Il corruttore
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Il corruttore

  1. 396 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il corruttore

Informazioni su questo libro

Un nuovo cantiere edile si apre come uno sfregio sulle colline che circondano un'antica città italiana. In costruzione è la nuova villa, l'ennesima, di Angelo Ratti, un arricchito corrotto e corruttore, privo di qualsiasi senso etico e destinato a una carriera politica di successo. Il mostruoso edificio, che cresce infrangendo ogni norma, senza il minimo rispetto per l'ambiente, sorge accanto all'abitazione di Antonio Antiquo, docente di Letteratura greca all'università. Personaggio di un'onestà cristallina, amato e rispettato dai suoi concittadini, Antiquo decide di ribellarsi a quella che ritiene una vera profanazione subita da lui, dai suoi famigliari e dalla comunità tutta. Indignato dalla sopraffazione e richiamandosi ai princìpi nati nella civiltà greca, si affida alle armi del diritto e delle leggi, che però si riveleranno inefficaci contro lo strapotere del denaro e della corruzione. Ma il professore si batterà sino alla fine, in nome dei valori etici e della democrazia, anche se la sua lotta ha il senso di un'agonia. Uno scontro che è una metafora inquietante della nostra società, in cui tutto ha un prezzo e in cui tutto è in vendita. Vittorino Andreoli, tra i più acuti interpreti del mondo di oggi, ci offre un romanzo appassionato e appassionante che è un grido d'allarme sul degrado morale che rischia di distruggere il nostro Paese.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
Print ISBN
9788817035477
eBook ISBN
9788858653760

IX

Non scendeva più dalla collina per andare in città. La vedeva dall’alto come un grande insieme di case ammassate l’una sull’altra, come una macchia di cemento che aveva sostituito il verde di una campagna rigogliosa.
Anche la signora si era spenta, e progressivamente trovava sempre più faticoso raggiungerla, come se non ne avesse bisogno e come se fossero sparite le bellezze storiche che la città custodiva e che talora in passato erano motivo per andare con Antonio a fare una passeggiata. Incontravano persone note, ma anche sconosciute, che salutavano e con cui si scambiava qualche commento.
Lei si attardava davanti alla vetrina di un negozio e lui proseguiva fino a una edicola di giornali, in cui erano esposte, come alla gogna, le notizie più eclatanti.
Sentiva i commenti della gente che lo aveva riconosciuto: le definizioni strane che ne davano, la meraviglia che suscitava: era alto mentre lo pensavano più basso, più giovanile rispetto a come se lo aspettavano.
Adesso sarebbe stato come avvertire di essere entrambi morti.
Il professore desiderava del resto solo scomparire, era preso da momenti di sconforto, spesso da un senso di inutilità che coerentemente sconfinava con la morte.
Lei gliela leggeva in testa la voglia di scomparire, e non faceva fatica perché l’avvertiva anche dentro di sé, proprio mentre la sentiva in lui.
Si accorgeva di come fosse stato il marito a guidare sempre la locomotiva della famiglia, anche quando stava zitto o diceva di non volersene interessare.
In realtà lei faceva, in maniera inconsapevole, ciò che lui avrebbe fatto, anche quando pensava, e magari si illudeva, di essere lei a decidere.
Non gli aveva mai manifestato un’ammirazione diretta, espresso un elogio sperticato, anzi lo criticava, ma era felice di averlo sposato, raccolto dalla strada in cui le pareva perso e di averlo salvato, secondo il sogno per lei significativo del campo di concentramento.
Ma ora gli pareva fosse rientrato in un campo di concentramento ancora peggiore.
In quella città, ai piedi della collina, silenziosa, vuota, morta; una Pompei ridotta a cenere e lapilli, da un vulcano che l’aveva bruciata per sempre.
Il professore sovente, chiudendo gli occhi e faticando a dormire, si vedeva girare per la città, per le vie che gli piacevano tanto.
Erano piene di ombre, di ombre della propria stessa giovinezza.
Visitava le chiese in cui andava a pregare da ragazzo, il seminario in cui incontrava allora il proprio padre spirituale che gli insegnava la via del cielo, ma anche quella della terra in cui mostrarsi apostolo del Signore. Si trovava nelle piazze con gli amici, dentro progetti che poi il tempo ha bruciato.
C’era in quelle strade, non solo la sua vita consumata, ma anche le vite immaginate e non vissute.
Era innamorato della sua città, ma ora come riapriva gli occhi, la rivedeva scheletrica, muta come uno dei paesaggi di De Chirico o una delle città fantasma di Buzzati.
Come se tutto fosse cambiato e lui fosse scomparso.
Non c’era più nemmeno per l’Istituto di greco, diventato celebre proprio per i suoi studi, per i convegni che aveva promosso, per l’attenzione che aveva richiamato sull’intera città. Non esisteva più nulla che lo ricordasse, era in mano a gente che lo aveva dimenticato, come se lui non l’avesse nemmeno abitato, come se nemmeno le sue lezioni avessero lasciato un segno.
Il titolare della cattedra sembrava avere esorcizzato il passato rifiutando persino di sedere alla stessa scrivania, che era stata messa nei magazzini del sotterraneo. Studiava Sparta e così insisteva nel dire che Atene non era la Grecia antica, ma soltanto una sua parte decadente, fatta di gente inutile che andava a passeggiare lungo l’Agorà inventando sistemi filosofici.
Non c’era più nulla nell’Istituto che richiamasse il pensiero di Antiquo: era cambiato tutto, come quando si butta giù una casa e si costruisce un grattacielo che non lascia nulla che possa richiamare il passato, totalmente sepolto.
Della città gli Antiquo non sapevano più nulla, non solo perché non la percorrevano, ma anche per il fatto che non incontravano più nessuno che gliela raccontasse, che ne mettesse in evidenza la novità e la distanza da quella che loro avevano conosciuto e che era rimasta nella loro mente come una sinopia del passato.
La immaginavano diversa anche nelle strade, nei monumenti, ma non sapevano quanto e come, un cambiamento indefinito e sconosciuto che lascia spazio a fantasie, persino tremende.
È inutile fare la storia delle città, della loro architettura, dell’arredamento, della nascita dei borghi. È più sensato fare quella dell’uomo perché tutto quanto viene realizzato di fisico, di marmoreo, è prima nella sua mente. L’uomo è il protagonista del teatro di città e di ciò che vi si rappresenta, fino alla distruzione o alla esaltazione.
Gli uomini ammassati, in corsa per il denaro, senza nemmeno il richiamo della natura: degli uccelli, delle farfalle, dei coleotteri che il professore amava particolarmente, e poi dei fiori e delle piante.
A cambiare le città sono gli uomini, che mutano facilmente come le banderuole, più dei camaleonti.
Si chiama flessibilità, una dote che sostituisce la coerenza, un vecchio principio secondo cui l’identità si lega alla stabilità, alla fedeltà che significa restare aderenti ai propri princìpi, alle tradizioni di famiglia o di civiltà.
I princìpi ordinano il mondo che cambia, non mutano e per questo riorganizzano coerentemente ciò che si chiama nuovo, ciò che la tecnologia può apportare alla civiltà.
I princìpi sono al di sopra della storia e non si prostituiscono mai con il tempo che passa.
Una visione oggi ridicolizzata perché si pensa che la variazione sia comunque e sempre segno di vitalità e che un uomo che vive ottant’anni animato dalle stesse idee sia semplicemente un assurdo.
Come pensare di tenere le botti vecchie per il vino nuovo; come pensare che si possa usare il focolare per riscaldare un grattacielo; come credere di potere rimanere fedele a un’unica compagna avendo sentimenti che si consumano in qualche decennio, e con la voglia di un’altra storia che sostituisca la prima che va posta in soffitta, come si fa con gli scarponi di un tempo, di cuoio resistente ma rigido rispetto ai nuovi materiali che calzano il piede con eleganza, ma soprattutto che danno una sensazione di maggior benessere.
L’imperativo dell’uomo nuovo era il cambiamento. Così nessuno più pensava che ci si dovesse migliorare, che si dovesse perseguire un dovere essere come ideale del proprio Io, che esistessero norme precise da seguire. Tutto all’insegna del tempo presente e di ciò che si è, nascondendo persino ciò che si è stati.
Così naufragano i progetti educativi, perché non esistono modelli da raggiungere e un percorso indicato per passare dal peccato alla virtù, da un difetto alla costruzione di un pregio.
L’uomo è ciò che è, senza imperativi che generano solo conflittualità e infelicità. Ciascuno deve essere contento di essere senza mai dovere imparare a come liberarsi dalle incrostazioni. Non c’è tempo per progettare, ma solo per indossare una nuova maschera, richiesta dalla parte che si deve recitare, e poi dimenticare.
Un uomo flessibile per un mondo flessibile che cambia gusto, desideri e princìpi. Un mondo senza riferimenti perché i riferimenti stessi cambiano, dunque tutto diventa relativo, dipende da quando e da come.
Si può parlare di morale, che si crede derivare da princìpi ritenuti strutturali all’uomo e quindi ben definiti e immutabili, quando invece è possibile camminare in un mondo con princìpi totalmente differenti? Si può continuare a parlare di morale, se ne esistono tante e se tutte teoricamente permettono di vivere perfettamente adeguati, basta trovare il luogo e le persone adatte in cui esprimerle?
Sarebbe come volere misurare una distanza con un metro che muta continuamente.
Non esiste più una morale se l’uomo non ha un piano di cambiamento per raggiungere modelli esemplari e ideali; non si pone nemmeno il problema di educare, se tutto ha lo stesso significato e se non serve migliorarsi. Meglio dotarsi di una serie di maschere da indossare e vivere dentro un teatro infinitamente vario, senza più nemmeno un filo conduttore. Una improvvisazione continua, un mondo non fissato da regole, come se ne potesse prescindere completamente.
L’uomo nuovo, grazie anche alle nuove psicologie, sapeva come vincere i propri limiti, come evitare le frustrazioni e avvicinarsi al successo, che non rimaneva più un’illusione da spostare in cielo o in qualche nirvana, ma poteva realizzarsi subito, qui e ora nel mondo, in qualche modo, magari con la forza e il sopruso.
Con l’esigenza prima di affermazione del singolo, la comunità, e persino il significato di nazione, avevano perduto di valore: erano delle sovrastrutture che appesantivano l’esistenza.
Anche la politica era cambiata e aveva perso il contenuto ideale, dominava una politica empirica che dava risposte pratiche a eventuali problemi che la città avesse rilevato: il come aggiustare una strada rotta, come affrontare il tema della immigrazione. Senza credere più in princìpi assoluti e nemmeno buoni o cattivi. Niente ideologie, niente morale: non si era né cattivi né buoni, semplicemente realistici.
Se gli extracomunitari creavano fastidi ai cittadini italiani, allora si cacciavano. Ogni città faceva le proprie scelte empiriche, differenti perché una città era diversa da un’altra, più ricca di un’altra, perché il nord produceva più reddito del sud dove dominava la mafia che cresceva meglio nella miseria.
A ogni città il proprio empirismo e i problemi certo non mancavano, tant’è che le elezioni, che si ripetevano ogni cinque anni, erano caratterizzate dalla elencazione dei problemi locali e dalle proposte di soluzioni che il candidato sindaco elencava per attirare voti e conquistare il potere pubblico.
Il professore Antiquo non si era mai occupato di politica e se mai si riferiva alla res publica di Platone.
Gli era sembrato però che adesso fosse diventata un mestiere e che una volta assunta la carica, uno facesse di tutto per rimanere al comando, come se fosse la fonte della vita e certo del denaro che poteva accumulare.
La politica nazionale si era frammentata e le elezioni cittadine, che dovevano portare alla scelta del sindaco, erano la chiave vera della novità.
Bisognava trovare facce nuove che potessero puntare sul colpo di fulmine, su un innamoramento.
E a questo scopo contava il look, un certo modo di fare, il successo raggiunto che portava implicitamente il messaggio: «Mi sono fatto dal niente e ho messo insieme una ricchezza considerevole, adesso metterò a frutto questa abilità per la città».
Il candidato doveva «bucare» lo schermo del televisore perché questa era «la piazza» delle recite politiche e avevano bisogno dell’abilità degli attori e dei giocolieri da circo.
La televisione in casa Antiquo era come se non ci fosse stata, era anch’essa morta. Forse non sapevano nemmeno delle elezioni comunali fissate tra poco, e certo non sarebbero andati a esprimere la propria preferenza, perché il professore non avrebbe mai accettato un sistema senza ideali politici, senza che si parlasse di un nuovo umanesimo capace di interpretare l’uomo del tempo presente.
La campagna elettorale era invece all’insegna del candidato, delle sue caratteristiche fisiche: doveva essere bello, attraente, una storia di successo economico realizzato in poco tempo.
Non esisteva neppure più la squadra che, con la vittoria, sarebbe entrata nella giunta, si doveva votare l’uomo del momento che poi avrebbe scelto, a proprio gusto i collaboratori.
Nessun riferimento alla cultura che sapeva di vecchiume e di inutile. Meglio evidenziare un bel sorriso, scegliere un buon sarto, dei buoni consulenti d’immagine che potessero guidare il candidato nelle uscite televisive. A parlare doveva essere il corpo non più la mente: il benessere dei muscoli, l’arte di muoversi.
Uno dei candidati a sindaco era Angelo Ratti e la città era tappezzata dal suo volto, più spesso dall’immagine corporea atteggiata a eroe del tempo presente, in coppia con la segretaria che sembrava una bellezza al concorso di miss mondo.
Qualche manifesto mostrava l’insieme familiare che, invece di fare vomitare, attirava per la semplicità dei volti, per quell’aspetto popolare che sembrava ripetere il ritratto di famiglia dei cittadini comuni.
Sotto i cartelli elettorali solo poche parole: «Ero fallito e sono diventato potente e ricco. Ero nessuno e sono un protagonista. Voglio rendere possibile la mia avventura anche a te, a tutti voi, perché la felicità si lega sempre e solo al potere, il resto è rito consolatorio».
Effettivamente sulla collina si era intensificato il traffico. Passavano davanti alla casa del professore molte auto e anche tante persone che giungevano in bicicletta o a piedi e che venivano accolte nelle ville della famiglia Ratti dove trovavano qualcosa da bere e da mangiare.
Le donne ricevevano poi un mazzo di fiori e gli uomini una bottiglia di vino.
Il Ratti aveva comperato tutta la produzione della zona e persino Giacomo gli aveva venduto un fantastico vino rosso d’annata e mai aveva guadagnato tanto su ogni bottiglia.
I soldi in casa Ratti si erano moltiplicati e uno spot televisivo recitava: «Mi sono spostato da meno centomila euro a più cento milioni».
La gente voleva un sindaco ricco, partito dalla stessa posizione della maggior parte degli elettori: una speranza, lontana dalla formula del «beati i poveri».
Oltre a fare sentire tutti ricchi, domani, aveva promesso di liberare la città dagli extracomunitari, dalle carovane di zingari e anche dal peso dei burocrati che taglieggiavano le famiglie con tassazioni inique.
I consiglieri gli avevano messo in bocca la parola «città leggera»: meno leggi, più libertà, meno tasse. Nessuna imposizione ma solo contrattazione.
E questo atteggiamento piaceva anche ai ricchi.
La vecchia signora Ratti, sempre con l’aiuto degli uomini dell’immagine, era stata ridotta a uno slogan che era piaciuto subito moltiss...

Indice dei contenuti

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  2. Frontespizio
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  4. I
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  6. III
  7. IV
  8. V
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  11. VIII
  12. IX
  13. X