Bouvard e Pécuchet
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Bouvard e Pécuchet

  1. 400 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Bouvard e Pécuchet

Informazioni su questo libro

Ultimo romanzo del più grande scrittore francese dell'Ottocento, incompiuto e pubblicato postumo nel 1881, un anno dopo la morte dell'autore, è un affresco satirico della stupidità umana. Due scrivani, legati da amicizia, si ritirano in campagna per cimentarsi con vari ambiti dello scibile, dalla medicina alla geologia, dall'archeologia alla letteratura, dallo spiritismo alla pedagogia. L'esito del loro libresco accanimento è, però, fallimentare: il furore classificatorio scivola in una parabola borghese, i dettagli enciclopedici sfumano in una farsa filosofica sospesa tra ironia e malinconia. Progetto di un'intera vita, testamento spirituale, enciclopedia dell'insensatezza, Bouvard e Pécuchet è una critica pungente della retorica del progresso e del secolo che l'ha incarnata.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817170765
eBook ISBN
9788858652664

VIII

Soddisfatti di questo regime, vollero migliorarsi la costituzione con un po’ di ginnastica.
E dopo essersi procurati il manuale di Amoros, ne sfogliarono le tavole.
Tutti quei ragazzi, accovacciati, piegati all’indietro, in piedi, a gambe flesse, le braccia aperte, i pugni protesi, in atto di sollevare pesi, cavalcare travi, arrampicarsi sulle spalliere, fare capriole su trapezi, tutto quello sfoggio di forza e di agilità eccitarono la loro invidia.
Tuttavia, erano rattristati dagli splendori della palestra, descritti nella prefazione. Perché mai loro avrebbero potuto procurarsi un atrio per gli attrezzi, un ippodromo per le corse, una piscina per il nuoto, e neppure un «monte della gloria», collina artificiale alta trentadue metri.
Un cavallo di legno con imbottitura per il volteggio sarebbe stato costoso, e ci rinunciarono; il tiglio abbattuto del giardino servì loro da asse di equilibrio: e quando seppero percorrerlo da un’estremità all’altra, per avere una pertica ripiantarono uno dei travi delle controspalliere: Pécuchet si arrampicò fino in cima. Bouvard scivolava, ricadeva sempre, alla fine, ci rinunciò.
Gli piacquero di più i «bastoni ortosomatici», cioè due manici di scopa uniti da due corde, la prima delle quali si fa passare sotto le ascelle, la seconda sui polsi – e per ore si teneva quell’arnese, mento alzato, petto in fuori, gomiti stretti contro il corpo.
In mancanza di pesi, il carradore preparò al tornio quattro pezzi di legno di frassino che parevano dei pan di zucchero, e terminavano a collo di bottiglia. Queste mazze vanno spostate a destra, a sinistra, in avanti, indietro. Ma pesanti com’erano, sfuggivano loro dalle dita, col rischio di stritolargli le gambe. Pazienza, si accanirono con le «clave persiane», e addirittura, temendo che scoppiassero, tutte le sere le spalmavano di cera con uno straccio.
Poi, si misero alla ricerca di fossi. Quando ne trovavano uno che andava bene, puntavano una lunga pertica nel mezzo, prendevano la rincorsa col piede sinistro, arrivavano dall’altra parte del fosso e ricominciavano. La campagna era piatta, sicché si vedevano da lontano; – e la gente del villaggio si chiedeva che cosa fossero quei due oggetti fuor del comune che rimbalzavano all’orizzonte.
Quando venne l’autunno, si dedicarono alla ginnastica da camera; la trovarono noiosa. Avessero avuto il dimenatoio o sedile di diligenza – inventato sotto Luigi XIV dall’abate di Saint-Pierre! Com’era fatto? dove potevano informarsi? Dumouchel non si degnò neppure di rispondere!
Allora sistemarono nel locale del forno un’altalena brachiale. Su due carrucole avvitate al soffitto passava una corda, che aveva una sbarra a ogni estremità. Appena afferrata la sbarra, uno si dava la spinta con la punta dei piedi, l’altro abbassava le braccia fino a terra, il primo con il suo peso attirava il secondo, che mollando un po’ la cordicella si sollevava a sua volta; in meno di cinque minuti, erano tutti e due grondanti di sudore.
Per seguire le prescrizioni del manuale, tentarono di diventare ambidestri, al punto da non usare affatto, temporaneamente, la destra. Fecero di più: Amoros indica delle canzoncine che bisogna cantare durante gli esercizi – e Bouvard e Pécuchet, marciando, ripetevano l’inno n. 9: Un re, un re giusto è un bene sulla terra. Battendosi i pettorali: Amici, la corona e la gloria, con quel che segue. E correndo:

A noi la bestia timida!
Prendiam l’agile cervo!
Sì! vincitori noi siam!
Corriam! corriam! corriam!

E più ansimanti di cani, si eccitavano al suono delle loro stesse voci.
Un aspetto della ginnastica li esaltava: il suo utilizzo come mezzo di salvataggio. Ma ci sarebbero voluti dei bambini, per imparare a portarli in un sacco – e pregarono il maestro di fornirgliene qualcuno. Petit obiettò che le famiglie si sarebbero seccate. Ripiegarono sul soccorso ai feriti. Uno fingeva di essere svenuto, e l’altro lo trasportava in una carriola, con precauzioni di ogni specie.
Quanto alle scalate militari, l’autore consiglia vivamente la scala di Bois-Rosé, che prende il nome da quel capitano che in passato sorprese Fécamp, arrampicandosi su per la scogliera. Adeguandosi alla figura del libro, munirono una corda di bastoncini, e l’attaccarono sotto la rimessa.
Avendo inforcato il primo bastone, e afferrato con le mani il terzo, si lanciano le gambe in fuori, affinché il secondo che un momento fa avevamo contro il petto si trovi esattamente sotto le cosce. Ci si raddrizza, si impugna il quarto e si continua. – Malgrado ancheggiassero in modo inaudito, fu loro impossibile raggiungere il secondo piolo.
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Forse si fatica meno se ci si afferra alle pietre con le mani, come fecero i soldati di Bonaparte all’attacco di Fort-Chambray? – e per metterti in grado di effettuare un’impresa del genere, Amoros nel suo istituto ha una torre.
Il muro diroccato poteva ben sostituire la torre. Ne tentarono l’assalto.
Ma Bouvard, avendo tirato fuori troppo presto il piede da un buco, ebbe paura e fu preso da vertigini.
Pécuchet diede la colpa al metodo seguito: avevano trascurato le falangi – dovevano perciò ricominciare con i princìpi di base.
Le sue esortazioni caddero nel vuoto; – e nel suo orgoglio, egli abbordò i trampoli.
Pareva vi fosse destinato per natura. Perché utilizzò subito il modello grande con le due mensole a un metro e trenta da terra, – e in equilibrio a quell’altezza andava su e giù per il giardino, simile a una gigantesca cicogna a spasso.
Dalla finestra Bouvard lo vide vacillare – poi abbattersi di colpo sui fagioli, i cui tutori fracassandosi attenuarono la caduta. Lo tirarono su coperto di terriccio, le narici sanguinanti, livido – e convinto di essersi fatto venire un’ernia.
Decisamente la ginnastica non andava bene a persone della loro età. L’abbandonarono, per paura di incidenti non osavano più muoversi, e restavano tutto il giorno seduti nel museo, sognando altre occupazioni.
Questo cambiamento di abitudini influì sulla salute di Bouvard. Si appesantì molto, dopo i pasti ansimava come un capodoglio, cercò di dimagrire, mangiò meno e si indebolì.
Anche Pécuchet si sentiva «struggere», soffriva di pruriti e aveva le placche in gola. – «Non va» dicevano tutti e due. «Non va.»
Bouvard pensò di andarsi a comprare alla locanda qualche bottiglia di vino di Spagna, per ridarsi la carica.
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Mentre usciva dalla locanda, il giovane di studio di Marescot e tre uomini stavano portando a Beljambe un grande tavolo di noce; «il signor notaio» lo ringraziava molto. Il tavolo si era comportato benissimo.
Così Bouvard venne a conoscenza della nuova moda dei tavoli che si muovono. Ci canzonò il giovane di studio.
Eppure in tutta Europa, in America, in Australia e nelle Indie, milioni di mortali passavano la vita a far muovere i tavoli e si scopriva il modo di render profeti i canarini, di dare concerti senza strumenti, di corrispondere per mezzo delle lumache. Con tutta serietà la stampa offriva questi spropositi al pubblico, rafforzandone la credulità.
Gli Spiriti che battevano colpi erano sbarcati nel castello di Faverges, da lì si erano diffusi nel villaggio – e il notaio, più di tutti, li interrogava.
Urtato dallo scetticismo di Bouvard, convocò i due amici a una serata con il tavolo che si muoveva.
Poteva essere una trappola? Ci sarebbe stata la signora Bordin. Ci andò Pécuchet, da solo.
C’erano, come assistenti, il sindaco, l’esattore, il capitano, altri borghesi con le mogli, la signora Vaucorbeil, la signora Bordin, appunto, e in più una ex vicemaestra della signora Marescot, la signorina Laverrière, un tipo un po’ losco con i capelli grigi che ricadevano in riccioli sulle spalle, alla moda del 1830. In una poltrona c’era un cugino di Parigi, con un completo blu e l’aria impertinente.
I due lumi di bronzo, lo scaffale degli oggetti rari, le romanze ornate da festoni sul pianoforte, e acquerelli minuscoli in cornici enormi erano sempre oggetto di meraviglia per quelli di Chavignolles. Ma quella sera tutti gli occhi erano puntati sul tavolo di mogano. Lo avrebbero sperimentato tra poco, e aveva l’importanza delle cose che contengono un mistero.
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Dodici invitati presero posto intorno al tavolo, le mani allargate, con i mignoli che si toccavano. Si sentiva solo il tictac dell’orologio. I volti denotavano una profonda attenzione.
In capo a dieci minuti, parecchi dei presenti si lamentarono di aver le braccia informicolite. Pécuchet si sentiva un po’ male.
«Lei sta spingendo!» disse il capitano a Foureau.
«Niente affatto!»
«Invece sì!»
«Ah! badi!»
Il notaio li calmò.
A forza di stare con l’orecchio teso, parve loro di distinguere degli scricchiolii del legno. – Illusione! Tutto era immobile.
La volta precedente, quando erano venute da Lisieux le famiglie Aubert e Lormeau, e apposta ci si era fatti prestare il tavolo di Beljambe, era andato tutto così bene! Ma questo tavolo oggi dimostrava un’ostinazione!... Perché?
Certo gli dava fastidio il tappeto, – e si spostarono nella sala da pranzo.
Questa volta il tavolo era grande, rotondo, con la zampa centrale, e intorno ad esso si sedettero Pécuchet, Girbal, la signora Marescot e suo cugino Alfred.
Il tavolo, che aveva delle rotelle, scivolò verso destra; senza staccare le dita i presenti seguirono il suo movimento, e il tavolo fece ancora due giri. Tutti erano stupefatti.
Allora Alfred disse a voce forte e chiara:
«Spirito, come trovi mia cugina?». Oscillando lentamente, il tavolo batté nove colpi. Secondo un cartello, nel quale il numero dei colpi era tradotto in lettere, significava – «deliziosa». Si levarono voci di assenso.
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Poi Marescot, per stuzzicare la Bordin, intimò allo spirito di dire l’età esatta della donna.
Il piede del tavolo ricadde cinque volte.
«Come? cinque anni!» esclamò Girbal.
«Gli zeri non contano» ribatté Foureau.
La vedova sorrise, dentro di sé molto offesa.
Le risposte alle altre domande non ci furono, tanto era complicato l’alfabeto. Meglio la tavoletta, un mezzo spicciativo di cui la signorina Laverrière si era servita anche per annotare le comunicazioni dirette di Luigi XII, Clémence Isaure, Francklin, Jean-Jacques Rousseau eccetera. Questi aggeggi si vendevano in rue d’Aumale; Alfred promise di procurarne uno. Poi rivolgendosi alla vicemaestra:
«Ma per il momento, un po’ di pianoforte, vero? Una mazurka!».
Vibrarono due accordi. Alfred prese la cugina per la vita, scomparve con lei, ritornò. Il vestito di lei che passando sfiorava le porte, pareva rinfrescare l’ambiente. La donna mandava la testa all’indietro, lui inarcava il braccio. Tutti ammiravano la grazia dell’una, la vivacità dell’altro; – e senza aspettare i pasticcini, Pécuchet si congedò, sbalordito di quanto aveva visto.
Ma ebbe un bel dire e ridire: – «L’ho visto io! l’ho visto io!» Bouvard negava i fatti, benché alla fine acconsentisse a sperimentare di persona.
Per quindici giorni trascorsero i pomeriggi uno di fronte all’altro, con le mani appoggiate su un tavolo, poi su un cappello, su un cesto, su una pila di piatti. Tutti questi oggetti rimasero immobili.
Il fenomeno dei tavoli che si muovono non è per questo meno vero. Il volgo lo attribuisce agli spiriti, Faraday al prolungamento dell’azione nervosa, Chevreul a stimoli inconsci, o forse, come riconosce Ségouin, dall’assembramento di persone si sprigiona un impulso, una corrente magnetica?
Questa ipotesi fece sognare Pécuchet. Prese dalla sua biblioteca il Guide du magnétiseur di Montacabère, lo rilesse attentamente, e iniziò Bouvard alla teoria che vi era esposta.
Tutti i corpi animati ricevono e comunicano l’influenza degli astri, proprietà analoga a quella della calamita. Dirigendo questa forza si possono guarire i malati, questo è il principio. Dopo Mesmer, la scienza si è sviluppata; – ma resta importante che il magnetizzatore emani il fluido e faccia gesti destinati, in primo luogo, ad addormentare.
«Va bene, addormentami» disse Bouvard.
«Impossibile» replicò Pécuchet «per subire l’azione magnetica e per trasmetterla è indispensabile la fede» poi, contemplando Bouvard: – «Ah, che peccato!».
«Come?»
«Sì, se tu volessi, con un po’ di pratica, saresti un magnetizzatore eccezionale!»
Perché aveva tutto quello che ci voleva: un modo di fare simpatico, la costituzione robusta – carattere e intelligenza saldi.
Bouvard si sentì lusingato che venisse scoperta in lui quella facoltà. Si immerse con aria beffarda in Montacabère.
Poi, siccome Germaine aveva dei ronzii che l’assordavano, una sera disse, con tono indifferente: «Se provassimo col magnetismo? ». Lei non vi si sottrasse. Egli si sedette davanti a lei, le prese nelle mani i pollici, – e la guardò fisso, come se non avesse fatto altro in vita sua.
La buona donna, uno scaldino sotto i piedi, cominciò a inclinare il collo. Le si chiusero gli occhi e piano piano si mise a russare. Dopo un’ora che la osservavano tutti e due, Pécuchet disse a voce sommessa: «Che cosa prova?».
Lei si svegliò.
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In seguito sarebbe certamente venuta la lucidità.
Questo successo li rese arditi, – e riprendendo con disinvoltura l’esercizio della pratica medica, curarono Chamberlan, lo scaccino, per i suoi dolori intercostali, Migraine, il muratore, che aveva una nevrosi allo stomaco, comare Varin, che doveva fare impiastri di carne per nutrire il gonfiore sotto la clavicola; il Lemoine, un gottoso che si trascinava per le osterie, un tisico, un emiplegico, e molti altri. Curarono anche corize e geloni.
Dopo l’indagine sulla malattia, si consultavano con lo sguardo per sapere di quali gesti servirsi, se dovevano essere ad alta o bassa frequenza, ascendenti o discendenti, longitudinali, trasversali, con due, tre o addirittura cinque dita. Quando uno non ne poteva più, l’altro lo sostituiva. Poi, dopo esser rientrati, annotavano le loro osservazioni, sul diario della terapia.
I loro modi melliflui conquistarono tutti. Preferivano però Bouvard – e la sua fama arrivò fino a Falaise quando ebbe guarito «la Barbata», figlia di compare Barbey, un ex capitano di lungo corso.
Questa si sentiva come un chiodo all’occipite, parlava con voce roca, spesso restava parecchi giorni senza mangiare, poi divorava gesso o carbone. Le sue crisi di n...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA STUPIDITÀ E L'AMICIZIA
  4. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
  5. I
  6. II
  7. III
  8. IV
  9. V
  10. VI
  11. VII
  12. VIII
  13. IX
  14. X
  15. CONFERENZA