DIECI RACCONTI
IL MANDOLINO
La gente parla delle alture di Capodimonte, del Vomero, dell’Arenella, invece sono enormi dorsi di mandolini. Socchiudo un momento gli occhi fissando la mia città oltre la schiena morbida e flessuosa di un mandolino (quell’indurre i quadri, veri o dipinti, a confessarsi) e subito mi rendo conto che Napoli continua, svolge e conclude il mandolino. O viceversa. Quante ne volete di gradinate simili a una tastiera, scalini che si inerpicano e progressivamente si restringono, fino all’acuto che leva il respiro? Mettiamo il Rettifilo, nero di gente ed essenziale, nella doppia corda del «la»; via Caracciolo e la Riviera di Chiaia, due misure della luce e della voce gravi del mare, le vedo fluire nei dorati o argentati binari del «sol» e del «re», questa è la loro indubbia tonalità; che ve ne sembra infine di un «mi-Toledo» pungente, cristallino, sardonico direi, proprio come la strada delle strade napoletane? Gesù, uno strumento che vi salta in grembo come un figlio! Uno strumento che se avete perduto il plettro lo suonate meglio con un fiammifero o con l’unghia del mignolo! Uno strumento la cui forma risponde: «Presente!» a chi l’ha solo guardato e già pensa: “Maria...”! Uno strumento solitario che fa compagnia, triste che rallegra, gobbo che porta fortuna, Gesù Gesù, dove poteva crescere e moltiplicarsi se non a Napoli? Per voi è una falce di luna quella che s’intravede fra le nuvole su Castel dell’Ovo; per me che me ne intendo è un mandolino di acero riccio: biondo, carnale, snello, un mandolino che io quasi allungo la mano e lo piglio per farvi sentire l’identica serenata di Toselli con cui certi «posteggiatori» della Sanità, nel 1912 al Cremlino, estenuarono l’imperatrice di Russia.
Un mandolino che non abbia questa delicata e forte sostanza lunare dell’acero è necessariamente scuro, doppiamente notturno: è un mandolino di palissandro bruno azzurro come i capelli risentiti o lisci, secondo il vento, delle sedicenni al Chiatamone. Più capriccioso, più femmineo del suo gemello chiaro, il mandolino scuro esige ornamenti. Deve essere screziato di madreperla, intriso di punti lucidi che adeschino, durante le feste popolari, il riflesso dell’acetilene, e nei quali anche le semibiscrome possano specchiarsi un attimo, prima di lasciare lo strumento. Dita lunghe e sordide come quelle del mio maestro di mandolino don Aniello Aponte, non ne ho mai visto rannuvolare i diademi di un impareggiabile Vinaccia (si chiamava così, ai miei tempi, lo Stradivario dei fabbricanti di mandolini): però giustifico e apprezzo tuttora un sudiciume simile, di mani che avevano suonato un intero giorno, sporche sì ma di musica. Dicendo Vinaccia dicevamo una tastiera di seta, con un artiglio finale per la pazzia delle note situate non so quante righe al disopra del pentagramma, e imprendibili da chi non fosse il maestro Aponte o il suo fantasma; dicevamo la tenera ombra piumata, nuziale, dell’interno; dicevamo delle argute chiavette dagli ingranaggi che qualora si fossero indeboliti bastava sputarvi perché, arrugginendosi, rinvigorissero e tenessero; dicevamo, per la cassa, una convessità dolce, versatile, studiata in modo che costituisse egualmente un’amicizia, una lode, per l’inguine del suonatore obeso e per quello del suonatore scarno; dicevamo un percorso, un itinerario di voce che andava dal sussurro all’urlo senza perdere un ghiacciolo della sua chiarezza: dicevamo un vero e grande mandolino, dicevamo il mandolino su cui don Aniello Aponte soprannominato «Dispari» si consumò in Italia e all’estero per quarant’anni, finché durante la festa di San Raffaele, non potendo interrompere una polka, se lo accostò alle labbra e bocca su bocca, furtivamente, vi riversò buona parte del pochissimo sangue che ancora aveva: fu il 24 ottobre del 1918.
Il mio primo mandolino era anonimo, bastardo; mi costò nove lire che rappresentavano però tre giorni della mia paga di giovanissimo operaio. Gli feci respirare tutta l’aria della mia casa, ce ne stavamo dovunque comparissero un po’ di spazio e di quiete per noi due, rammento come lo impacciava il rosario che mia madre e le mie sorelle se ne andavano a bisbigliare in cucina, quelle preghiere che per colpa sua divennero inammissibilmente una congiura mistica. (Mamma, ci perdonasti quando il mandolino e io imparammo il motivetto di «E noi speriamo in cielo — vederci tutti quanti — coi serafini e i santi — per un’eternità»; che sollievo! Inoltre il legno di mandolino è cattivo conduttore dell’appetito: se avevo lo strumento sulle ginocchia dimenticavo di aggredire la razionata pagnotta di farina di riso, bianca abbagliante, quel pane cadaverico dell’altra guerra.) Vorrei essere preciso, è importante spiegare che io e il mandolino prima ci conoscemmo e poi suonammo. Credo che tali siano i rapporti dello strumento con l’intera Napoli. Gli volli bene quando cominciai a sentirgli addosso il mio odore e a riconoscere su me il suo: vago e lontano, questo, di truciolo, di vernice e, non so, di pazienza. Mi faccio coraggio e dichiaro quassù che il mandolino vive, che il mandolino ripete di noi vivi ciò che può: diventa, col tempo, salato e amaro del suo uomo. Lo conobbi, dico. Assaporavo il suono di ciascuna corda a vuoto, deserta, finché si spegnesse: di notte, all’alba o solcante i rumori del giorno. Guardavo la luce spezzarsi sulla esigua botola che inghiotte le vibrazioni, una caduta senza conseguenze ma da interrogare: e se nelle viscere del mandolino si determinasse uno speciale miscuglio di colori e di note? Mi impensierì la questione dei semitoni: o avanza un «la» o retrocede un «si», ma perché il bemolle risulta più intimo e arcano del diesis? «Studiati invece i tempi, animale, tu nel solfeggio ci stai come all’ergastolo!» squittì don Aniello, tetragono a ogni futile divagazione sugli «accidenti», scontentissimo di me.
Era un miserabile vecchio dalle cento dita, solo nella sua tana benché avesse almeno tre mogli viventi e qualche figlio con ciascuna di esse: questi congiunti ogni giorno venivano, prendevano se c’era da prendere e si allontanavano ingiuriandosi; decime, tributi e malattia, egualmente alimentati dalla sua carne, si mangiavano vivo il mio straordinario maestro. Forse il nomignolo «Dispari» glielo aveva dato, fin dall’infanzia, l’impossibilità di combaciare con i fatti e con gli uomini, con il mondo; se la sua esistenza di vizioso e stravagante infermo si protrasse tanto fu esclusivamente perché, immagino, l’angelo nero non trovava da abbinarlo a nessun momento e a nessuna creatura. Ma il mandolino in mano a don Aniello! «Senza offesa, per una ricorrenza simile usateci la cortesia di portarvi almeno un secondo e una chitarra» gli dicevano. Rispondeva: «Parlate col maestro dei maestri o con chi? Primo, secondo e chitarra eccoci qua: sono io». La pioggia, la grandine dei suoi polpastrelli sulla tastiera! Oppure un frugare proficuo e segreto nelle profondità inaccessibili dei suoni, pensavo a un vecchio avaro che ritrovasse monete d’oro nel fondo di una calza. Un tale Vinaccia era effettivamente unico e multiplo: a che cosa gli sarebbero serviti i diaconi di mandolino e di chitarra, andiamo? Spesso i festini ammutolivano, si concludevano con una sorta di ipnosi intorno a don Aniello. Egli allora improvvisava. Erano reminiscenze e invenzioni, onomatopeie e travisamenti, suppliche e minacce, la Natura obbedita e violentata nel giro di ogni frase musicale: rideva il diavolo sotto lo sgabello del mio maestro, una volta la sposina che festeggiavano insanì fino a gettarsi su di lui baciandolo e si prese i primi ceffoni dell’esordiente marito; don Aniello approfittò del trambusto per concedersi alla sua tosse, in pubblico la portava come un fazzoletto nel taschino, se ne serviva e basta.
Sì, presi lezioni di mandolino da un matto che le iniziò domandandomi se ero fratello di qualche formosa ragazza. Disse:
«In caso contrario salute a noi, perché io sono ormai vecchio e fuori discussione. Ma tu ricordati le parole «Sorella mia». Sol re là mi, questi sono i nomi delle quattro corde e così mi devi rispondere se io voglio le generalità del mandolino, ho parlato chiaro?».
Non meno affettuosa e insolente, astrusa e semplice, orchestrale era frattanto Napoli intorno a noi. Arpe le ringhiere dei balconcini, bocche di trombone certe finestrelle rotonde come oblò, clarini gli infissi neri dai rocchetti di porcellana che ricevevano i fili elettrici; e nelle muraglie di tufo certe fenditure a esse di violino, e vicoli tracciati come una chiave di «fa», vicoli disegnati come una minima, col piazzaletto in testa e due traverse in gola... Imitando il mio maestro, dormii tenendo il mandolino sulla sedia accanto al letto, come i briganti tengono il fucile. Dei sonni di quanta gente, a quanti altri capezzali vibrava sommessamente, in quelle stesse notti, il mandolino? È uno strumento vivo, insisto, che ci si affeziona o sparisce, come i gatti: non si trascura il mandolino, lo suonate assiduamente o lo perdete, io infatti da un trentennio non l’ho più. Smisi di impararlo quando morì il mio insostituibile maestro; e al primo sgombero che facemmo, ti saluto mandolino. Le dita di don Aniello si fermarono tre giorni dopo quel suo tragico 24 ottobre del 1918. Dalla festa di San Raffaele egli era rientrato con l’ultima febbre. Ascoltò e disprezzò tuttavia, giacendo a letto, i miei esercizi perfino nel tardo pomeriggio del 27. Aveva il suo Vinaccia sulle coltri e così li trovarono, freddi, verso mezzanotte; gli era apparsa, immagino, una Morte minuscola e terrea, una Morte inespressiva e ottusa che uscì dal mandolino (in cui era sempre stata) come una testa di tartaruga dal guscio. Gli strani congiunti di don Aniello sopravvennero per la spartizione dei beni, durante la quale si comportarono indegnamente; l’unico oggetto di valore era il Vinaccia e fu rotto nella zuffa. Don Aniello restò solo, infine, e veramente morto. Il vicolo improvvisò per la sua veglia funebre una colletta di lacrime. Mia madre, che ne aveva tante, si mise lo scialle e disse: «Peppino, andiamo».
NEL VICO IMPAGLIAFIASCHI
E fuori Porta San Gennaro abbiamo il vico Impagliafiaschi, va bene? Certo vi si coltivò, nei tempi andati, l’arte di applicare neutri aderenti gonnellini ai fiaschi, un lavoro di pazientissime donne sedute per terra: ma tutte le straducce di Napoli diffondevano e diffondono, indipendentemente dalla loro attività, questo vivo tepore di ginocchia femminili e insieme questa morta freschezza di vetro e di fuscelli. Sono le sei del pomeriggio in settembre. Qualche soffio di vento rade ogni tanto i muri come un gatto. Soglie, davanzali, terrazzi, porgono alla stagione quanta gente hanno. Il ciabattino osserva contro luce una scarpa; e attraverso i buchi nella tomaia vede, come in una reminiscenza, il ferro alzato della stiratrice di tovaglie d’altare. Don Ernesto Caputo, l’infingardo, soffia sui peli di un suo avambraccio, li interroga per sapere se esiste un segretissimo appuntamento fra i numeri 47 e 89 sulla ruota di Palermo. Il carbonaio ha inforcato il suo nero sgabello e si è assopito: fa un brutto sogno, quattro canaglie che pedinano il freddo viaggiante verso il vico Impagliafiaschi, lo catturano in Danimarca ed esigono dagli interessati milioni e milioni per il rilascio. La guantaia spruzza talco nelle dita di pelle che ha terminato di cucire, vi introduce il forcipe di legno e una per una le allarga: siano i guanti, sembra dire, e i guanti sono. Donna Elena, la venditrice di caramelle zufolanti, di noci di cocco e di orzata, siede presso il suo minuscolo banco foderato di zinco: le singolari caramelle sono una novità per bambini, esse hanno la forma di un fischietto e possono emettere, per tre quarti della loro durata in bocca, un decrescente sibilo al ribes, alla fragola, alla menta glaciale. Sull’uniforme brusìo, ben teso fra muro e muro, i fischi delle caramelle di donna Elena saltano come pulci su un lenzuolo: qui, là, s’incrociano, fuggono, ritornano e ciascuno è un colore, un sapore, una creatura. D’improvviso, urla atrocissime esplodono nel «basso» di don Lorenzo Vitale e s’avventano su chiunque; cadono in frantumi i vetri dell’uscio; una discinta giovane corre in mezzo al vicolo, o vi è proiettata, e grida: «Correte! Aiuto! S’ammazzano!».
Una tragedia, meno male. Tutto è in subbuglio; perfino i vecchi e i malati affluiscono da ogni parte non so se più sbigottiti o più contenti. Il pigro don Ernesto Caputo si appressa al fatto ma esclusivamente per motivi cabalistici, ossia guardandosi bene dall’oltrepassare la porticina schiantata; i soli che osino un vero intervento, il massiccio carbonaio e il sottile ma animoso ciabattino, vengono respinti da un enorme cassetto di armadio che per poco non li abbatte e che sparpaglia intorno biancheria, scatole, polizze di pegno, boccette, mazzi di calze rotte. Guardie, si grida, guardie! È una invocazione solo apparentemente generica, poiché nel terzo «basso» del vico Impagliafiaschi risiede un autentico questurino, don Eduardo Tarallo, il quale stava dormendo e si è svegliato. Sua moglie, donna Amelia, e le figlie Assuntina e Nunzia, lo scuotono, sulle prime, inutilmente. «Sono fuori servizio. Non vedo e non sento», è la sua risposta. «Papà, che figura» bisbigliano le ragazze, sollevandolo per i gomiti. «Non ci possiamo estraniare» delibera la signora Tarallo, abbottonandogli i calzoni. Don Eduardo piglia il maiuscolo revolver con cui non ha mai sparato ad anima viva, e, in maniche di camicia, bestemmiando, esce. «Circolate!» grida; la folla si spacca, ammutolisce e questo repentino silenzio, interrotto soltanto dai tonfi che si moltiplicano nel «basso» indemoniato, allarga e trasfigura il vicolo. C’è tensione, qui. Un bambino, sporgendosi eccessivamente da una finestrella del quarto piano, perde l’equilibrio; sua madre lo ghermisce per un vero miracolo dei suoi santi protettori Cosma e Damiano; lo recupera, si può dire, ma è così posseduta dall’ansia di apprendere come si comporteranno il destino e don Eduardo, che dimentica di spaventarsi. «Mani in alto!» ingiunge lo strenuo rappresentante della legge, provando contemporaneamente l’impressione di ricevere nel petto una cornata di toro. Dei due uomini che si azzuffavano oltre la soglia, uno lo ha disorientato gettandoglisi contro a testa bassa, e fugge ora come un ricordo verso Porta San Gennaro; dolorante, imbestialito, don Eduardo piomba sul residuo e meno accorto don Lorenzo Vitale. Se ne impadronisce da uomo a uomo, ossia prima ripone l’arma (sulla quale ha subito smesso di contare) e poi afferra don Lorenzo e comincia a strangolarlo.
Che scena: la legge ricompare nel vicolo e porta don Lorenzo, il quale strilla e scalcia, letteralmente a tracolla. Gesù, povero giovane. Chi può sottrarsi alla compassione suscitata da un uomo, da un marito, da un bravo sarto nato e cresciuto nel vico Impagliafiaschi, e i cui piedi, sia come sia, tutt’a un tratto non toccano terra? La gente si impietosisce ed esclama: «Don Eduardo, c’è modo e maniera!»; d’altronde il Tarallo ansima per lo sforzo, mentre il più vicino Commissariato è lontano. Disceso dalla guardia, don Lorenzo Vitale ne approfitta per gemere: «Lasciatemi! Io non ho fatto niente! Io sono incensurato!». Ma, sul filo di una gelida occhiata della legge, si avvede che ha ancora in mano un coltello. «In galera per tentato omicidio» vocia don Eduardo (Gesù, come gli dolgono la spalla colpita e tutti i muscoli!), trascinandolo per la giacca. Spasima, a sua volta, l’intero vico Impagliafiaschi. In fondo lo straziante don Lorenzo, che ora sembra cedere al frenetico impulso di accoltellare se stesso, è possibile che abbia svolto i preliminari dell’uccisione di sua moglie e di don Eugenio Stinco: ma senza dubbio non ha concluso niente, perché l’una e l’altro si sono dileguati; e chi sa quali torti avevano, se non tornano qui con le loro esatte ragioni; e se ognuno dovesse rispondere di tutto quello che ha tentato invano, verso la vita o verso la morte, sotto un cielo così disattento!
Per impedire che don Lorenzo si squarti, la legge è stata di nuovo costretta a indossarlo; i due uomini attorcigliati procedono per un breve tratto, finché, privi di respiro, cadono entrambi a sedere sullo scanno presso il «basso» di don Eduardo. Intorno si accalca il trepidante popolino; mille supplici occhiate accarezzano e lapidano la guardia Tarallo, il cui sudore si mescola goccia a goccia, per terra, con le lacrime dell’arrestato; Nunzia e Assuntina bisbigliano: «Papà...»; l’accidioso don Ernesto Caputo si lascia sfuggire un «Caro don Eduardo, tutti possiamo sbagliare» ma ripiega intimorito perché la legge, sufficientemente riavutasi, balza in piedi e urla: «Vi denuncio per favoreggiamento! Via di qui! Circolate! E a voi, Vitale, vi debbo interrogare». Queste ultime parole sono rassicuranti. Don Eduardo prende tempo, è chiaro. La folla arretra, molti fingono di tornare alle loro occupazioni, ma non perdono di vista i due uomini. È discesa la sera: con impercettibili scosse, nel «paniere», come sugli innamorati del vico Impagliafiaschi scendono i bigliettini delle ragazze dell’ultimo piano. Si riode qualche zufolìo all’anice, alla prugna, al mandarino. Sul banco di donna Elena le fette di noci di cocco sembrano altrettante risate di negri. Don Eduardo, senza lasciare il polso di don Lorenzo, gli parla.
Don Eduardo: «E così ti sei rovinato... ti stavi rovinando». Don Lorenzo: «Ho creduto di impazzire. Per quanto bene volete alle vostre figlie, davanti a Dio ve lo giuro: un’infamia simile non me l’aspettavo! E come, io per Eugenio mi sono levato il pane di bocca! Don Eduardo, ma qua stiamo in mezzo ai lupi? Io da oggi in poi l’unico lontano parente che ho è mio padre; anche perché, salute a voi, lo perdetti di paralisi nel ’40. Mi sposai orfano di genitori, vi ricordate? Carmela non mi ha diviso con nessuno... e adesso vi raccomando i risultati!». Don Eduardo: «Dove vuoi andare? Ti rendi conto, o no, che sei in arresto? Calma, calma... dimmi che diavolo è successo». Don Lorenzo: «Una infamia assoluta. Eugenio e sua moglie dopo i crolli del ’42 stavano in mezzo a una strada. E tu vieni a coabitare, gli dissi io. Me li presi entrambi, abbiamo mangiato negli stessi piatti per tanti anni. Don Eduardo, in poche parole: Eugenio è rimasto vedovo il mese scorso; oggi esco per comprare certe stoffe ma torno indietro, avevo dimenticato i campioni... così entro di colpo e li vedo». Don Eduardo: «Parla chiaro». Don Lorenzo: «Mancavo da tre minuti e già non erano in regola. Basta! Lasciatemi!». Don Eduardo: «Fermo, o nel tuo sicurissimo interesse ti porto in galera!».
Silenzio e lacrime. Piange don Lorenzo e piangono le tre Tarallo nell’interno del «basso». Crampi non meno acerbi mordono i curiosi inchiodati ai parapetti e alle ringhiere. Sopravvengono un lattaio con due capre al guinzaglio e un paralitico in una cassetta munita di quattro rotelle di ferro; il tempo, sorvegliatissimo dalle stelle che si moltiplicano, non si ferma un attimo. Ciò è così vero che, verso mezzanotte, don Eduardo ha lasciato il braccio di don Lorenzo e sta sussurrandogli:
«Una donna, un’altra donna e tutte le donne... quelle sono di un valore incalcolabile nel periodo in cui ti amano con certezza; ma poi? Tu se ci rifletti bene l’uxoricidio per affronto ricevuto è un controsenso, equivale a scassinare una cassaforte vuota. Io capirei più l’individuo che dicesse: mia moglie mi adora, la voglio sopprimere per paura che cambi idea, prima che cambi idea. Conti alla mano: hai perduto una falsa femmina e un falso amico; ti rimangono un uomo reale (ossia tu stesso: Lorenzo Vitale in persona), una propria casa e un proprio mondo puliti, rimessi a nuovo, tutti per te. Mi sono spiegato? Firma, firma, è un affare».
«Don Eduardo, parola mia, ho il cuore spaccato ma un pezzo di cuore mi dice che siete la bocca della verità.»
L’una, le due. Il vico Impagliafiaschi, rassicurato e deluso, tace. Perfino il banco di donna Elena è sparito, qualche frammento di ghiaccio scintilla sulle selci e man mano si estingue, come un lumino. Don Lorenzo Vitale è in arresto, o no? Difficile stabilirlo. Egli potrebbe alzarsi dallo scanno e andarsene quieto quieto, se gli occhi non gli si chiudessero invincibilmente e se don Eduardo Tarallo non gli dormisse in braccio.
GLI SPECCHI NON SANNO
Giuro che la camicia con cui nacque don Aurelio Migone era di purissima seta e di buon taglio. Chi, avanti, chi suppone che la fortuna e l’eleganza di questo Brummel del rione Avvocata non abbiano esattamente la sua età? Succhiò latte e raffinatezza dico io. Ebbe inizio come uno straordinario bambino vestito e calzato ogni giorno...