Piccolo Capo Bianco
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Piccolo Capo Bianco

  1. 512 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Piccolo Capo Bianco

Informazioni su questo libro

Affascinato dai racconti dei pionieri, a dodici anni Amos cerca di convincere il padre a partire per l'avventura, verso il West. Ma il padre è felice e appagato, non desidera altro, e al fi glio non rimane che disegnare sui banchi di scuola gli accampamenti e i guerrieri indiani che popolano i suoi sogni. Finché un giorno scoppia la guerra, che spacca in due gli Stati Uniti d'America e trascina tutti sulle polverose piste dell'Oregon Trail. Il destino spinge Amos dove aveva sempre desiderato andare, ma pretende un costo altissimo, mettendolo a faccia a faccia con la morte e la violenza. Eppure tra le cruente battaglie e la fatica del cammino Amos assapora anche l'incontro con una civiltà diversa: spinto a presidiare la frontiera, entra in contatto con i Sioux, ne impara la lingua e i costumi, e decide di percorrere insieme a loro una strada d'amicizia e rispetto, così profondi da meritargli un nome indiano tutto suo: Piccolo Capo Bianco. Così accadde a Caspar Collins, meglio noto come Balla coi Lupi, alla cui vita è ispirato questo romanzo che ripercorre gli anni della guerra civile americana in un'accurata ricostruzione storica e dando voce ai pensieri di Amos diventa incalzante racconto d'avventura.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
Print ISBN
9788817042512
eBook ISBN
9788858651322
PARTE PRIMA
La Casa del Corniolo
Amo gli alberi perché sembrano più rassegnati di altre cose alla loro condizione di vita.
Willa Cather, O Pioneers!
I
Cresceva un albero nel retro del nostro giardino, un corniolo. Si drizzava fiero, dando a intendere d’esser più alto dei suoi scarsi dieci piedi, e solido e tenace si ancorava alla terra che lo nutriva con fonde radici. Amavo restare disteso sotto la sua chioma bassa e allungata, sfilacciata come certe nuvole nei giorni di vento, e osservare, al di là delle sue foglie a forma di cuore, strappi di cielo immaginando i miei giorni a venire, nell’attesa d’essere soffiato al bordo del mondo.
Il futuro, all’epoca dei miei dodici anni, era un foglio bianco su cui spargere forme e colori.
All’ombra del corniolo le mie sorelle, Josephine e Mary, trascorrevano lunghi pomeriggi d’ozio, le gonne distese come pozze di tessuto, a sussurrarsi invidiati segreti. Secco e aggrottato in inverno, in primavera l’albero si ricopriva di candidi fiori dalla vita breve che mia madre raccoglieva e posava sulla scrivania di mio padre e sui cuscini dei nostri letti e sulla tavola, non per il loro profumo, che era in verità un aroma sbiadito, ma solo per prolungarne la bellezza, in un gesto che racchiudeva in sé amore e rispetto.
Quel corniolo era il nostro albero, voglio dire l’albero della mia famiglia. E anche se era nato e cresciuto prima di noi e forse qualcuno prima di noi in quello stesso terreno lo aveva sentito suo, ora apparteneva alla nostra famiglia, non come oggetto, poiché vivendo ben più a lungo di qualsiasi uomo sarebbe presto sfuggito al concetto di proprietà, bensì come parte di essa, e come tale vegliava su di noi proteggendoci.
A breve distanza mio padre, uomo industrioso che associava a un fine intelletto un’abilità artigianale straordinaria, aveva costruito con le sue stesse mani la casa nella quale abitavamo, assegnandole per questa ragione il nome di Casa del Corniolo, secondo una consuetudine del tempo.
Era una casa semplice, austera nella sua architettura lineare, messa insieme con solide travi di quercia, chiodi e sudore; un cuore di legno pulsante attorno al quale coltivare e rafforzare gli affetti familiari: saldo, tenace e affidabile come il corniolo da cui traeva il nome. Nella sua semplicità dava conto di un pensiero costante di mio padre: l’inutilità del superfluo nella vita dell’uomo. Un individuo è tanto più ricco quante più sono le cose di cui può fare a meno, diceva, citando Henry David Thoreau. E sebbene ai nostri giorni non mancasse nulla di necessario, ci era vietato indulgere nei lussi che altre famiglie in città si permettevano, oltrepassando talvolta i limiti dei loro bilanci domestici pur di appagare frivoli desideri, fatto che mio padre riteneva deplorevole oltre che insensato. Vestivamo di panno potendoci permettere la seta e questa, sempre secondo papà, sarebbe stata un giorno la nostra forza.
Eppure William Ascher non era affatto un uomo ombroso o cupo o inflessibile. All’occorrenza sapeva essere cordiale e disponibile, per quanto taciturno. La sua apparente rigidità, la rettitudine di pensiero, lo spiccato senso del dovere, la lealtà erano legate strette alla consapevolezza del proprio ruolo di padre, cittadino e marito. Le idee che permeavano la sua condotta, e con essa i precetti ai quali si atteneva, erano figlie alla pari dell’educazione ricevuta e delle vampe culturali che alimentavano quei giorni appassionati, e sebbene talvolta faticassi a comprendere e accettare le sue ragioni, in lui vedevo l’ardente grandezza e la solennità di un romantico paladino; e ne ero affascinato.
Un pomeriggio, dopo aver sentito Josephine lamentarsi della semplicità del nostro mobilio paragonato a quello di alcuni conoscenti, papà tornò dalla città portando una targa di ottone così lucente che l’ultimo sole vi si specchiava mandando bagliori infuocati. Lo seguimmo attraverso il giardino, ronzanti e curiosi come insetti, pensando che avesse tra le mani un dono per noi. Restammo a guardarlo a bocca spalancata mentre inchiodava quella fulgida placca alle assi del portico. Terminato il lavoro roteò il martello come avrebbe fatto un cowboy con la sua rivoltella e si volse a noi soddisfatto.
«Ciò che abbellisce una casa sono gli amici che la frequentano» disse, ripetendo le parole incise sulla targa.
Erano di Emerson, una delle personalità più interessanti in quel ritaglio di secolo, un uomo che mio padre ammirava senza riserve.
Quella stessa sera fece trovare sul comodino accanto al letto di Jo una copia fresca di Casa desolata, di Charles Dickens.
Né la citazione né il romanzo riuscirono a risollevare l’umore di mia sorella; però riflettevano appieno il pensiero di nostro padre, e la Casa del Corniolo era così ricca di frequentazioni diverse e assidue che se avessimo avuto più mobili non avremmo saputo dove sistemare gli amici.
E se la casa era il cuore pulsante dei nostri affetti, il salotto lo era della casa, avvolto in un perpetuo tramonto ricreato dal fuoco del grande camino che rifulgeva sulle pareti cremisi. Accoglieva parenti amici e conoscenti, e lì germinavano discussioni, in genere riservate agli uomini, sui temi dell’economia e della politica, ma altresì di letteratura, arte e talvolta filosofia. Le donne, in quelle occasioni, si ritiravano in cucina solo poiché zuppe, mortai e paioli da sfregare favorivano, secondo l’opinione di mia madre, lo sbocciare di pensieri eletti e soprattutto di azioni conseguenti. I propositi degli uomini, diceva lei, sono come i figli: sopito l’impeto, spetta alle donne portarli avanti.
Se il cattivo tempo o l’ora tarda ci consigliavano di restare dentro casa, le mie sorelle ed io origliavamo brandelli di parole, accoccolati nella penombra in cima alla scala, le dita serrate sulla ringhiera e i nasi sporgenti al di là come reclusi in attesa del pasto. A volte il senso di quelle conversazioni ci sfuggiva, a volte ci inquietava.
II
Mio padre non limitava le proprie attività alla costruzione di sobrie dimore, al perseguimento di virtuosi precetti e alle discussioni elevate nel salotto di casa. Era avvocato, amministratore della scuola maschile di Hillsboro, esattore delle tasse e consigliere comunale. Pareva che non potesse fare a meno di impegnare il proprio tempo in una qualche occupazione, al punto che spesso la mamma lo punzecchiava dandogli notizia di un posto libero da capostazione o carpentiere, oppure avvisandolo che il roseto della signorina Marryweather richiedeva d’essere potato o ancora che Samuel Lothrop, titolare dell’omonimo emporio, assumeva garzoni all’onorevole salario di un soldino l’ora.
Sebbene papà si dedicasse a un numero tanto considerevole di faccende, trovava comunque il tempo di portarmi a pesca con lui lungo il Clear Creek, il torrente che serpeggiava a ovest della città, o a passeggiare nei fitti boschi alle spalle della nostra casa, o di insegnarmi a cavalcare un baio mansueto che aveva comprato apposta per me e che, nella piccola stalla costruita nell’angolo più remoto del nostro terreno, faceva compagnia ai due quarter horse che cavalcava mio padre o che attaccava al calesse. Ero orgoglioso delle ore che mi dedicava sottraendole ai suoi molteplici e ragguardevoli impegni. E ancora di più mi inorgogliva il fatto che non mostrasse lo stesso tipo di attenzioni nei confronti delle mie sorelle, con le quali scambiava fugaci battute durante il pranzo o la cena o tutt’al più sotto il portico la domenica, fatto questo che m’induceva a pensare, naturalmente a torto, di essere il suo preferito.
In riva al Clear Creek stavamo spesso in silenzio, prestando attenzione al vocio della corrente di ritorno che aggirava una roccia, ai sibili delle nostre canne che fendevano l’aria nell’armoniosa parabola di un lancio, allo sciaguattare della pinna dorsale di un salmerino dalle macchie gialle o al fraseggio elegante del mimo rossiccio nascosto tra i rami delle betulle.
Riservavamo le parole alla strada che ci avrebbe ricondotti a casa: era il momento che preferivo poiché era precisamente allora che intravedevo, sotto quel volto talora indecifrabile, sotto quella folta barba rassicurante – in un lampo di verità fuggevole – non William Ascher, l’avvocato, l’amministratore scolastico, l’esattore delle tasse, il romantico paladino difensore di principi e libertà, ma semplicemente mio padre.
A volte ci fermavamo vicino a una roccia coperta di muschio o un tronco caduto e contorto, all’ombra di un cespuglio di sommacchi. Sorseggiavamo dell’acqua dalle nostre borracce, commentavamo la giornata appena trascorsa e poi papà estraeva dalla piccola borsa di pelle che portava a tracolla – secondo un costume più consono a un trapper che a un avvocato di città – uno dei volumi della sua notevole biblioteca, ne apriva una pagina con delicatezza e cominciava a leggermene un passo, recitandolo con partecipazione e rispetto.
«Amos, ascolta» diceva.
E io, rapito, lo ascoltavo declamare la natura, quella selvaggia, libera, incontaminata, da cui tutti veniamo, celebrare lo studio, l’osservazione, lo sperimentare, le sementi di una vita semplice, magnanima e fiduciosa, a cui dovremmo tendere, ed avversare le insidie nascoste nelle false virtù, che sono oziose e ammuffite.
III
Mia madre Catherine, al contrario, non declamava frasi sulla purezza della vita nei boschi, né aveva l’abitudine di citare motti attribuiti a liberi pensatori o filosofi. Eppure la natura esercitava anche su di lei un potentissimo ascendente, che si manifestava nel suo interesse per la pratica del giardinaggio. Argomentava di talee, innesti, concimi, potature e impianto dei bulbi con la stessa scioltezza con la quale le sue amiche discutevano di coperte, arrosti o copricapi alla moda.
La rivedo, attraverso il velo del ricordo, con quel suo grande cappello di paglia a ripararla dal sole, china accanto a un cespuglio di biancospino o intenta a curare con materna dedizione il terreno ai piedi del suo melo preferito, con la medesima tenera premura con la quale fino a non molto tempo prima aveva rimboccato le coltri mie e delle mie sorelle.
Le rare volte in cui acconsentiva a riporre i guanti da giardino e le zappette e a discostarsi dalle amate piante era per raffigurarle nei quadri che dipingeva. Mamma era una pittrice autodidatta, ma appassionata, e i suoi semplici dipinti ebbero una grande influenza su di me. Restavo a osservarla a lungo mentre, l’espressione contratta, la testa lievemente inclinata da un lato per catturare l’essenza del soggetto da riprodurre, distribuiva il colore sulla tela utilizzando il pennello come un direttore d’orchestra avrebbe fatto con la propria bacchetta: con umile padronanza.
E io la imitavo, tentando di riprodurre i bozzetti nel momento stesso in cui li vedevo realizzati da lei.
«Amos Wever Ascher» mi diceva a volte osservando i segni che la mia mano tracciava col carboncino sul foglio. «Potresti diventare un bravo pittore.»
Ma io, a dire il vero, avevo altri progetti.
All’ombra del corniolo, gli occhi affondati in un cielo scintillante, sognavo di indiani, di vita selvaggia, di caccia ai bisonti, di piste, di mandrie. Da ogni dove giungevano alle mie orecchie voci di uomini pronti a partire, a caricare sopra un carro tutto quanto possedevano – o quanto non fossero disposti ad abbandonare – e a solcare per duemila miglia l’oceano verde dei Grandi Piani e i diabolici picchi delle Montagne Rocciose fino alle fertili vallate del Willamette, emuli di quegli spagnoli e di quei portoghesi che sui loro schooner si diceva avessero barattato l’anima pur di raggiungere il Regno di Prete Gianni. E leggevo le gesta di coloni e coraggiosi pionieri e trapper come Natty Bumppo, i racconti marinareschi di Richard Henry Dana, gli entusiasmanti diari di viaggio di Washington Irving, calandomi nelle pagine e godendone a fondo.
Per quanto il nostro corniolo avesse solide radici e la nostra casa fondamenta profonde e le sue pareti trasudassero ferrei principi, avvertivo incontenibile in me, a tratti addirittura travolgente, lo spirito del pioniere che aveva mosso i cuori dei nostri progenitori europei, e, nonostante sentissi di appartenere al luogo in cui vivevo, ciò non m’impediva di desiderare ardentemente il viaggio, l’avventura, anche se questa avesse voluto dire lasciare la Casa del Corniolo e l’universo certo della mia infanzia.
IV
Una calda e immobile sera di maggio, soffusa del profumo del glicine che fioriva davanti alle finestre del salotto – una di quelle sere in cui me ne stavo sotto il portico a fantasticare dei miei viaggi futuri, ben sapendo che proprio quei giorni erano i giorni propizi per le partenze – venne a salutarci un conoscente di mio padre, il signor Ezra Meeker, impiegato all’Ufficio del Telegrafo, un uomo di una quarantina d’anni, dall’aspetto rubicondo e dalla parlantina gioviale e contagiosa. Era la sua ultima sera a Hillsboro: il mattino dopo, all’alba, sarebbe andato nell’Oregon.
Ricordo i suoi occhi, umidi di eccitazione come i miei, e la sua voce, acuta e controllata a stento come lo sarebbe stata la mia se avessi avuto la facoltà di parlare, mentre diceva:
«Terra che basta gettarci i semi e il raccolto cresce da sé, alto, forte, come corde di canapa… Terra nera, così grassa che ti unge le dita e che la potresti spalmare sopra una fetta di pane… Boschi fitti come capelli sulla testa di un negro… e selvaggina, che ancora non conosce a sufficienza l’uomo e non lo teme… E acqua in abbondanza… Credimi, William, esiste davvero la Terra Promessa ed è lì, all’ovest. Tutto quello che si deve fare è allungare una mano e aver la presa salda in modo da afferrarla e non lasciarsela sfuggire più!»
Mio padre ascoltava senza fare commenti. Di tanto in tanto annuiva, di modo che il signor Meeker avesse l’impressione di essere ascoltato, oppure versava dell’altro braggot nei bicchieri che mia madre aveva portato in salotto, ma non diceva nulla. Le mie sorelle, dal canto loro, si erano arrese molto presto, del tutto insensibili a quel genere di racconti, e sbadigliando avevano chiesto e ottenuto il permesso di ritirarsi.
Il signor Meeker raccontò di aver venduto gran parte dei suoi averi, di aver messo quel che gli restava – compresa la moglie e i quattro figli – a bordo di due carri Conestoga di costruzione germanica, 11 piedi per 3, coperti da teloni e trainati ciascuno da una coppia di buoi, e di essersi unito a una comitiva che contava in totale diciotto famiglie. A Dio piacendo, avrebbero impiegato cinque mesi per raggiungere il Pacifico.
«E una volta giunti in Oregon» aveva concluso, «potremo acquistare tutta la terra su cui metteremo le mani a 1 dollaro e 25 l’acro!»
Mio padre si limitò ad osservare che 1 dollaro e 25 gli sembrava una buona cifra.
Che cosa avrei dato per poter partire con il signor Meeker. Mi sembrava quasi di percepire il cigolio dei mozzi, lo scricchiolio delle travature di legno, il respiro affannoso delle bestie, il loro sbuffare, l’odore penetrante della pelle sudata, il frastuono di centinaia di zoccoli. E mi pareva di avvertire – sotto i denti, negli occhi e sulle guance arrossate dall’aria tersa – la polvere della pista, ruvida e calda e secca.
Rimasi ad ascoltare il signor Meeker per tutta la sera, rapito dalle sue parole e sordo agli inviti di mia madre che voleva spedirmi a letto, fino a che, considerata la quantità di liquore che il nostro ospite si era scolato e l’ora tarda e il ripetersi ormai delle stesse argomentazioni, mio padre pensò che fosse giunto il momento di metterlo amichevolmente alla porta.
«Ti aspetta una grande giornata, domani» disse, porgendogli il cappello. «Buona fortuna, Ezra. Buona fortuna di cuore.»
Forse a causa di tutto il braggot o forse poiché avvertiva di trovarsi sulla sponda del proprio Rubicone, il signor Meeker si calcò il copricapo sulla testa con un gesto esagerato simile a quello che nella mia immaginazione avrebbe fatto l’indomani. Una mano sul petto e l’altra tesa a ponente, la sua voce avrebbe dichiarato: Oregon o la tomba!
Non ho mai saputo se il signor Meeker e la sua famiglia portarono a termine l’impresa, se arrivarono...

Indice dei contenuti

  1. Piccolo Capo Bianco
  2. Copyright
  3. Dedica
  4. 1. La casa del corniolo
  5. 2. L'Elefante
  6. 3. Piccolo Capo Bianco
  7. 4. All'Ombra del Corniolo
  8. Nota dell'autore
  9. Ringraziamenti
  10. Indice