
- 272 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Eugenia Grandet
Informazioni su questo libro
Una straordinaria tessera nel mosaico della 'Commedia umana'. Un capolavoro assoluto dominato da figure indimenticabili, ritratti di maestria psicologica estrema che si fronteggiano in un dramma borghese capostipite di un intero genere letterario. Felice Grandet si è enormemente arricchito con speculazioni non sempre irreprensibili e regna come un sovrano assoluto sulla propria famiglia, oppresso e opprimente nella sua insaziabile avarizia; sua figlia Eugenia, ingenua e sottomessa, è sconvolta da un amore impossibile per il cugino Charles, elegante e raffinato, così in contrasto con le meschine abitudini imposte da papà Grandet.
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Informazioni
Print ISBN
9788817014601eBook ISBN
9788858654668A MARIA
Che il tuo nome, o tu il cui ritratto è il più bell’ornamento di questo lavoro, sia qui come un ramoscello di bosso benedetto, colto non si sa quale albero, ma certo santificato dalla religione e rinnovellato, sempre verde, da mani pie, per proteggere la casa.
Che il tuo nome, o tu il cui ritratto è il più bell’ornamento di questo lavoro, sia qui come un ramoscello di bosso benedetto, colto non si sa quale albero, ma certo santificato dalla religione e rinnovellato, sempre verde, da mani pie, per proteggere la casa.
DE BALZAC
In certe città di provincia esistono case che ispirano una malinconia simile a quella suscitata dai chiostri più tenebrosi, dalle lande più desolate o dalle più tristi rovine. Forse quelle case riuniscono in sé il silenzio del chiostro, l’aridità delle lande e la scheletrica nudità delle rovine; in esse la vita e il movimento si svolgono talmente in sordina che un forestiero potrebbe crederle disabitate, se non incontrasse all’improvviso lo sguardo scialbo e freddo di una persona immobile, il cui viso quasi monastico appare al davanzale di una finestra al suono di un passo sconosciuto.
Questi elementi malinconici si riscontrano nella fisionomia di una casa di Saumur. È in fondo alla strada in salita che porta al castello passando per la parte alta della città. Questa strada, oggi poco frequentata, calda d’estate e fredda d’inverno, oscura in qualche punto, è notevole per la sonorità del suo acciottolato sempre pulito e asciutto, per il suo percorso angusto e tortuoso, per la tranquillità delle sue case che appartengono alla città vecchia e dominano i bastioni. Edifici tre volte secolari resistono ancora solidamente, benché costruiti in legno, e il loro vario aspetto contribuisce all’originalità che richiama su quella parte di Saumur l’attenzione degli antiquari e degli artisti.
È difficile passare davanti a queste case senza ammirare le enormi assi di quercia che recingono come un nero bassorilievo il pianterreno della maggior parte di esse, e alle cui estremità sono intagliate figure bizzarre. Qui, travi trasversali di legno ricoperte d’ardesia tracciano linee azzurrine sulle esili pareti di un edificio coronato da un tetto di legno e argilla curvato dagli anni, dalle assi fradice e contorte per l’alterno lavorio della pioggia e del sole; laggiù si scorgono davanzali consunti, anneriti, adorni di delicate sculture appena visibili, e che sembrano troppo fragili per il vaso d’argilla bruna da cui si slanciano i garofani o le rose di una povera operaia; più in là vediamo porte ornate di enormi chiodi, dove il genio dei nostri antenati ha tracciato geroglifici il cui senso non si ritroverà mai più. Talvolta un protestante vi ha confermato la propria fede, talaltra un fautore della Lega vi ha maledetto Enrico IV, qualche borghese vi ha inciso le insegne della propria nobiltà comunale, la gloria della decaduta autorità di scabino. La storia di Francia è là tutt’intera. A fianco della traballante casupola di pietre e calce in cui l’artigiano ha deificato la sua pialla, s’innalza il palazzo di un gentiluomo: sulla centina dell’arco di pietra si scorgono ancora tracce delle sue armi, infrante dalle varie rivoluzioni che dal 1789 in poi hanno sconvolto il paese.
In questa strada, i locali a pianterreno in cui si svolge il commercio non sono né botteghe né magazzini; gli amanti del medioevo vi troverebbero il «lavoratoio» dei nostri padri in tutta la sua ingenua semplicità. Quelle stanze basse, che non hanno né vetrina né mostra né vetri, sono profonde, tenebrose e prive di ornamenti sia all’esterno che all’interno. La porta si apre in due battenti pieni, rozzamente rinforzati da liste di ferro; e il battente superiore si ripiega verso l’interno, mentre quello inferiore, munito di un campanello a molla, va e viene senza posa. L’aria e la luce penetrano in quella specie di antro umido o dall’alto della porta, oppure dallo spazio esistente tra la volta, il pavimento e il muricciolo ad altezza di gomito, in cui s’incastrano solide imposte, tolte al mattino e rimesse e fissate la sera con spranghe di ferro inchiavardate, muricciolo che serve a esporre le mercanzie del negoziante. Il ciarlatanismo è assente da quei luoghi: a seconda del genere di commercio, le mostre consistono in due o tre tinozze colme di sale o di merluzzo, qualche pezza di tela da vele, cordame, ottonami appesi ai travicelli del soffitto, qualche cerchio di botte lungo le pareti o qualche scampolo di stoffa negli scaffali. Se entrate, una ragazza pulita, fiorente di giovinezza, dal fisciù bianco, dalle braccia rosse, abbandona il lavoro a maglia e chiama il padre o la madre, che viene e vi vende ciò che desiderate, con flemma, con cortesia, arrogantemente, secondo il proprio carattere, sia per due soldi, sia per ventimila franchi di merci.
Vedrete un mercante di rovere seduto sulla soglia, occupato a rigirare i pollici mentre chiacchiera con un vicino; in apparenza egli non possiede che qualche palchetto sgangherato per riporvi le bottiglie e due o tre fasci di travetti; ma giù al porto, il suo cantiere colmo rifornisce tutti i bottai dell’Anjou; egli sa, con quasi assoluta precisione, quante botti si faranno, se la vendemmia è buona; una giornata di sole l’arricchisce, un tempo piovoso lo rovina: in una sola mattinata, le botti valgono undici franchi o cadono a sei lire. In questo paese, così come in Turenna, le vicissitudini atmosferiche dominano, infatti, la vita commerciale. Vignaioli, possidenti, mercanti di legname, bottai, albergatori, marinai, sono tutti all’agguato di un raggio di sole; la sera, quando vanno a letto, paventano di apprendere l’indomani mattina che durante la notte è gelato; temono la pioggia, il vento, la siccità, ed esigono l’acqua, il caldo e le nuvole a loro piacimento. Un perenne duello si svolge fra il cielo e gli interessi terrestri: a volta a volta il barometro rattrista, spiana, rallegra le fisionomie, e da un capo all’altro di questa strada, l’antica Grande Strada di Saumur, le parole: «Ecco un tempo d’oro!», si trasmettono di porta in porta. Perciò ciascuno risponde al vicino: «Piovono i luigi!», sapendo quanto gli rendano un raggio di sole o un acquazzone tempestivo.
Il sabato verso mezzogiorno, nella bella stagione, non otterreste neppure un soldo di merce da questi bravi industriali: ciascuno possiede la propria vigna, il proprio poderetto, e va a trascorrere due giorni in campagna.
In questi luoghi, essendo tutto previsto, la compera, la vendita e il profitto, i commercianti dispongono di dieci ore su dodici da impiegare in allegre riunioni, in osservazioni, commenti, spionaggi continui. Una massaia non può comprare una pernice senza che i vicini domandino poi al marito se era cotta a puntino; una ragazza non può affacciarsi alla finestra senza esser notata da tutti i gruppetti di sfaccendati. Le coscienze sono quindi esposte alla luce del sole, così come queste case impenetrabili, cupe e silenziose: non hanno misteri. La vita si svolge quasi sempre all’aperto: ogni famiglia siede sulla soglia, e quivi pranza, cena, litiga. Per la strada non può passare alcuno senza essere oggetto di uno studio accurato; e un tempo, quando uno straniero arrivava in una città di provincia, veniva canzonato di porta in porta. Di qui le storielle allegre, di qui il soprannome di copieux1 dato agli abitanti di Angers, che eccellevano in queste prese in giro urbane.
Gli antichi palazzi della città vecchia sono situati in cima a questa strada, un tempo abitata dall’aristocrazia del paese. La casa piena di malinconia, in cui si sono svolte le vicende della storia che raccontiamo, era precisamente una di queste abitazioni, venerabile superstite di un secolo nel quale le cose e gli uomini possedevano quel carattere di semplicità che i costumi francesi vanno perdendo di giorno in giorno. Dopo aver seguito le svolte di questa via pittoresca, i cui minimi particolari risvegliano un ricordo e il cui aspetto generale tende a sommergervi in una specie di fantasticheria meccanica, scorgete una rientranza tenebrosa, al centro della quale si nasconde il portone della casa del signor Grandet. Non è possibile comprendere il valore di questa espressione provinciale senza fare la biografia del signor Grandet.
Grandet godeva a Saumur di una reputazione le cui cause ed effetti non potranno essere valutati in tutta la loro estensione da coloro che non siano mai vissuti in provincia. Grandet, ancora chiamato da certuni papà Grandet – però il numero di questi vecchi diminuiva sensibilmente – nel 1789 era un mastro bottaio molto agiato, che sapeva leggere, scrivere e far di conto. Quando la Repubblica francese mise in vendita i beni del clero del circondario di Saumur, il bottaio, allora quarantenne, aveva appena sposato la figlia di un ricco mercante di legname. Grandet, munito del suo patrimonio liquido e della dote, cioè di duemila luigi d’oro, si recò al distretto, dove, grazie a duecento doppi luigi offerti dal suocero al fiero repubblicano che sovrintendeva alla vendita dei beni nazionali, ottenne per un pezzo di pane, legalmente se non legittimamente, i più bei vigneti del circondario, una vecchia abbazia e qualche podere. Poiché gli abitanti di Saumur erano poco rivoluzionari, papà Grandet fu considerato un uomo ardito, un repubblicano, un patriota, uno spirito che si buttava sulle nuove idee, mentre il bottaio si buttava semplicemente sulle vigne. Egli fu nominato membro dell’amministrazione del distretto di Saumur, e la sua influenza pacifica vi si fece sentire politicamente e commercialmente: politicamente, protesse i realisti e impedì con tutto il suo potere la vendita dei beni degli emigrati; commercialmente, fornì alle armate repubblicane una o due migliaia di botti di vino bianco, facendosi pagare con alcune superbe praterie dipendenti da una comunità femminile e che erano state riservate quale ultimo lotto. Sotto il Consolato il buon Grandet divenne sindaco, amministrò saggiamente, vendemmiò ancor meglio; sotto l’Impero fu il Signor Grandet. Ma Napoleone non amava i repubblicani, e sostituì quindi Grandet, che a quanto si diceva aveva portato il berretto frigio, con un grande proprietario, un individuo dal prefisso nobiliare, un futuro barone dell’Impero.
Grandet abbandonò senza rimpianti gli onori municipali. Egli aveva fatto costruire, a vantaggio della città, ottime strade che conducevano alle sue terre. La sua casa e i suoi beni, vantaggiosamente denunciati al catasto, pagavano imposte moderate: inoltre, dopo la sistemazione dei suoi diversi poderi, le vigne, grazie alle cure costanti, erano divenute “la testa del paese”, termine tecnico usato per indicare i vigneti che producevano la miglior qualità di vino. Egli avrebbe quindi potuto aspirare alla croce della Legion d’onore.
Questo avvenimento si produsse nel 1807. Grandet aveva allora cinquantasette anni, e sua moglie circa trentasei; l’unica figlia, frutto del loro legittimo amore, aveva dieci anni. Grandet, che la Provvidenza volle senza dubbio consolare della sconfitta amministrativa, nel corso dell’anno ereditò successivamente dalla signora della Gaudinière, nata La Bertellière, madre della signora Grandet; poi dal vecchio La Bertellière, padre della predetta defunta; e ancora dalla signora Gentillet, nonna materna: tre eredità la cui importanza non fu conosciuta da nessuno. L’avarizia di quei tre vecchi era così appassionata, che da lungo tempo essi ammucchiavano il loro denaro per poterselo contemplare di nascosto: il vecchio La Bertellière soleva dire, infatti, che un investimento di denaro era una prodigalità, trovando maggiore interesse nella vista dell’oro che nei guadagni dell’usura.
La città di Saumur calcolò quindi il valore delle economie dal reddito dei beni al sole; Grandet ottenne allora il nuovo tipo di nobiltà che la nostra mania di eguaglianza non cancellerà mai: diventò il più tassato nel circondario. Coltivava cento jugeri di vigna che nelle annate abbondanti gli davano da sette a ottocento botti di vino; possedeva tredici fattorie a mezzadria, un’abbazia antica, dove per economia aveva murato le finestre, le ogive e le vetrate, il che valse a conservarle, e centoventisette jugeri di prato dove crescevano e prosperavano tremila pioppi piantati nel 1793; infine, la casa in cui dimorava era sua.
In tal modo si calcolava il suo patrimonio visibile. Quanto ai capitali, due persone soltanto potevano vagamente presumerne l’importanza: una di queste era il notaio Cruchot, incaricato degli investimenti a usura del signor Grandet; l’altra, il signor de’ Grassins, il più ricco banchiere di Saumur, ai guadagni del quale il vignaiolo partecipava vantaggiosamente, e in gran segreto. Benché il vecchio Cruchot e il signor de’ Grassins possedessero quell’assoluta discrezione che in provincia genera fiducia e ricchezza, essi testimoniavano pubblicamente al signor Grandet un tale rispetto, che gli osservatori potevano valutare l’importanza dei capitali dell’antico sindaco, basandosi sulla portata della considerazione ossequiosa di cui era oggetto. Non v’era alcuno in Saumur il quale non fosse persuaso che il signor Grandet possedesse un tesoro personale, un nascondiglio pieno di luigi, e si concedesse, la notte, le ineffabili gioie provocate dalla visione d’un cumulo d’oro; gli avari ne sentivano in un certo senso la certezza, osservando gli occhi del loro uomo, ai quali il giallo metallo sembrava avesse comunicato il proprio colore. Lo sguardo di un uomo abituato a trarre dai propri capitali un interesse enorme, contrae fatalmente, così come quello del lussurioso, del giocatore o del cortigiano, abitudini indefinibili, moti furtivi; avidi, misteriosi, che non sfuggono ai suoi correligionari: questo linguaggio segreto costituisce in un certo senso la massoneria delle passioni.
Grandet ispirava dunque la rispettosa considerazione alla quale aveva diritto un uomo che non doveva mai nulla a nessuno; che, vecchio bottaio, vecchio vignaiolo, indovinava con la precisione di un astronomo quando occorreva fabbricare mille fusti per il suo raccolto o soltanto cinquecento; che non si lasciava sfuggire una sola speculazione, aveva sempre botti da vendere quando la botte valeva più del prodotto che conteneva, poteva mettere il raccolto della vendemmia nelle cantine e aspettare il momento di vendere una delle botti a duecento franchi, quando i piccoli proprietari ne davano una delle loro per cinque luigi. Il suo famoso raccolto del 1811, saggiamente immagazzinato, venduto lentamente, gli aveva così fruttato più di duecentoquarantamila lire.
Finanziariamente parlando, Grandet aveva un po’ della tigre e un po’ del serpente boa: sapeva acquattarsi, rannicchiarsi, adocchiare a lungo la preda, saltarle addosso; poi apriva le fauci della borsa, inghiottiva un carico di scudi, e si sdraiava tranquillamente come il serpente che compie la propria digestione, impassibile, freddo, metodico.
Nessuno lo vedeva passare senza provare un senso di ammirazione misto a rispetto e a terrore. Chi non aveva provato, in Saumur, la garbata scalfittura dei suoi artigli d’acciaio? A costui, il notaio Cruchot aveva procurato il denaro necessario all’acquisto di un podere, ma all’undici per cento; a quell’altro, de’ Grassins aveva scontato alcune tratte, ma con uno spaventoso prelevamento d’interessi. Pochi giorni passavano senza che il nome del signor Grandet venisse pronunciato, sia al mercato, sia durante le serate, nelle ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- BALZAC - di Stefan Zweig
- CRONOLOGIA
- BIBLIOGRAFIA
- EUGENIA GRANDET