Racconti del terrore
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Racconti del terrore

  1. 182 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Racconti del terrore

Informazioni su questo libro

Se credete di conoscere il terrore, l'odore acre della paura, il brivido nato dall'orrore, è solo perché non avete ancora letto questo libro.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817068178
eBook ISBN
9788858658598

Il crollo della casa degli Usher

Son coeur est un luth suspendu;
sitôt qu’on le touche il résonne1
BÉRANGER2
In un giorno triste, cupo, senza suono, verso il finire dell’anno, un giorno in cui le nubi pendevano basse in cielo, io avevo attraversato solo, a cavallo, un tratto di regione stranamente desolato, finché ero venuto a trovarmi, mentre già si addensavano le ombre della sera, in prossimità della malinconica casa degli Usher. Non so come fu ma, al primo sguardo che diedi all’edificio, un senso intollerabile di abbattimento invase il mio spirito. Dico intollerabile poiché questo sentimento non era alleviato per nulla da quel sentimento quasi poetico con il quale di solito l’animo accoglie anche le più tetre immagini di desolazione o di terrore. Contemplai la scena che mi si apriva davanti: la casa, l’aspetto della tenuta, i muri squallidi, le finestre simili a occhiaie vuote, i pochi giunchi maleodoranti, alcuni bianchi tronchi d’albero ricoperti di muffa; contemplai ogni cosa con una tale depressione che non saprei paragonarla ad alcuna sensazione umana se non al risveglio del fumatore d’oppio, l’amaro ritorno alla vita quotidiana, il pauroso squarciarsi del velo. Sentivo attorno a me una freddezza, uno scoramento, una nausea, una tale stanchezza mentale che nessun pungolo dell’immaginazione avrebbe saputo trasformare ed esaltare in qualcosa di sublime. Che cos’era, mi soffermai a riflettere, che cos’era che tanto mi immalinconiva nella contemplazione della casa degli Usher? Era un mistero del tutto insolubile; né riuscivo ad afferrare le incorporee fantasticherie che si affollavano intorno a me mentre così meditavo. Fui costretto a fermarmi sulla insoddisfacente conclusione che mentre, senza dubbio, esistono combinazioni di oggetti naturali e semplicissimi che hanno il potere di influenzarci, tuttavia l’analisi di questo potere sta in considerazioni che superano la nostra portata. Poteva darsi, riflettei, che una piccola diversità nella disposizione dei particolari della scena, o in quelli del quadro sarebbe bastata a modificare, o fors’anche ad annullare la sua capacità a impressionarmi penosamente; e agendo sotto l’influsso di questo pensiero frenai il mio cavallo sull’orlo scosceso di un oscuro e livido lago artificiale che si stendeva con la sua levigata e lucida superficie in prossimità dell’abitazione, e affisai lo sguardo, con un brivido però che mi scosse ancor più di prima, sulle immagini rimodellate e deformate dei grigi giunchi, degli spettrali tronchi d’albero, delle finestre aperte come vuote occhiaie.
Eppure in questa lugubre casa io ora mi proponevo di soggiornare per alcune settimane. Il suo proprietario, Roderico Usher, era stato uno dei miei allegri compagni di infanzia, ma molti anni erano trascorsi dal nostro ultimo incontro. Una sua lettera mi aveva tuttavia raggiunto in un luogo remoto del paese, una lettera che, dato il carattere insistentemente importuno del mittente, non ammetteva risposta che di persona. Questo scritto rivelava una viva agitazione nervosa. Usher parlava di una grave malattia fisica, di un disordine mentale che l’opprimeva, e di un impaziente desiderio di vedermi, essendo io il suo migliore, anzi il suo unico amico intimo, nella speranza di ottenere un sollievo al proprio male grazie alla serenità della mia presenza. Era il modo con cui tutto ciò, e molt’altro ancora, era detto, era il cuore che apparentemente accompagnava una tale richiesta, che non mi permise di esitare; ecco perché avevo obbedito senza indugio a quella che seguitavo a considerare tuttora come una piuttosto strana ingiunzione.
Benché da ragazzi fossimo stati direi persino intimi, in realtà io sapevo assai poco del mio amico. La sua riservatezza era sempre stata eccessiva. Sapevo però che la sua famiglia, di origine antichissima, era sempre stata conosciuta per una particolare sensibilità che si era manifestata attraverso gli anni in molte opere di un’arte esaltata, e si era recentemente rivelata in ripetute e munifiche elargizioni benefiche, per quanto discrete, come pure in un fervore appassionato per le complicazioni, quasi più che per le bellezze ortodosse e facilmente riconoscibili, della scienza musicale. Ero pure al corrente di un particolare assai notevole, che cioè la stirpe degli Usher, pur antica come era, non aveva mai fatto germogliare alcun ramo duraturo; in altre parole la discendenza dell’intera famiglia si era tramandata sempre in linea diretta, e questo sin dai tempi più remoti, a eccezione di qualche variante trascurabile e del tutto temporanea. Era forse questa mancanza, rimuginavo mentre riandavo col pensiero all’accordo perfetto tra il carattere del luogo e il carattere universalmente noto delle persone che vi abitavano (e intanto riflettevo sul possibile influsso che il primo, nel così lungo trascorrere dei secoli, poteva aver esercitato sul secondo), era forse questa mancanza di rami collaterali e la conseguente invariata trasmissione diretta da padre in figlio del patrimonio col nome, ad avere talmente identificate le due cose, il luogo e la famiglia, da confondere il titolo originario della proprietà nello strano ed equivoco appellativo di “Casa degli Usher”, un appellativo che sembrava racchiudere, nella mente del contadiname che lo usava, tanto la casata quanto il maniero di famiglia.
Già ho detto che il solo risultato del mio esperimento alquanto infantile, di fissare lo sguardo nelle cupe acque dello stagno, era stato quello di peggiorare la mia prima curiosa impressione. Non può esservi alcun dubbio che la consapevolezza del rapido aumentare della mia superstizione, – infatti, per quale motivo dovrei definirla altrimenti? – era stata la causa principale di quest’aumento. Tale, lo sapevo da tempo, è l’assurda legge di tutti i sentimenti che hanno come base il terrore. E poteva essere stato per questo motivo soltanto che, quando tornai ad alzare gli occhi verso la casa, distogliendoli dall’immagine di quella stessa casa riflessa nello stagno, subentrò nella mia mente un pensiero bizzarro, talmente bizzarro e paradossale, che lo riferisco unicamente per dimostrare quanto fosse intensa la forza delle sensazioni che mi opprimevano. Avevo esaltato la mia fantasia al punto di credere davvero che su tutta la dimora e sulla tenuta aleggiasse un’atmosfera propria solo di quella dimora e di quella tenuta e delle loro immediate vicinanze, atmosfera che non aveva alcuna affinità con l’aria del cielo, ma che si esalava dagli alberi ammuffiti, dal grigio muro, dal silenzioso stagno, come un vapore pestilenziale e mistico allo stesso tempo, opaco, lento, appena percettibile, soffuso di una sfumatura plumbea.
Scuotendomi via dall’animo quel che doveva essere stato un sogno, ripresi a osservare più da vicino l’aspetto reale dell’edificio. Il suo tratto più caratteristico sembrava quello di essere estremamente vecchio. Lo scolorimento esercitato dal tempo era stato enorme. Tutta la facciata esterna era ricoperta di una rete di funghi e muschi minutissima che pendeva dalle gronde come una intricata finissima ragnatela. Tutto ciò era nondimeno indipendente da un decadimento vero e proprio. La muratura era rimasta intatta, e sembrava esservi una strana incongruenza tra le parti ancora perfettamente unite della costruzione, e lo stato di rovina delle singole pietre. In questo elemento caratteristico vi era molto che mi ricordava l’aspetto complessivo tipico di una vecchia opera in legno che sia rimasta per lunghi anni a marcire in un sotterraneo abbandonato, senza essere in alcun modo intaccata dall’aria esterna. Ma oltre a questo indice di decadenza dell’insieme, la costruzione non rivelava gravi tracce di instabilità. Forse l’occhio di un osservatore attento avrebbe saputo distinguere una fessura appena percettibile che partendo dal tetto, sulla facciata dell’edificio, attraversava il muro in direzione obliqua sino a perdersi nelle imbronciate acque dello stagno.
Dopo aver notato tutte queste cose mi diressi verso la casa, lungo un breve viale selciato. Un domestico mi prese il cavallo, e io entrai sotto l’arcata gotica dell’ingresso. Un valletto dal passo felpato mi condusse da lì, silenziosamente, attraverso molti anditi bui, labirintici, sino allo studio1 del suo padrone. Molto di quel che incontrai sul mio cammino contribuì, non so perché, ad avvalorare quel senso di vaga paura cui già ho alluso. Mentre gli oggetti che mi circondavano, le decorazioni del soffitto, le fosche tappezzerie delle pareti, il nero d’ebano dei pavimenti, e i trofei allucinanti e le armature che vibravano al mio passaggio con secco rumore metallico, erano cose alle quali, anche se in un altro ambiente, io ero stato abituato sin dall’infanzia, mentre non esitavo a riconoscere l’aspetto familiare di tutti questi oggetti, continuavo tuttavia ad avvertire quanto estranee al mio spirito fossero invece le fantasie che queste immagini, pur note, evocavano in me.
Su una delle scale d’accesso incontrai il medico di famiglia. Ebbi l’impressione che il suo aspetto riflettesse un’espressione mista di bassa astuzia e di perplessità. Mi passò accanto trepidante e proseguì. Subito dopo il domestico spalancò un uscio e m’introdusse alla presenza del suo padrone.
La camera in cui mi trovai era molto ampia e altissima. Le finestre lunghe, strette, a sesto acuto, erano così in alto rispetto al pavimento di quercia nera da risultare del tutto irraggiungibili dall’interno. I deboli bagliori di una luce soffusa di vermiglio s’infiltravano attraverso i pannelli intrecciati e servivano a rendere sufficientemente distinti gli oggetti più in vista sparsi per la stanza; l’occhio si sforzava invano di raggiungere gli angoli più nascosti della stanza, o i recessi del soffitto a volta tutto adorno di fregi. Dalle pareti pendevano scuri drappeggi. Il mobilio era sovraccarico, scomodo, antico, in cattivo stato. Sparsi tutt’attorno giacevano molti libri e strumenti musicali, i quali non riuscivano però a dare alcuna vitalità alla scena. Ebbi l’impressione di respirare un’atmosfera di dolore. Un senso di tetraggine greve, profonda, irriducibile, pendeva su tutto e tutto permeava.
Al mio ingresso, Usher si alzò da un divano sul quale si trovava completamente sdraiato, e mi accolse con una vivacità e un calore in cui mi parve all’inizio di intuire una cordialità eccessiva, un poco troppo somigliante allo sforzo obbligato dell’uomo di mondo ennuyé1. Mi bastò tuttavia uno sguardo al suo viso per convincermi della sua perfetta sincerità. Ci mettemmo a sedere e rimanemmo in silenzio per qualche istanti, mentre io lo osservavo con un sentimento misto di pietà e quasi di paura. Certo non avevo mai visto nessuno che in un così breve lasso di tempo avesse subito una così spaventosa trasformazione quanto quella che vedevo in Roderico Usher! Faticavo ad ammettere anche con me stesso che quell’essere svanito che mi stava dinanzi era il compagno della mia prima giovinezza. Eppure il suo viso era sempre stato molto particolare. Una carnagione cadaverica; occhi grandi, liquidi, molto luminosi; labbra alquanto sottili e pallidissime, ma delineate con insuperabile perfezione; un naso delicato, di profilo ebraico, ma con un’ampiezza di narici insolita in modelli analoghi; un mento finemente cesellato che rivelava nella sua eccessiva rotondità una mancanza di carattere fermo; capelli di una leggerezza e di una sofficità addirittura vaporose; tutti questi tratti, insieme con un’espansione insolita delle regioni temporali, contribuivano a formare nel loro complesso una fisionomia che non era facile da dimenticare. Ed ecco che proprio nell’esagerazione del carattere prevalente di questi tratti, e dell’espressione che essi erano soliti rendere, consisteva l’enorme mutamento che mi faceva dubitare della identità di colui col quale stavo parlando. Ma soprattutto il pallore spettrale della pelle e la luminosità irreale dell’occhio mi colpì e persino mi impaurì più di ogni altra cosa. Anche i capelli simili a fili di seta erano stati lasciati crescere senza cura, e così scompigliati e ravviati alla meglio come se fossero intessuti di lievissimi fili di ragno, più che ricadere intorno al viso vi fluttuavano attorno, tanto da non permettermi, anche sforzandomi, di connettere quel loro aspetto confuso a una qualsiasi idea di umanità vera e propria.
In quanto ai modi del mio amico fui subito colpito da una specie di incoerenza, di inconsistenza, e ben presto mi accorsi che la mia impressione derivava da tutta una successione di deboli e vani tentativi per padroneggiare uno stato di trepidazione cronica, un’agitazione nervosa eccessiva. In realtà ero stato preparato a questo lato del suo carattere non tanto dalla sua lettera, quanto dalle reminiscenze di certe sue caratteristiche infantili e dalle conclusioni che avevo tratto dalla sua costituzione fisica e dal suo temperamento stranissimi. I suoi gesti erano a volte vivaci, a volte invece pigri e scontrosi. La sua voce passava rapidamente da un tono di tremula indecisione (allorché gli spiriti animali sembravano completamente soggiogati) a quella specie di concisione energica, quell’eloquio brusco, pesante, tardo, cavo, quella pronuncia plumbea, perfettamente equilibrata e modulata, gutturale, che si riscontra nel bevitore incorreggibile o nell’incallito fumatore d’oppio, nei momenti in cui l’eccitazione della droga è particolarmente intensa. Fu con questi accenti che egli mi parlò dello scopo della mia visita, del suo ardente desiderio di vedermi e del conforto che si riprometteva da me. Si dilungò quindi a descrivermi quello che secondo lui era il carattere della sua malattia. Si trattava, mi spiegò, di un male fisico ed ereditario, al quale aveva perso le speranze di trovare un rimedio; una semplice malattia nervosa, si affrettò ad aggiungere, che senza dubbio sarebbe ben presto scomparsa. Questo disturbo si manifestava con una sequenza di sensazioni innaturali: e alcune tra queste, a mano a mano che egli me le elencava, mi interessavano e mi stupivano, benché forse il loro effetto fosse tutto solo nelle parole e nel tono generale della narrazione. Usher soffriva di una grave ipersensibilità morbosa; poteva sopportare soltanto il cibo più insipido; poteva indossare soltanto indumenti di un certo tessuto; il profumo di qualsiasi fiore gli era intollerabile; anche la luce più debole era una tortura per i suoi occhi, e non vi erano che pochi suoni speciali, e soltanto quelli di alcuni strumenti a corda, che non lo riempissero di orrore.
Mi resi conto che era schiavo, legato mani e piedi, di una forma anomala di terrore.
«Io morirò» mi disse, «dovrò morire in questa disperata follia. Così, così, non altrimenti, mi perderò. Temo gli avvenimenti del futuro non di per se stessi, ma per i loro risultati. Rabbrividisco al pensiero di un fatto qualsiasi, anche il più comune che possa operare su questa agitazione intollerabile del mio spirito. In realtà non rifuggo dal pericolo, se non nel suo effetto assoluto, cioè il terrore. In questo stato di smarrimento dei nervi, in questa pietosa condizione, sento che arriverà presto o tardi il momento in cui sarò costretto ad abbandonare la vita e la ragione in qualche conflitto con il sinistro fantasma della PAURA.»
Appresi anche, attraverso vaghi riferimenti e accenni frammentari e ambigui, un altro curioso aspetto delle sue condizioni mentali. Usher si sentiva incatenato da certe superstiziose impressioni alla casa in cui viveva e dalla quale non usciva da molti anni, per un influsso la cui forza era resa in termini troppo indefiniti per riuscire a descriverli qui; un influsso che gli si manifestava nell’animo, mi disse, ispirato soltanto da alcune caratteristiche nella forma e nella materia della sua casa di famiglia; era un effetto, insomma, che l’elemento fisico delle grige mura e delle torri e del cupo stagno in cui tutte queste cose si riflettevano aveva infine prodotto sull’aspetto morale della sua intera esistenza.
Ammetteva tuttavia, seppur con qualche esitazione, che gran parte della caratteristica tristezza che lo affliggeva poteva essere fatta risalire a un’origine più naturale e assai più tangibile, cioè alla grave e prolungata malattia, o, per meglio dire, alle condizioni sempre più prossime alla morte, di una sorella teneramente amata che da molti anni era la sua unica compagna e la sua sola ed ultima parente sulla terra. “La sua morte” mi diceva con una amarezza che non potrò mai dimenticare, “lascerebbe me inutile e debole, ultimo superstite dell’antica razza degli Usher.” Mentre parlava, lady Madeline (così si chiamava la sorella di Roderico) attraversò lentamente un tratto lontano della stanza, e senza aver notato la mia presenza scomparve. Io la guardai con indicibile stupore, cui si mescolava un guizzo di paura, senza che tuttavia mi fosse possibile spiegarmi questo mio stato d’animo. Mentre i miei occhi seguivano i suoi passi che si allontanavano, mi sentii invadere da una sensazione di stupore. Quando finalmente un uscio si chiuse alle sue spalle, il mio sguardo cercò istintivamente e ansiosamente il volto del fratello, ma questi aveva nascosto la faccia tra le mani e potei soltanto notare che le sue dita emaciate si erano fatte ancora più pallide e che erano bagnate da molte lacrime appassionate.
Il male di lady Madeline da molto tempo metteva a dura prova la bravura dei suoi medici. Una silenziosa apatia, un consumarsi graduale della p...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Manoscritto trovato in una bottiglia
  5. Il pozzo e il pendolo
  6. Le esequie premature
  7. Il crollo della casa degli Usher
  8. La maschera della Morte Rossa
  9. Il gatto nero
  10. Il barile di Amontillado
  11. Hop-Frog
  12. Il Corvo, lo Scarabeo, e il gatto sulle spalle