare i figli a lavorare lì piuttosto che accompagnarli a scuola. Glielo leggevi in faccia. Pur con tutti gli sforzi possibili, avrebbero potuto farli studiare solo fino alle scuole medie, e non erano affatto convinti che questo avrebbe migliorato le condizioni delle loro famiglie. Quella mattina non erano lì per libera scelta, ma solo per evitare la denuncia degli ispettori governativi e rispettare i nuovi decreti contro l’analfabetismo.
Li conoscevo tutti, genitori e figli seduti di fronte a me, tranne un bimbetto sporco con i ricci rossi, che non stava più nella pelle dalla voglia di entrare in aula. Lo tratteneva solo il rispetto per suo padre, un uomo scalzo con indosso un paio di calzoni sdruciti.
Gli altri erano tutti miei amici: Trapani, seduto in braccio alla madre; Kucai, al fianco di suo padre; Sahara, che poco prima si era arrabbiata con la sua mamma perché le aveva impedito di precipitarsi in classe, e Syahdan, che invece era lì da solo. Eravamo vicini di casa, malesi della comunità più povera dell’isola di Belitung, provincia dell’Indonesia. Anche la scuola elementare Muhammadiyah era povera, la più misera scuola di campagna dell’isola. I genitori ci iscrivevano i figli per tre motivi. Primo, la scuola musulmana non chiedeva una retta, ma si accontentava di ciò che le famiglie potevano permettersi e solo quando potevano permetterselo. Secondo, viste la vulnerabilità e la facilità con cui potevano cadere vittime delle tentazioni diaboliche, era essenziale che i bambini ricevessero da subito un’educazione religiosa. Terzo, tutte le altre scuole non li volevano.
Ma adesso anche quella possibilità stava per sfumare: servivano almeno dieci studenti per tenere aperta la scuola Muhammadiyah, così aveva stabilito il distretto meridionale di Sumatra. Nonostante fosse la più antica dell’isola, l’anno precedente aveva avuto solo undici iscritti. Quella mattina Bu Mus e Pak Harfan temevano di doverla chiudere, i genitori di non potersela permettere, e noi – i nove bambini presi nel mezzo – di non riuscire a entrarci nemmeno per un giorno.
Pak Harfan si era anche già preparato un discorso di addio. «Aspettiamo fino alle undici» disse a Bu Mus e ai genitori sconfortati. Noi bambini facemmo silenzio. Bu Mus era sul punto di scoppiare, il viso e gli occhi gonfi a forza di trattenere le lacrime. Quello avrebbe dovuto essere il suo primo giorno da insegnante, la realizzazione di un sogno. Si era appena diplomata alla Sekolah Kepandaian Putri, una scuola professionale femminile di Tanjong Pandan, la capitale della Reggenza. Aveva quindici anni. Stava in piedi sotto la campanella, immobile come una statua a fissare il cortile e la strada che veniva dal villaggio. Nessuno in vista. Il sole era alto nel cielo, ormai era tardi. Contare sull’arrivo di un altro allievo era come sperare di catturare il vento.
Io e gli altri bambini ce ne stavamo a capo chino, delusi e con il cuore a pezzi.
Alle undici meno cinque, Bu Mus fece un gran sospiro. La sua carriera da insegnante stava per finire prima ancora di cominciare, e quella di Pak Harfan, dopo trentadue anni di onorato servizio, stava per concludersi nel modo più desolante.
«Sono soltanto nove, Pamanda Guru.» Lo vedevano tutti, ma lei continuava a ripeterlo.
Alle undici e cinque, il totale degli allievi era ancora fermo a nove. Mi liberai del braccio di mio padre. Sahara singhiozzava tra quelle di sua madre. Per il gran giorno si era messa le calze e le scarpe, il jilbab e una camicetta; aveva persino i libri, un thermos per l’acqua e la cartella – tutti nuovi di zecca.
Pak Harfan si avvicinò ai genitori e cominciò a salutarli a uno a uno. Uno spettacolo deprimente. Tutti cercavano di consolarlo con grandi pacche sulle spalle. Bu Mus aveva gli occhi lucidi. Alla fine, Pak Harfan si preparò a pronunciare il suo discorso di commiato. Fece appena in tempo a dire « Assalamu alaikum, la pace sia con voi», poi Trapani si mise a gridare.
«Harun!»
Ci voltammo tutti. Dal fondo del cortile, un ragazzino alto e magro veniva verso di noi con un’andatura impacciata. Per l’occasione si era pettinato per bene e si era messo una camicia bianca a maniche lunghe che aveva infilato con cura nei calzoncini corti. Aveva le gambe storte e a ogni passo incrociava le ginocchia, sembrava sempre sul punto di cadere. Una donna grassoccia di mezza età cercava di stargli dietro come poteva. Harun era un tipo buffo, e un nostro buon amico. Aveva quindici anni come Bu Mus, ma al contrario di lei era un po’ lento a scuola. Adesso cercava di correre, ma sua madre continuava ad arrancare e lo tratteneva tirandolo per la mano.
Quando arrivarono davanti a Pak Harfan, erano tutti e due senza fiato.
«Bapak Guru» disse la donna, ansimando. «La prego di accettare Harun. La scuola speciale sull’isola di Bangka è troppo lontana per noi, non abbiamo abbastanza soldi per mandarlo laggiù. Tanto vale che venga a scuola qui invece che restarsene a casa, dove non fa altro che inseguire i miei pulcini.»
Harun gongolava, scoprendo i lunghi denti gialli.
Anche Pak Harfan sorrideva. Scambiò uno sguardo con Bu Mus, e si strinse nelle spalle: «Così fanno dieci».
Harun ci aveva salvati! Scoppiammo in applausi e grida di gioia. Sahara saltò giù dalla panca, si raddrizzò il jilbab e si sistemò la cartella. Bu Mus avvampò per la gioia. Smise di piangere, si ripulì il viso dal sudore e dai grumi di cipria, e si preparò a cominciare.
2
L’uomo-pino
Con il velo candido e gli abiti profumati di vaniglia, Bu Mus sembrava un bocciolo di giglio gigante himalayano. Si avvicinò ai genitori seduti sulle panche e scambiò qualche parola gentile con loro prima di cominciare l’appello. Erano già tutti in classe, seduti accanto al loro compagno di banco, tranne me e il piccoletto sporco con i ricci rossi, l’unico che non conoscevo. Non riusciva a stare fermo, e puzzava di gomma bruciata.
«Pak Cik, suo figlio sarà il compagno di banco di Lintang» disse Bu Mus a mio padre.
Ecco come si chiamava. Che strano nome.
Lintang si liberò dalla stretta del padre, balzò in piedi e corse a cercare il suo posto. Aveva l’espressione beata di un bambino che è appena riuscito a salire in groppa a un pony. Con le redini del suo destino ben salde in mano, sembrava dicesse: «Io da qui non scendo».
Bu Mus si avvicinò al padre di Lintang. La sua figura faceva subito pensare a un pino colpito da un fulmine: nero, rinsecchito e curvo. Era un pescatore, ma aveva l’aria mite e gentile di un pastore, e lo sguardo pieno di speranza. A differenza degli altri pescatori, parlava senza gridare. Esattamente come la maggior parte degli indonesiani, non era affatto convinto che l’istruzione fosse un diritto fondamentale.
Lintang veniva da Tanjong Kelumpang, un villaggio della costa. Per arrivarci bisognava attraversare quattro foreste di palme, terreni paludosi molto temuti dalla gente del mio villaggio. In quelle zone desolate non era raro trovarsi la strada sbarrata da coccodrilli grossi come palme da cocco. Il villaggio si trovava sull’estrema punta orientale di Sumatra, probabilmente la regione più remota e arretrata dell’isola di Belitung. Agli occhi di Lintang, la zona dove sorgeva la nostra scuola era una metropoli, e per arrivarci doveva inforcare la bicicletta verso le quattro del mattino, subito dopo Subuh, la prima preghiera della giornata.
Generazione dopo generazione, nessuno nella sua famiglia era mai riuscito ad affrancarsi dalla povertà. Uno dopo l’altro, finivano tutti a fare i pescatori. Nessuno era riuscito a mettersi in proprio, e non per mancanza di pesce, ma di barche.
Quell’anno suo padre aveva deciso di spezzare il circolo. Il suo primogenito non sarebbe diventato un pescatore. Si sarebbe seduto al fianco di un altro piccoletto con i capelli ricci – io – e avrebbe pedalato avanti e indietro da scuola ogni giorno. I quaranta chilometri di strada sterrata sarebbero stati il banco di prova per la sua vera vocazione. L’odore di gomma bruciata che gli avevo sentito addosso veniva dai suoi sandali cunghai, fatti con vecchi pneumatici. Le lunghe pedalate di Lintang li avevano logorati. A ripensarci adesso sembra un’impresa impossibile: era così piccolo…
Quando lo raggiunsi in classe, Lintang mi salutò con una decisa stretta di mano. Parlava in continuazione, con un tono animato e in un buffo dialetto tipico delle zone più isolate, e intanto scoccava rapide occhiate in giro per l’aula. Mi faceva pensare a una di quelle piante «artigliere» che alle prime gocce d’acqua si mettono a sparare proiettili di polline, scintillando gonfie di vita in un’esplosione di nuove gemme.
Bu Mus aveva consegnato a tutti i genitori un modulo su cui dovevano scrivere il proprio nome, la professione e l’indirizzo di casa. Erano tutti intenti a compilarlo, tranne il padre di Lintang. Lo stringeva come se fosse piovuto da un altro pianeta e lo fissava perplesso.
«Ibu Guru» disse piano. «Deve perdonarmi, ma non so né leggere né scrivere.»
E non sapeva nemmeno la sua data di nascita, aggiunse con aria mortificata. Lintang balzò su dalla sedia, lo raggiunse e gli tolse il foglio di mano. «Il modulo lo compilerò io, Ibunda Guru, quando avrò imparato a leggere e scrivere!» esclamò.
Era stupefacente vedere un bambino tanto piccolo correre in difesa di suo padre. Lintang continuava a guardarsi attorno, ruotando la testa come un gufo. Ogni cosa nell’aula – il righello di legno, il vasetto di creta modellato da un allievo di prima media e rimasto sulla cattedra di Bu Mus, la vecchia lavagna, i gessetti sparpagliati sul pavimento – gli sembrava straordinaria.
L’uomo-pino si godeva l’entusiasmo del figlio con un sorriso dolceamaro. Era facile capire a cosa stesse pensando: immaginava già il momento in cui la povertà o la crudeltà del destino avrebbe costretto il suo ragazzo a lasciare la scuola, mandandogli il cuore in frantumi. Per lui, il desiderio di imparare restava un mistero insondabile.
E nemmeno il quaderno lo era. Aveva la copertina blu scuro e le pagine con la doppia riga che si usavano in seconda per esercitarsi con il corsivo. Eppure, non dimenticherò mai quel bambino della costa, il mio compagno di banco, che per la prima volta in vita sua prendeva in mano quaderno e matita. Da quel giorno avrebbe scritto parole piene di intelligenza e la sua luce sarebbe diventata il nostro faro, dissipando la nube cupa che incombeva sulla nostra scuola. Non avrei incontrato mai più una persona geniale come lui.
3
La vetrinetta
È facile descrivere la nostra scuola. Era uguale a centinaia, forse a migliaia di altre scuole indonesiane, così malmessa che sarebbe bastata la cornata di un caprone in amore per farla crollare.
Avevamo soltanto due insegnanti, per tutte le classi e tutte le materie. Non c’erano uniformi. Non c’era nemmeno il bagno. La piccola costruzione sorgeva ai margini della foresta e, quando la natura chiamava, dovevamo solo uscire e accovacciarci dietro un cespuglio. In realtà, in cortile una latrina c’era, ma bisognava andarci accompagnati da un adulto perché i serpenti ci facevano il nido.
Non c’era la cassetta del pronto soccorso. Se qualcuno stava male – dissenteria, punture di insetti, tosse, influenza, sfoghi sulla pelle – la maestra ci faceva prendere una grossa pastiglia rotonda che sembrava il bottone di un impermeabile. Era bianca e amara, la mandavi giù e ti sentivi subito pieno come un uovo. Sopra c’erano impresse tre grosse lettere: AFC, cioè aspirina, fenacetina e caffeina. In tutta Belitung, l’ AFC aveva la fama di una pozione magica in grado di curare qualsiasi malanno. Quel rimedio universale era tutto ciò che il governo ci offriva per compensare la scarsità di fondi destinati all’assistenza sanitaria dei poveri.
Era raro che i funzionari governativi, gli amministratori scolastici o i politici facessero visita alla nostra scuola. Il nostro unico ospite fisso era un tizio che girava bardato come un ninja. Portava sulla schiena una grossa bombola di alluminio con un tubo a penzoloni. Sembrava sempre in procinto di partire per la luna. Lo mandava il ministero della Sanità a spruzzare un insetticida antizanzare. Ogni volta che, come un segnale di fumo, vedevamo levarsi la nube tossica, ci mettevamo a gridare di gioia.
Naturalmente, non c’era neanche un custode perché non c’era niente da rubare. Un’asta portabandiera di bambù giallo era l’unica cosa che dicesse che quella era una scuola. Una lavagnetta verde con un sole dai raggi bianchi pendeva tutta storta dall’asta. Al centro c’era scritto:
SD MD
SEKOLAH DASAR MUHAMMADIYAH
Sotto il sole c’era una frase in arabo. Solo in seconda elementare imparai l’alfabeto e scoprii che diceva: Amar makruf nahi mungkar, fai il bene e previeni il male, il primo precetto di Muhammadiyah, la seconda organizzazione islamica indonesiana con più di trenta milioni di seguaci. Quelle parole hanno messo radici dentro di noi e ci hanno accompagnato per tutta la vita.
Anche vista da lontano, la scuola sembrava sempre lì lì per crollare. Le vecchie travi di sostegno si incurvavano sotto il peso del tetto. Chi l’aveva costruita non si era di certo ispirato ai grandi principi dell’architettura. Somigliava a un deposito di noci di cocco. Le porte e le finestre non si chiudevano perché non combaciavano con i telai, ma comunque non c’era bisogno di chiuderle.
Entrando in aula, la sensazione era che fosse un posto vuoto, incredibile e commovente. Uno degli oggetti che usavamo di meno era una vetrinetta decrepita, con lo sportello difettoso. Per chiuderlo bisognava incastrarci un pezzo di carta. Era quel genere di mobile che nelle aule normali si usa per esporre le foto degli ex allievi illustri, o d...