La regina Margot
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La regina Margot

  1. 660 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La regina Margot

Informazioni su questo libro

Margherita di Valois detta Margot, figlia della potente e diabolica Caterina de' Medici e moglie di Enrico di Navarra, è al centro di una straordinaria vicenda personale che si intreccia da un lato con la lotta fratricida tra cattolici e ugonotti, dall'altro con lo scontro per la conquista del trono di Francia. Intrighi, alleanze, complotti, tradimenti e delitti si succedono nell'atmosfera raffinata e lussuriosa, colta e crudele, cinica e superstiziosa della corte nella Francia cinquecentesca. Questo appassionante romanzo, che mescola sapientemente rievocazione storica e invenzione, ha ispirato numerose trasposizioni cinematografiche, a dimostrazione del grande e continuato successo che ha accompagnato il libro nel tempo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817014595
LA REGINA MARGOT
I
IL LATINO DEL DUCA DI GUISA
Il lunedì, diciottesimo giorno del mese di agosto 1572, vi era festa grande al Louvre. Le finestre dell’antico palazzo reale, sempre tanto cupe, erano sfarzosamente illuminate; le piazze e le vie attigue, di solito tanto deserte sin da quando a Saint-Germain-l’Auxerrois erano suonate le nove, erano, benché fosse mezzanotte, affollate di gente.
Tutto quell’accorrere minaccioso, frettoloso, rumoroso, pareva, nel buio, un mare cupo, e agitato da onde lunghe, ciascuna delle quali si frangeva scrosciando; quel mare, dilagando sul viale dal quale si riversava in via dei Fossés-Saint-Germain e in via dell’Astruce, andava a battere con i suoi flutti i piedi delle mura del Louvre e con il suo riflusso il palazzo Borbone che sorgeva di fronte.
Nonostante la festa regale, anzi forse a causa di essa, vi era qualcosa di minaccioso in quella folla, perché essa non dubitava che la solennità alla quale assisteva come spettatrice era soltanto il preludio di un’altra, rinviata di otto giorni, alla quale sarebbe stata invitata e alla quale avrebbe preso parte attiva di tutto cuore.
La Corte celebrava le nozze di Margherita di Valois, figlia del re Enrico II e sorella del re Carlo IX, con Enrico di Borbone, re di Navarra. Proprio quel mattino, infatti, il cardinale di Borbone aveva unito i due sposi con la cerimonia in uso per le nozze delle principesse francesi, su un palco eretto alla porta di Notre-Dame.
Quel matrimonio aveva meravigliato tutti e aveva dato da pensare ad alcuni, che vedevano più chiaro degli altri; non si capiva bene il riavvicinamento di due partiti tanto avversi fra loro quanto lo erano in quel momento il partito protestante e il partito cattolico: ci si chiedeva come il giovane principe Enrico di Condé potesse perdonare al duca di Angiò, fratello del re, la morte di suo padre assassinato da Montesquiou, a Jarnac. Ci si chiedeva come il giovane duca Enrico di Guisa potesse perdonare all’ammiraglio di Coligny la morte di suo padre assassinato da Poltrot de Méré, a Orléans. Ma non basta: Jeanne di Navarra, la coraggiosa moglie del debole Antoine di Borbone, che aveva condotto suo figlio Enrico al regale fidanzamento che lo aspettava, era morta appena da due mesi e si erano diffuse strane voci su quella morte improvvisa. Dovunque si diceva sottovoce e in qualche luogo a voce alta, che ella avesse scoperto un tremendo segreto e che Caterina de’ Medici, temendo che esso fosse rivelato, l’aveva avvelenata con certi guanti profumati, confezionati da un certo René, un fiorentino abilissimo in materia. Quella voce si era diffusa e consolidata tanto più per il fatto che dopo la morte di quella grande regina, due medici, uno dei quali era il famoso Ambroise Paré, per richiesta di suo figlio erano stati autorizzati all’autopsia del corpo ma non del cervello. Ebbene, poiché Jeanne di Navarra era stata avvelenata mediante l’olfatto, era proprio il cervello, l’unico organo escluso dall’autopsia, quello che doveva presentare le tracce del delitto. Diciamo delitto, poiché nessuno metteva in dubbio che era stato commesso un delitto.
E non è tutto: il re Carlo, in modo particolare, aveva messo in quel matrimonio, che non soltanto doveva ristabilire la pace nel suo regno, ma anche attirare a Parigi i principali ugonotti di Francia, una costanza molto simile alla ostinazione. Poiché i due fidanzati appartenevano una alla religione cattolica e l’altro alla religione riformata, era stato necessario rivolgersi, per la dispensa, a Gregorio XIII che sedeva allora sul soglio di Roma. La dispensa tardava e quel ritardo aveva preoccupato molto la defunta regina di Navarra; ella un giorno aveva espresso a Carlo IX il timore che quella dispensa non fosse concessa e il re le aveva risposto:
«Non preoccupatevi, mia cara zia, io vi onoro più del papa e quanto a mia sorella l’amo più di quanto la temo. Io non sono ugonotto, ma non sono neppure sciocco e se il papa fa troppo il somaro, io stesso prenderò per mano Margot e la condurrò a sposare vostro figlio, nel bel mezzo del sermone».
Queste parole si erano sparse dal Louvre nella città e mentre rallegravano molto gli ugonotti, avevano dato molto da pensare ai cattolici i quali si chiedevano sommessamente se il re li tradisse veramente, oppure recitasse una commedia che un bel giorno, o una bella sera, avrebbe avuto uno scioglimento inaspettato.
La condotta di Carlo IX pareva inspiegabile soprattutto di fronte all’ammiraglio di Coligny, che da cinque o sei anni faceva al re una guerra accanita: dopo aver messo sul suo capo una taglia di centocinquantamila scudi, ora il re giurava solamente su lui, chiamandolo padre e dichiarando ai quattro venti che ormai avrebbe affidato a lui solo il comando della guerra; le cose erano a tal punto che persino Caterina de’ Medici, la quale fino a quel momento aveva diretto le azioni, i voleri e addirittura i desideri del giovane re, pareva incominciasse a preoccuparsi sul serio, e non senza motivo poiché, in un momento di espansività Carlo IX aveva detto all’ammiraglio, a proposito della guerra nelle Fiandre:
«Padre mio, vi è ancora una cosa in proposito alla quale bisogna fare molta attenzione: la regina madre, che come sapete vuol mettere il naso dappertutto, non capisce nulla questa impresa, è necessario che la teniamo tanto segreta da non lasciargliene trapelare nulla, poiché, intrigante come io la conosco, ci guasterebbe tutto».
Ebbene, per quanto prudente ed esperto fosse, Coligny non aveva potuto tener segreta una così esplicita confidenza: e benché fosse arrivato a Parigi con grandi sospetti, e benché alla sua partenza da Chatillon una contadina gli si fosse gettata ai piedi esclamando: «Non andate a Parigi signore, nostro buon padrone, non andate poiché morirete, voi e tutti quelli che verranno con voi», i suoi sospetti, a poco a poco si erano spenti nel suo cuore e in quello di Téligny, suo genero, che il re, da parte sua, trattava con grande sfoggio di amicizia, chiamandolo fratello come chiamava padre l’ammiraglio e dandogli del tu come faceva con i suoi migliori amici.
Così gli ugonotti, a parte alcuni d’indole pessimista e diffidente, erano del tutto rassicurati: la morte della regina di Navarra era attribuita a una pleurite e gli ampi saloni del Louvre si erano gremiti di tutti quei bravi protestanti ai quali il matrimonio del loro giovane capo, Enrico, prometteva un ritorno veramente insperato della fortuna. L’ammiraglio di Coligny, La Rochefoucault, il principe di Condé figlio, Téligny, e insomma tutti gli uomini più importanti del partito, trionfavano nel vedere potenti al Louvre e benvenuti a Parigi proprio coloro che tre mesi prima il re Carlo e la regina Caterina volevano fare impiccare su forche più alte di quelle dei comuni assassini. Soltanto il maresciallo di Montmorency era cercato invano fra tutti i suoi confratelli, poiché nessuna promessa aveva potuto sedurlo, nessuna apparenza aveva potuto ingannarlo, e se ne stava ritirato nel suo castello dell’Isle-Adam, allegando a pretesto del suo isolamento il dolore per la morte di suo padre, il connestabile Anne de Montmorency, ucciso con un colpo di pistola da Robert Stuart, nella battaglia di Saint-Denis. Ma poiché quel fatto era accaduto più di tre anni prima e la sensibilità era una virtù ben più di moda a quell’epoca, di quel lutto esageratamente prolungato si era creduto quello che si era voluto crederne.
D’altronde, tutto dava torto al maresciallo di Montmorency; il re, la regina, il duca d’Angiò e il duca d’Alençon facevano magnificamente gli onori della festa reale.
Il duca d’Angiò riceveva proprio dagli ugonotti complimenti ben meritati sulle due battaglie di Jarnac e di Moncontour che egli aveva vinto prima ancora di essere diciottenne, più precoce dunque di Cesare e di Alessandro ai quali era paragonato, naturalmente con suo vantaggio sui vincitori a Isso e a Farsalo; il duca d’Alençon contemplava tutto con il suo sguardo carezzevole e falso; la regina Caterina era raggiante di gioia e, tutta miele e grazia, si congratulava con il principe Enrico di Condé per il suo recente matrimonio con Maria di Clève; infine persino i signori di Guisa sorridevano ai formidabili nemici della loro casata, e il duca di Mayenne conversava con il signor Tavannes e con l’ammiraglio, sulla prossima guerra che era più che mai necessario dichiarare a Filippo II.
Andava e veniva in mezzo a quei gruppi, il capo leggermente inclinato e l’orecchio teso a tutti i discorsi, un giovine di diciannove anni, con l’occhio acuto, i capelli neri cortissimi, le sopracciglia folte, il naso aquilino, il sorriso beffardo sotto un’ombra di baffetti e di barba nascenti. Quel giovane che non si era ancora messo in luce se non nella battaglia di Arnay-le-Duc, nella quale aveva coraggiosamente pagato di persona e riceveva complimenti a non finire, era l’amato discepolo di Coligny e l’eroe del giorno; tre mesi prima, ossia all’epoca in cui sua madre viveva ancora, lo si era chiamato principe di Béarn; ora lo si chiamava re di Navarra, in attesa di essere chiamato Enrico IV.
Di quando in quando gli passava sulla fronte un’ombra cupa e fugace: senza dubbio ricordava che sua madre era morta da due mesi appena e che nessuno dubitava non fosse morta avvelenata. Ma era una nube fugace che spariva come un’ombra fluttuante, poiché coloro che gli parlavano, che gli facevano le loro congratulazioni, erano proprio gli stessi che avevano assassinato la coraggiosa Jeanne d’Albret, sua madre.
A pochi passi dal re di Navarra, quasi pensoso, quasi preoccupato, quanto l’altro ostentava di essere allegro e schietto, il giovane duca di Guisa chiacchierava con Téligny. Più fortunato del bearnese, a ventidue anni la sua fama aveva quasi raggiunto quella di suo padre, il grande Francesco di Guisa. Era un signore elegante, alto di statura, con lo sguardo fiero e orgoglioso, e dotato di quella naturale maestà che induceva a dire quando egli passava, che accanto a lui gli altri prìncipi sembravano plebe. I cattolici vedevano in lui, benché giovanissimo, il capo del loro partito, come gli ugonotti vedevano il loro in quell’Enrico di Navarra del quale abbiamo abbozzato il ritratto. Dapprima il giovane duca di Guisa aveva portato il titolo di principe di Joinville e all’assedio di Orléans aveva fatto le sue prime armi agli ordini di suo padre, che era morto nelle sue braccia indicando l’ammiraglio di Coligny come il suo assassino. Il giovane duca allora, come Annibale, aveva fatto un solenne giuramento: vendicare la morte di suo padre sull’ammiraglio e sulla di lui famiglia e perseguitare senza posa né tregua la gente della religione riformata che quello professava, avendo promesso a Dio di essere il suo angelo sterminatore sulla Terra fino al giorno i cui fossero distrutti tutti gli eretici fino all’ultimo. Perciò, non senza una profonda meraviglia si vedeva quel principe, di solito tanto fedele alla parola data, tendere la mano a coloro che aveva giurato di considerare eterni nemici e conversare familiarmente con il genero dell’uomo, la cui morte aveva promesso a suo padre morente.
Ma, come si è detto, quella era la serata delle meraviglie.
Effettivamente, con la conoscenza dell’avvenire, che per fortuna manca ai mortali, con la facoltà di leggere negli animi, che per sfortuna appartiene soltanto a Dio, un osservatore privilegiato, al quale fosse stato, concesso di assistere a quella festa, avrebbe goduto certamente lo spettacolo più strano che offrono gli annali della triste commedia umana.
Ma quell’osservatore, che mancava nei saloni del Louvre, continuava nella strada a guardare con i suoi occhi fiammeggianti e a rumoreggiare con la sua voce minacciosa: quello spettatore era il popolo che, con il suo istinto meraviglioso, aguzzato dall’odio, seguiva di lo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. Introduzione di Paolo Tortonese
  4. Cronologia della vita e delle opere
  5. Bibliografia
  6. LA REGINA MARGOT
  7. Appendice storica
  8. Sommario