Capitolo 1
«Non puoi restare qui. Capisci quello che dico?»
La poliziotta continuava a ripetermi questa frase, scandendo bene le parole.
Avevo inteso benissimo quello che mi stava dicendo anche se non parlavo bene l’italiano, ma lei insisteva:
«Se in questo Paese non c’è nessuno che ti ospita, ti dobbiamo rimandare a casa». Fece un cenno con la mano come a dire «via».
Provai a spiegarle in inglese che un ragazzo mi aspettava all’uscita dell’aeroporto, che doveva lasciarmi uscire dalla sala della dogana: se mi tratteneva lì, lui non mi avrebbe mai trovata. Ma lei non mi capiva; si limitava a fissarmi, finché a un certo punto non si girò spazientita verso un suo giovane collega, che se ne stava in disparte e aveva un’aria più gentile:
«Prova a vedere se riesci a parlarci tu».
Il giovane si fece avanti timidamente e cominciò a dire qualcosa che suonava come inglese ma inglese non era. Comunque il senso lo avevo afferrato: volevano rimettermi su un aereo e rispedirmi a Praga, dopo appena quattro ore che ero atterrata a Roma.
Dovevo tentare di spiegarmi: c’era una persona per me lì fuori, se solo mi avessero fatto uscire dalla dogana.
La donna mi guardò e mi rise in faccia:
«Un ragazzo? Magari un italiano, che viene qui a prenderti col suo cavallo bianco! Povera illusa! Non c’è nessun ragazzo che ti aspetta là fuori».
Non compresi il senso preciso di quelle parole, ma ne colsi il sarcasmo aggressivo e insolente.
Da subito, appena era venuta da me per i controlli di routine, mi era sembrata sgarbata. Era bassa e massiccia, tutta rigida nella sua divisa, e i suoi lineamenti squadrati e contratti la facevano assomigliare a un bulldog. Mi aveva esaminato dall’alto in basso: una ragazzina di diciotto anni, completamente sola. Mi aveva chiesto dove avrei soggiornato, e quando aveva scoperto che non lo sapevo, mi aveva lasciato intendere senza mezzi termini che per lei ero solo una grossa seccatura. Adesso si prendeva anche gioco di me, abusando del suo potere.
Il collega provò a rabbonirla e intuii quello che le stava dicendo:
«Posso andare a controllare se fuori c’è effettivamente un ragazzo che l’aspetta. Magari dice la verità».
Lei gli fece intendere di fare come voleva.
«Vedrai che non c’è nessuno! E adesso, principessa, vedi di metterti qui senza fare storie.» Mi strattonò per un braccio e mi indicò una panchina. Mi ci lasciai cadere sopra stremata, convinta che prima o poi sarebbe venuta fuori una soluzione, che il suo collega sarebbe riuscito a trovare il mio amico.
Avevo conosciuto Giovanni a Praga, ci eravamo frequentati per un mese ed era stato lui a mettermi in testa l’Italia: mi raccontava di Roma, la città in cui era nato e viveva, come di un luogo pieno di possibilità. Mi convinse a partire, appena raggiunta la maggiore età, promettendomi che non sarei stata sola: lui si sarebbe preso cura di me. L’unica cosa che volevo, in quel momento della mia vita, era andarmene da Praga: scelsi Roma perché avevo incontrato Giovanni, ma se avessi incontrato un inglese sarei andata a Londra. Se non avessi incontrato nessuno, avrei scelto un altro posto tirando a sorte. A ogni modo, le cose erano andate così e adesso mi ritrovavo bloccata alla dogana di Fiumicino.
Seduta su quella maledetta panca, fissavo la porta con ansia, aspettando che il poliziotto tornasse con una buona notizia.
«Non c’è nessun Giovanni, mi dispiace» mi disse infine, scuotendo la testa.
Non era possibile! Forse era in ritardo, forse aveva avuto un contrattempo e non era riuscito ad avvisarmi. Chiesi al ragazzo di tornare fuori e di cercare meglio. Provai a spiegare che magari sarei potuta andare con lui, oppure che dovevano sistemarmi in un posto ben visibile, perché prima o poi il mio amico sarebbe venuto a cercarmi. La poliziotta rise di nuovo e riuscii a capire benissimo quello che mi stava dicendo con strafottenza:
«Tu non ti muovi di qui, intesi? Ti mettiamo sul primo aereo e te ne torni a casa. Ce l’avrai una famiglia, no?».
«Il prossimo volo per Praga è comunque domattina» si intromise il collega. «Aspettiamo: magari questo Giovanni ha capito male a che ora sarebbe atterrato il suo volo.»
«O magari si è perso!» lo canzonò la donna. Capii che lo invitava a cercare ancora, se proprio voleva, ma intanto io sarei rimasta con lei e il giorno dopo sarei dovuta ripartire.
Il poliziotto tentò di tranquillizzarmi facendomi segno che avrebbe dato un’altra occhiata in giro. La poliziotta invece continuava a fissarmi torva: il suo modo di trattarmi mi umiliava. Sembrava ci prendesse gusto a mettermi a disagio: mi aveva anche perquisita, trattandomi come una pericolosa delinquente, come se avessi intenzione di scappare o di far scoppiare una bomba.
Col passare delle ore la situazione non cambiò. Alla fine avevo dovuto arrendermi all’evidenza: di Giovanni nessuna traccia, non sarebbe più venuto. Mi era chiaro adesso che mi aveva ingannata: non aveva mai avuto intenzione di aiutarmi a realizzare i miei obiettivi e a trovare la mia strada in Italia. Forse avrei dovuto sospettarlo già prima, quando non mi aveva neppure lasciato un indirizzo a cui raggiungerlo. Nemmeno uno falso.
Così fui costretta a passare la notte sulla panchina di una saletta dove il poliziotto mi accompagnò; per fortuna, la sua collega aveva finito il turno. La delusione era cocente; avevo riposto tante speranze nel mio trasferimento in Italia. Quando mi ero imbarcata sul volo quella mattina avevo detto addio al mio passato, sicura che quello fosse un nuovo inizio. E adesso? Dopo ventidue ore prigioniera nella dogana di Fiumicino, in Italia, nel Paese reale che stava fuori dall’aeroporto, non ero riuscita nemmeno a metterci piede.
Fui rimpatriata, ma presto ebbi la mia rivincita. Da Praga partiva un pullman turistico che arrivava fino a Roma. Avevo speso quasi tutto quello che avevo per quel primo viaggio a vuoto, perciò dovetti velocemente mettere insieme i soldi per il nuovo biglietto con qualche lavoro qua e là.
Dopo un viaggio che mi sembrò interminabile, raggiunsi l’Italia per la seconda volta. Il capolinea dei pullman era vicino alla stazione Termini. Mentre ci avvicinavamo, studiavo la città dal finestrino: stava venendo buio e mille luci iniziavano ad accendersi. Dopo tutto, era simile ad altre città. Non dovevo avere paura, mi ripetevo: anche se ero molto giovane, avevo alle spalle una guerra e avevo già sperimentato uno stravolgimento totale delle mie abitudini di vita. Cosa poteva spaventarmi di più?
Raggiunsi a piedi l’atrio della stazione, un imponente edificio bianco a forma di balena illuminato a giorno. Presto sarebbe scesa la notte e avevo bisogno di trovare una sistemazione. La stazione pullulava ancora di gente che si affrettava verso i binari. Mi mescolai ai pendolari e trovai un posto libero sulla panca di una banchina: dovevo sedermi e pensare a un piano. Una folata di aria autunnale mi investì facendomi rabbrividire. Mi strinsi le braccia al petto.
Accanto a me si sedette una donna sulla sessantina, una di quelle che non resistono ad attaccare bottone con gli estranei. Continuava a sorridermi: forse non le era abbastanza chiaro che ero straniera e che con me non avrebbe avuto un gran successo. Pensai di chiedere a lei se conosceva un albergo economico, ma quando feci per aprire bocca, lei lo prese come un inizio di conversazione e mi investì con le sue chiacchiere incomprensibili. Provai a spiegarle che avevo bisogno di una sistemazione, ma sembrava non cogliere nemmeno la parola «hotel». Per mezz’ora continuò a raccontarmi la sua vita – o almeno credo si trattasse di quello – finché finalmente arrivò il suo treno. Iniziavo a sentirmi davvero stanca, avevo bisogno di dormire e a quel punto decisi che avrei fatto da me, che mi sarei trovata un albergo da sola, senza l’aiuto di nessuno. Intanto dovevo uscire dalla stazione, che iniziava a riempirsi di personaggi con cui non volevo avere a che fare: barboni, individui loschi, disperati di ogni tipo.
La zona lì attorno era prevedibilmente turistica, piena di piccole pensioni, ristoranti e caffè. Mi infilai nel primo hotel che dall’esterno sembrava decente e chiesi una stanza. Il portiere aveva la stessa aria scalcinata della reception e non mi feci molte illusioni su come potessero essere le camere.
La mia stanza era al secondo piano, alla fine di un corridoio mal illuminato, stretta e con un’unica fioca lampadina. Nonostante la penombra, vidi subito che il copriletto era cosparso di macchie e così lo tolsi di mezzo stendendomi vestita sulle lenzuola. Mi rannicchiai stringendomi nel giaccone e tirandomi il cappuccio fin sopra agli occhi. Per un po’ rimasi in ascolto: dalle altre stanze arrivavano voci e sospiri; le pareti sembravano di carta. Ogni tanto qualcuno percorreva rumorosamente il corridoio, forse un ubriaco; per fortuna avevo chiuso a chiave. Appena rilassai un poco i nervi, sprofondai in un sonno denso come il petrolio.
Dopo la seconda notte in quell’albergo riuscii a trovare una camera in affitto: la stanza era molto piccola, senza finestre e con una specie di oblò che dava sul corridoio interno. L’aria era stagnante e l’unica luce veniva da una brutta lampada. La padrona di casa mi indicò una brandina poggiata contro la parete e disse soltanto: «Questo è il letto». Poi accennò alla sedia e all’appendiabiti fissato al muro, dove potevo sistemare le mie cose. Non che nel resto dell’appartamento la situazione fosse diversa: da quel poco che avevo potuto vedere, la casa doveva aver conosciuto tempi migliori, qualche decennio prima. Un odore pesante regnava ovunque, un misto di polvere e frittura.
Dissi alla signora che andava bene: non avevo nessuna intenzione di passare una terza notte in quell’hotel pieno di prostitute e alcolizzati e già mi pareva un miracolo aver trovato questo buco in affitto.
A dire la verità era stata la donna a trovare me. Mi si era avvicinata quella mattina mentre ero fuori dalla stazione con una cartina della città in mano. Non doveva essere anziana come sembrava, ma era piuttosto trasandata. Aveva due buste di plastica al braccio e un vestito a fiorellini che spuntava da sotto il cappotto liso. Si era accostata e mi aveva squadrato. Doveva aver pensato che fossi una giovane turista squattrinata o una studentessa in cerca di alloggio a buon mercato. Mi aveva fatto capire che aveva un letto da offrirmi e l’avevo seguita fino a casa sua, al quarto piano di un palazzo. Dopo avermi mostrato la stanza scrisse su un foglio una cifra che doveva essere l’affitto di un mese e se ne andò in cucina.
Mi chiusi la porta alle spalle e mi guardai attorno: lo squallore di quel posto era decisamente deprimente, ma almeno avevo un tetto sulla testa.
Buttai la valigia sul letto, e iniziai a tirare fuori alcune cose, ma non feci in tempo a sistemarle che la donna tornò da me. Entrò senza bussare e mi condusse in cucina con lei. Sulla tavola c’erano due piatti di minestra. Con gesti bruschi mi invitò a sedermi e a mangiare.
«Non ti ci abituare» mi sembrò che dicesse. «Questa è la prima e ultima volta.»
Mangiò velocemente, senza dire una parola. Quando mi alzai per tornare in camera, si accertò che avessi capito bene quali erano i patti: fece un gesto strusciando fra loro il pollice e l’indice. L’affitto da pagare. Dovevo cercarmi subito un lavoro, prima di perdere questa sistemazione.
Passai il pomeriggio in giro per il quartiere, chiedendo a tutti i locali per turisti se qualcuno avesse bisogno di una cameriera che parlava bene l’inglese. Ma appena i proprietari sentivano il mio italiano, scuotevano sbrigativamente la testa. Quante volte avrò visto la stessa scena? Stavo quasi per demordere quando fui presa in un baretto frequentato soprattutto da stranieri. Il gestore mi fece due o tre domande frettolose, si assicurò che il mio inglese fosse fluente e mi mise subito a lavorare. Una delle cameriere si era rotta un braccio e non sarebbe tornata prima di qualche settimana. Sembrava contento quanto me di aver trovato qualcuno. Corsi freneticamente avanti e indietro tutta la sera, stordita dalla confusione ma ansiosa di dimostrarmi all’altezza.
Quando tornai a casa dopo il primo turno di lavoro, avevo un paio di banconote in tasca e la schiena rotta. Tre giorni in Italia e mi sentivo già sfinita. Eppure volevo restare, a qualunque costo: sapevo che non mi sarei accontentata di lavoretti temporanei, non mi sarebbero bastati pochi spiccioli per sopravvivere. Volevo di più: l’opportunità di fare qualcosa di importante nella mia vita. Avevo lasciato Praga e la mia famiglia perché avevo intravisto una possibilità di trovare la mia strada e di non trovarmi più in balia degli eventi. Ma per quello ci sarebbe voluto tempo e per il momento non potevo far altro che mettere da parte le mie ambizioni e stringere i denti.
Mi buttai sul letto, accanto alla valigia che non ebbi la forza di spostare. Tra i vestiti spuntava un album di fotografie che avevo portato con me. Lo tirai fuori; mi misi seduta e lo poggiai sulle ginocchia: accarezzai lentamente la pelle rossa della rilegatura, seguendo con le dita le screpolature causate dal tempo. Gli angoli erano consumati e sulla copertina c’era un’iscrizione in arabo. Era un album molto vecchio, con le pagine ingiallite e immagini in bianco e nero velate dalla patina degli anni. Era tutto ciò che rimaneva delle mie radici. Lo aprii.
Conoscevo bene la prima fotografia. C’era un uomo, al centro, con una barba curata. Portava un vestito di foggia orientale, una tunica bianca. Stava in piedi davanti a un bancone di pietra addossato al muro e teneva una mano posata sul piano, dove erano disposti un narghilè, vassoi d’argento pieni di dolciumi e datteri e alcune ceste colme di frutta. Alle sue spalle c’era una specie di focolare che terminava con una cappa; sul braciere era poggiata una teiera panciuta. Accanto, alcune mensole di legno su cui erano allineati bicchierini da tè di vetro colorato, caraffe in argento lavorato, alcune stoviglie e grandi barattoli di latta che dovevano contenere il tè.
Per come era tagliata l’inquadratura, non si riusciva a vedere molto del luogo, ma so che si trattava della caffetteria di proprietà dell’uomo della foto, un locale di ristoro per i viaggiatori e i commercianti di passaggio.
Staccai l’immagine con delicatezza e la girai. Sul retro c’era una scritta: «Baghdad, 1937. Ahmad Nouri Abd El Karim El Azzawi».
Quell’uomo era mio nonno.
All’epoca della foto, era piuttosto giovane, aveva una ventina d’anni e da come teneva dritte le spalle si intuiva che doveva essere orgoglioso di ciò che aveva creato. Glielo si leggeva anche nello sguardo: due occhi scuri e attenti che facevano capolino da sotto il copricapo chiaro, fermato sulla fronte da un cordone nero. C’era qualcosa di caldo e penetrante nell’espressione del suo viso, che contrastava con la rigidità un po’ goffa del corpo: non doveva essersi trovato a suo agio, nella posa in cui lo aveva costretto il fotografo. E tuttavia la sua figura era lo stesso imponente, emanava un’eleganza antica.
Quella foto aveva sempre avuto su di me un effetto rassicurante. Mio nonno sembrava un re, davanti al bancone del suo locale. Ricordo che da bambina, quando mio padre me la mostrò per la prima volta, la guardai incantata. Negli anni della mia infanzia, adoravo farmi narrare la favola di come il nonno aveva creato un luogo dove i destini delle persone si incrociavano. Quell’album, che incredibilmente era arrivato fino a me, conservava i molti ricordi di quell’avventura ed era capace di raccontare. Bastava sfogliarlo.
C’erano tanti altri scatti, ma la mia preferita restava comunque la prima fotografia.
Non sapevo cosa avesse di particolare, ma la sera in cui la presi in mano in quella misera stanzetta nel cuore di Roma capii finalmente perché mi aveva sempre fatto così bene al cuore. Era la fiducia nel futuro che leggevo sul volto di mio nonno. Un uomo giovane, che guarda avanti a sé, che si aspetta molto dal futuro e sa che la vita non lo deluderà.
Capitolo 2
Mio nonno Ahmad era figlio di un ricco commerciante della città. Era una stirpe nobile, la sua: suo nonno, El Azzawi, era uno sceicco, un uomo autorevole che i rappresentanti delle famiglie più importanti della città andavano a consultare ogni volta che c’era una controversia da dirimere. Per la sua grande saggezza, quando morì, decisero di dedicare alla sua memoria un intero quartiere di Baghdad, che da allora prese il suo nome. I suoi parenti, che continuarono a vivere lì, furono sempre rispettati e stimati da tutti. Nouri Abd El Karim, il padre di Ahmad, aveva ereditato assieme ai fratelli un’attività redditizia: smistavano ingenti partite di merci che provenivano dal nord dell’Iraq, dalla Turchia e dalla Siria. Nei magazzini di El Azzawi transitavano ogni anno centinaia di sacchi di granaglie, tappeti meravigliosi e i tessuti più raffinati del Paese.
Erano molto abili ma fecero la loro fortuna anche grazie al crollo dell’Impero ottomano, che favorì lo sviluppo di Baghdad. Nel 1921 l’Iraq era divenuto un regno autonomo sotto il controllo britannico e gli inglesi fecero di tutto per agevolare i traffici di merci da e verso l’Oriente: aprirono strade, costruirono ...