
- 224 pagine
- Italian
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Viva la rivoluzione
Informazioni su questo libro
Ai fanatici della libertà . Una raccolta di scritti rivoluzionari, da Robespierre a Marx, Gramsci, Bakunin e gli anarchici italiani, Lenin, Trotzkij, Mao Tzetung, Che Guevara… con i canti della rivoluzione, dalla Marsigliese ad Hasta siempre comandante. Miti, icone entrate nel nostro immaginario collettivo. Pensieri scomodi che testimoniano la forza di chi, nel bene e nel male, voleva cambiare il mondo, sognando l'impossibile.
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Informazioni
I SOCIALISTI
Avanti, avanti, la vittoria
è nostra e nostro è l’avvenir;
più civile e giusta la storia
un’altra èra sta per aprir.
è nostra e nostro è l’avvenir;
più civile e giusta la storia
un’altra èra sta per aprir.
L’Internazionale
dp n="60" folio="60" ? DAI SOCIALISTI UTOPISTI A MARX A GRAMSCI, LE PAROLE CHE HANNO ALLARMATO LA BORGHESIA. LA GUERRA DI CLASSE CONTRO, LA PROPRIETÀ PRIVATA, CONTRO IL SISTEMA CAPITALISTICO, IN NOME DELLA RIVOLUZIONE PROLETARIA.
dp n="61" folio="61" ? SAINT-SIMON
(1760-1825)
Il socialismo utopistico francese ha prefigurato il successivo sviluppo marxista, soprattutto per la profonda critica sociale che lo ha contraddistinto. In questo celebre testo del 1819, una vera e propria parabola, Saint-Simon mostra l’irrazionalità intrinseca del sistema politico dell’epoca della Restaurazione, caratterizzato da una decisa involuzione rispetto agli assetti che si andavano affermando con l’instaurazione della Repubblica. Saint-Simon non fu un rivoluzionario in senso stretto, ma certo la sua critica ha contribuito a formare gli ideali rivoluzionari dei decenni successivi, e per questo merita di essere qui ricordato. Il testo s’intitola, appunto, Parabola.
Supponiamo che la Francia perda all’improvviso i suoi cinquanta primi fisici, i suoi cinquanta primi chimici, i suoi cinquanta primi fisiologi, i suoi cinquanta primi matematici, i suoi cinquanta primi poeti, i suoi cinquanta primi pittori, i suoi cinquanta primi musicisti, i suoi cinquanta primi letterati;
i suoi cinquanta primi meccanici, i suoi cinquanta primi ingegneri civili e militari, i suoi cinquanta primi architetti, i suoi cinquanta primi artificieri, i suoi cinquanta primi medici, i suoi cinquanta primi chirurghi, i suoi cinquanta primi farmacisti, i suoi cinquanta primi marinai, i suoi cinquanta primi orologiai;
i suoi cinquanta primi banchieri, i suoi duecento primi negozianti, i suoi seicento primi coltivatori, i suoi cinquanta primi mastri d’officina, i suoi cinquanta primi fabbricanti di armi, i suoi cinquanta primi conciatori, i suoi cinquanta primi tintori, i suoi cinquanta primi minatori, i suoi cinquanta primi fabbricanti di cotone, i suoi cinquanta primi fabbricanti di sete, i suoi cinquanta primi fabbricanti di tele, i suoi cinquanta primi fabbricanti di chincaglierie, i suoi cinquanta primi fabbricanti di maioliche e porcellane, i suoi cinquanta primi fabbricanti di cristalli e vetrerie, i suoi cinquanta primi armatori, le sue cinquanta prime case di trasporto, i suoi cinquanta primi tipografi, i suoi cinquanta primi incisori, i suoi cinquanta primi orafi e altri lavoratori di metalli;
i suoi cinquanta primi muratori, i suoi cinquanta primi carpentieri, i suoi cinquanta primi falegnami, i suoi cinquanta primi maniscalchi, i suoi cinquanta primi fabbri, i suoi cinquanta primi coltellinai, i suoi cinquanta primi fonditori e altre cento persone di diversa condizione non determinata, assai abili nelle scienze, nelle belle arti e nei diversi mestieri, facendo in tutto i primi 3000 sapienti, artisti e artigiani della Francia.
Questi uomini sono i produttori più necessari della Francia, forniscono i beni più importanti, dirigono i lavori più utili per la nazione e la rendono feconda nelle scienze, nelle belle arti e nelle arti e mestieri: sono realmente il fiore della società francese; sono i francesi più utili al loro paese, che gli arrecano la gloria maggiore, che accelerano di più la sua civilizzazione e la sua prosperità : la nazione, perduti costoro, diverrebbe un corpo senz’anima; cadrebbe immediatamente in uno stato di inferiorità nei confronti delle nazioni di cui è oggi la rivale, e sarebbe sempre subalterna al loro sguardo, finché non avesse posto riparo a questa perdita, finché non le fosse rigermogliata una testa. La Francia avrebbe bisogno di un’intera generazione almeno per rimediare a una tale disavventura; infatti gli uomini che si distinguono nei lavori di una utilità positiva sono delle reali anomalie, e la natura non è prodiga di eccezioni, soprattutto di tal specie.
Passiamo ad un altro caso. Supponiamo che la Francia conservi tutti gli uomini di genio ch’essa possiede nelle scienze, nelle belle arti e nelle arti e mestieri, e che invece abbia la disgrazia di perdere, nello stesso giorno, Sua Altezza il fratello del re, monsignor il duca d’Angoulême, monsignor il duca di Berry, monsignor il duca d’Orléans, monsignor il duca di Borbone, la duchessa di Angoulême, la duchessa di Berry, la duchessa d’Orléans, la duchessa di Borbone e la signorina di Condé;
ch’essa contemporaneamente perda tutti i grandi ufficiali della corona, tutti i ministri di Stato, con o senza dipartimento, tutti i consiglieri di Stato, tutti i referendari, tutti i suoi marescialli, tutti i suoi cardinali, arcivescovi, vescovi, grandi vicari e canonici, tutti i prefetti e i viceprefetti, tutti gli impiegati nei ministeri, tutti i giudici e, in più, i 10.000 proprietari più ricchi fra coloro che conducono una vita pari a quella dei nobili.
Questo avvenimento rattristerebbe indubbiamente i francesi, perché essi sono buoni e non saprebbero restare indifferenti di fronte alla sparizione improvvisa di un gran numero di compatrioti. Ma questa perdita di 30.000 individui, i più importanti dello Stato, non sarebbe causa per loro di dolore se non in un senso puramente sentimentale, perché non ne risulterebbe alcun danno politico per lo Stato.
Anzitutto per il fatto che sarebbe assai facile occupare i posti divenuti vacanti: esiste un gran numero di francesi in grado di esercitare le funzioni di fratello del re bene quanto Sua Altezza; molti sono capaci di occupare i posti di principe bene come monsignore duca d’Angoulême, come monsignore duca d’Orléans, come monsignore duca di Borbone; molte francesi sarebbero buone principesse al pari della duchessa d’Angoulême, della duchessa di Berry, delle signore d’Orléans, di Borbone e di Condé.
Le anticamere del castello sono piene di cortigiani pronti a sostituire i grandi ufficiali della corona; l’armata ha una gran quantità di militari, buoni capitani quanto i nostri marescialli attuali. Quanti garzoni valgono come i nostri ministri di Stato! Quanti amministratori sono in grado di gestire gli affari dei dipartimenti meglio dei prefetti e dei viceprefetti tuttora in attività ! Quanti avvocati, buoni giuristi come i nostri giudici! Quanti curati, capaci quanto i nostri cardinali, i nostri arcivescovi, i nostri vescovi, i nostri grandi vicari e i nostri canonici! Per ciò che poi riguarda i 10.000 proprietari che vivono come i nobili, i loro eredi non avrebbero certo bisogno di un qualche apprendistato per fare gli onori di casa nei loro saloni bene quanto loro.
La prosperità della Francia non può essere determinata se non per effetto e come risultato del progresso delle scienze, delle belle arti e delle arti e mestieri: ora, i principi, i grandi ufficiali della corona, i vescovi, i marescialli di Francia, i prefetti e i proprietari oziosi non lavorano affatto per il progresso delle scienze; non vi contribuiscono, anzi, non possono non nuocervi, perché si sforzano di protrarre il predominio esercitato fino ad oggi dalle teorie congetturali sulle conoscenze positive; essi nuocciono necessariamente alla prosperità della nazione privando, com’essi fanno, i sapienti, gli artisti e gli artigiani del primo grado di considerazione che loro appartiene legittimamente; nuocciono, perché impiegano i loro mezzi pecuniari in modo non direttamente utile per le scienze, per le belle arti e per le arti e mestieri; nuocciono perché, annualmente, sulle imposte pagate dalla nazione, prelevano una somma da 3 a 400 milioni a titolo di stipendi, di pensioni, di gratifiche, di indennità ecc., per il pagamento dei loro lavori, che però sono del tutto inutili.
Questi ragionamenti rendono evidente il fatto più importante della politica attuale; offrono una visuale donde si scopre questo fatto in tutta la sua estensione e con un sol colpo d’occhio: provano chiaramente, per quanto in modo indiretto, che l’organizzazione sociale è ben lungi dall’essere perfetta; che gli uomini si fanno ancora governare dalla violenza e dall’astuzia; che la specie umana, politicamente parlando, è ancora immersa nell’immoralità :
giacché i saggi, gli artisti e gli artigiani, i soli esseri umani i cui lavori siano di un’utilità positiva per la società e le cui opere non vengano a costare ad essa quasi nulla, sono resi subalterni dai principi e dagli altri governanti, i quali non sono che degli empirici più o meno incapaci;
giacché i dispensatori della stima e delle altre ricompense nazionali, in generale non devono il predominio di cui godono che al caso della nascita, all’adulazione, all’intrigo o ad altre azioni poco stimabili;
giacché coloro che sono incaricati di amministrare gli affari pubblici si dividono tra loro, tutti gli anni, la metà dell’imposta, mentre non giungono ad impiegare un terzo dei contributi, di cui non s’impadroniscono personalmente, in un modo che sia utile per gli amministrati.
Queste argomentazioni provano che la società attuale rappresenta veramente il rovescio del mondo:
perché la nazione ha ammesso come principio base che i poveri dovevano essere generosi verso i ricchi, e conseguentemente che i meno agiati dovevano privarsi quotidianamente di una parte del necessario per aumentare il superfluo dei grandi proprietari;
perché i massimi colpevoli, i ladri generali, coloro che dissanguano la totalità dei cittadini e che sottraggono loro annualmente da 3 a 400 milioni, hanno l’incarico di punire i piccoli delitti contro la società ;
perché l’ignoranza, la superstizione, l’accidia e il gusto dei piaceri dispendiosi costituiscono l’appannaggio dei capi supremi della società , mentre le persone capaci, econome e laboriose non sono impiegate che come dipendenti e come strumenti;
perché, in una parola, in tutti i tipi di attività , gli uomini incapaci hanno il compito di dirigere le persone capaci; per quanto si riferisce alla moralità , gli uomini più immorali sono chiamati ad educare virtuosamente i cittadini e, in relazione alla giustizia distributiva, i grandi colpevoli sono preposti a punire le colpe dei piccoli delinquenti.
PROUDHON
(1809-1865)
Uno degli aforismi più famosi del comunismo, «La proprietà privata è un furto», fu coniato da Proudhon, il che è forse un segno della grande influenza esercitata dal suo pensiero. Certo è che la critica sociale di Proudhon, che partecipò in prima persona ai moti rivoluzionari del 1848 in Francia, è sicuramente una critica rivoluzionaria. La constatazione che i governi non soccorrono i deboli ma proteggono i potenti, la denuncia della perversa finzione del contratto sociale rousseauviano, l’analisi dell’intrinseca natura di sfruttamento del lavoro salariato, rappresentano altrettante ragioni per «uscire da questo cerchio infernale» del dominio. Resistere e ribellarsi non sono più soltanto diritti, ma veri e propri doveri dell’individuo. Questo pezzo è tratto dal suo Critica della proprietà e dello stato.
La concezione primitiva dell’ordine che discende dal governo appartiene a tutti i popoli. E se, fin dall’origine, gli sforzi che sono stati compiuti per organizzare, limitare, modificare l’azione del potere, per adeguarla ai bisogni generali e alle circostanze, pure dimostrano che c’era una negazione implicita nell’affermazione, è certo però che nessuna ipotesi antagonistica è stata espressa; lo spirito è ovunque rimasto lo stesso. A mano a mano che le nazioni sono uscite dallo stato selvaggio e dalla barbarie, hanno imboccato immediatamente la strada del governo e seguito tutte lo stesso ciclo istituzionale: sono passate, tanto per usare categorie ormai comuni a tutti gli storici e ai pubblicisti, dalla monarchia, all’aristocrazia, alla democrazia.
Ma c’è qualcosa di più grave ancora.
Il pregiudizio del governo è penetrato fin nel più profondo delle coscienze, ha modellato la ragione a sua immagine e somiglianza, tanto che qualsiasi concezione diversa si è resa per lungo tempo impossibile; e i pensatori più audaci sono arrivati alla conclusione che il governo era una calamità , senza dubbio, un castigo per l’umanità , e però un male necessario!
Ecco perché, fino ai nostri giorni, le rivoluzioni più emancipatrici, e tutti i fermenti di libertà , sono sbocciati costantemente in un atto di fede e di sottomissione al potere; e perché tutte le rivoluzioni non sono servite che a ripristinare la tirannia: io qui non faccio eccezioni né per la Costituzione del 1793 né per quella del 1848, che pure sono le due espressioni più avanzate della democrazia francese. Ciò che ha mantenuto questa predisposizione mentale e reso così a lungo invincibile l’incanto è il fatto che, in seguito alla supposta analogia tra la società e la famiglia, il governo si è sempre presentato come l’organo naturale della giustizia, il protettore del debole, il preservatore della pace. Considerato come un ente provvidenziale e altamente garante, il governo è riuscito a radicarsi sia nei cuori che nelle menti! Ha partecipato dell’anima universale; è stato la fede, la superstizione segreta, invincibile, dei cittadini. Se per caso si è mostrato debole, di lui si è detto, come della religione e della proprietà : non è l’istituzione che è cattiva, è l’abuso. Non è il re che è cattivo, sono i suoi ministri. Ah! se venisse a saperlo il re!
Così al dato della gerarchia, dell’assolutismo, dell’autorità governante, si è aggiunto un ideale intimo e in costante contraddizione con l’istinto di uguaglianza e di indipendenza; e se il popolo, a ogni rivoluzione, seguendo le ispirazioni del suo cuore, ha creduto di correggere i vizi del suo governo, è stato invece tradito dalle sue stesse idee: credendo di ripristinare il potere a suo favore, in realtà se lo è ritrovato sempre contro; invece che a un protettore, esso si è consegnato a un tiranno.
L’esperienza mostra, in realtà , che per quanto popolare possa essere stata la sua origine, il governo si è schierato sempre e ovunque dalla parte della classe più colta e più ricca contro quella più povera e più numerosa; che, dopo essersi mostrato per un po’ di tempo liberale, a poco a poco è diventato governo d’eccezione, esclusivo; che infine, invece di sostenere la libertà e l’uguaglianza fra tutti, ha fatto di tutto per distruggerle, in virtù della sua inclinazione naturale al privilegio. [...]
L’autorità , difendendo i diritti di fatto stabiliti, proteggendo gli interessi acquisiti, si è schierata sempre dalla parte della ricchezza e contro la povertà : la storia dei governi è il martirologio del proletariato.
Questa inevitabile defezione del potere dalla causa popolare va analizzata soprattutto nel caso della democrazia, ultimo termine dell’evoluzione del principio di governo.
Cosa fa il popolo quando, stanco dei suoi aristocratici, indignato per la corruzione dei suoi principi, proclama la propria sovranità , ovvero l’autorità dei propri suffragi?
Esso si dice: innanzi tutto, nella società ci vuole ordine. Custode di questo ordine, che deve essere per noi la libertà e l’uguaglianza, è il governo.
Ebbene, si controlli il governo; la costituzione e le leggi diventino l’espressione della nostra volontà ; si faccia in modo che funzionari e magistrati, eletti da noi al nostro servizio e revocabili in qualunque momento, non possano mai intraprendere qualcosa di diverso da quello che la volontà del popolo avrà stabilito. Si può allora essere sicuri, a condizione che la nostra sorveglianza non si allenti mai, che il governo curerà i nostri interessi, non servirà soltanto ai ricchi e non sarà più preda di ambiziosi e intriganti; e le cose andranno avanti a nostro piacimento e a nostro vantaggio.
Così ragiona la massa in tutte le epoche di oppressione. Ragionamento semplice, di una logica elementarissima, e che riesce sempre a produrre il suo risultato. Anche se questa massa, d’accordo con i signori Considérant e Rittinghausen, arrivasse ad affermare: i nostri nemici sono quelli stessi che noi mandiamo al governo, quindi governiamoci da noi e saremo liberi, la logica non cambierebbe. Se non cambia il principio, cioè il governo, non può cambiare neppure la conclusione.
Sono ormai mille anni che questa teoria risarcisce le classi oppresse e gli oratori che le difendono. Il governo diretto non risale né a Francoforte, né alla Convenzione, né a Rousseau: ha la stessa età del governo indiretto, risale alla fondazione delle società .
Niente monarchia ereditaria,
Niente presidenza,
Niente rappresentanza,
Niente delega,
Niente alienazione del potere,
Governo diretto,
Il POPOLO nell’esercizio permanente della sua sovranità .
Niente presidenza,
Niente rappresentanza,
Niente delega,
Niente alienazione del potere,
Governo diretto,
Il POPOLO nell’esercizio permanente della sua sovranità .
Che c’è dunque alla base di questo ritornello che si è ripreso come se fosse una tesi nuova e rivoluzionaria, e che Ateniesi, Beoti, Lacedemoni, Romani ecc. non abbiano già conosciuto, praticato, molto prima della nostra èra? Non si tratta sempre dello stesso circolo vizioso, sempre dello stesso precipitare verso l’assurdo, che dopo aver esaurito, eliminato una dopo l’altra monarchie assolute, monarchie aristocratiche o rappresentative, democrazie, giunge a toccare il limite del governo diretto, per ricominciare daccapo con la dittatura a vita e la monarchia ereditaria? Presso tutte le nazioni, quella del governo diretto è stata l’epoca palingenetica delle aristocrazie distrutte e dei troni spezzati: questo tipo di governo non ha potuto reggersi neppure presso popoli, come quelli di Atene e Sparta, che avevano il vantaggio di una popolazione minima e del servizio degli schiavi. Da noi sarebbe il preludio del cesarismo, nonostante le nostre ferrovie, le poste, i telegrafi; nonostante la semplificazione delle leggi, la revocabilità dei funzionari, la forma imperativa del mandato. Ci farebbe precipitare verso la tirannia imperiale tanto più in fretta in quanto i nostri proletari non vogliono più essere salariati, i proprietari non sopporterebbero di essere spossessati, e i fautori del governo diretto, ponendo ogni cosa sul piano della politica, sembrano non avere alcuna idea dell’organizzazione economica. Un altro passo in questa direzione e rispunta l’aurora dell’èra dei Cesari: a una democrazia inestricabile succederà , senza altri passaggi, l’impero, con o senza Napoleone.
Occorre uscire da questo cerchio infernale. Occorre traversare, da parte a parte, l’idea politica, la vecchia nozione di giustizia distributiva e giungere a quella di giustizia commutativa, che, nella logica della storia come in quella del diritto, le fa seguito. Eh! voi che volete non vedere, che cercate tra le nuvole qualcosa che già avete sottomano, rileggete i vostri autori, guardatevi intorno, analizzate le vostre stesse formule, e troverete la soluzione, che si trascina da tempo immemorabile attraverso i secoli, e che voi, insieme con i vostri corifei, non avete mai degnato di uno sguardo. [...]
Che cos’è in realtà il contratto sociale? l’accordo del cittadino con il governo? No, sarebbe come girarsi e rigirarsi nella stessa idea. Il contratto sociale è l’accordo dell’uomo con l’uomo, accordo dal quale deve derivare ciò che noi chiamiamo società . Qui la nozione di giustizia commutativa, posta dal fatto primitivo dello scambio e definita dal diritto romano, soppianta quella di giustizia distributiva, definitivamente liquida...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Dedica
- RIVOLUZIONE. CHE COS'È
- BIBLIOGRAFIA
- LA RIVOLUZIONE FRANCESE
- IL RISORGIMENTO
- I SOCIALISTI
- GLI ANARCHICI
- LA RIVOLUZIONE RUSSA
- LA RIVOLUZIONE SPAGNOLA
- LA RIVOLUZIONE CINESE
- LA RIVOLUZIONE CUBANA
- APPENDICE - I canti della rivoluzione
- BIOGRAFIE