Io
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Io

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Io è un autoscatto senza rimpianti, spietato e tremendamente sin¬cero. È un antidiario fatto di pennellate rapide ed essenziali in cui si intrecciano confessioni intime e impegno pubblico, incontri magici e scontri furibondi, collaborazioni con musicisti come Annie Lennox, Sting, Jack Bruce, e con registi come Michelangelo Antonioni, Bernardo Bertolucci, Gabriele Salvatores, Enzo d'Alò. Io è un vinile di carta dove Gianna Nannini incide i suoi umori in un continuo contrasto dei sensi, battito dopo battito alla ricerca della pulsazione giusta, quella che fa nascere una canzone. Io è Gianna Nannini, quel vulcano che non conosce il lusso della quiete, che quando meno te l'aspetti ti regala perle di dolcezza e ti graffia con la sua verità.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817013888
eBook ISBN
9788858652916

BUBI

L’amore oggi ha il volto di Bubi.
Flash future: «Cos’ha fatto a mia figlia, lo sa come si chiama questo? Plagio! Io ti denuncio, io ti rovino…».
Tutti i territori sono stati occupati e i feriti tornano a casa. È come sentirsi uno di questi. Qualcuno prende le tue offese e tu sei in anestesia, vorresti mettere in chiaro qualcosa ma il rumore della voce ti ributta a terra e non riesci a riprenderti anche solo per dire: «Basta! Non è vero!». Bubi esiste.
Posso sognare e Bubi lo sa. Bubi è uno scrigno dove ripongo tutti i miei pensieri, le mie scelte, i miei problemi. È lì, entra nella sala del ristorante dentro una tuta da meccanico. Non ha attrezzi con sé e nemmeno la voglia di accomodarmi. È un essere immortale, un oracolo per molti che si mettono in fila per farsi ascoltare. Mi metto al piano verticale del ristorante, scoperchiata dai capelli in su. Bubi ha le chiavi del mio silenzio, viaggia con me di tasto in tasto, viene con me nella mia voce, ovunque io vada. Col suo sostegno mi sento sempre più sicura, so che qualcuno fuori dal mondo dei dischi crede in me.
A volte sa che mi butterei giù dalla scala o nel pozzo dell’ascensore ma mi dissuade e non lo faccio. Bubi ha un alto concetto di tutti i Sud del mondo e li ama con le sue pietanze e usanze. Bubi è senza famiglia e, a modo suo, riesce sempre a portarla agli altri. La fede è per me la sua nobiltà d’animo, faremo tutto insieme.
«Ho voglia di una band, eh, Bubi?!»
«Falla.»
Il chitarrista che mi sono trovata sembra cieco perché suona sempre con gli occhiali, crede di essere Keith Richards, io lo chiamo Stravinski. All’Osteria dell’Operetta, in quel di Porta Ticinese facciamo dei piccoli concerti: chitarra su un amplificatore ricavato da una radio, piano blues, io anche al violino.
I Rolling Stones qui vanno fortissimo, smanettatissimi da noi, sono la nostra specialità. Ma soprattutto è Me and Bobby Mc Gee, un pezzo della mia Janis, a essere apprezzato e diventa “l’inno dell’Operetta”. Stravinski comincia verso le ventiré, introduce al piano, poi arrivo io, col violino, un po’ impacciata mentre sto per prendere il microfono in mano, riesco sempre a rovesciare qualche tavolo coi bicchieri, e prima o poi inizio a cantare. All’osteria si va dopo cena o ci si mangia, ma più che altro si beve, e tutti cantano come rapiti: c’è una trance in atto a Porta Ticinese.
Tutto quel bancone affollato, la gente che canta ed esplode dalla porta, fuori, perché non riesce a entrare ed è ogni sera così, fino alle quattro di mattina. Il posto è anche pieno di delinquenti in libera uscita, anche il proprietario sicuramente ha un’idea personale della giustizia e pure qualche guaio, ci paga un po’ come vuole lui. Ma a noi va bene perché il vino non manca mai e neanche da mangiare.
«Sai Bubi, oggi mi hanno pure fatto una proposta esagerata, un contratto diverso.»
«Eh?»
«Sì, mi si è avvicinato uno con un’aria arrogante e sicura di sé, dice che se gliela do mi paga una cifra che mi ci vorrebbero dieci anni a guadagnarla cantando lì all’Operetta.»
«Bene» dice «che te ne frega, bel segnale, anche qui a Milano “Cantante = Troia” come dice il tuo babbo. Comunque tu sei tu.»
Bubi mi raccoglie fradicia e regolarmente torniamo tutti e tre a casa inseguiti dalla madama, che ci perquisisce tutte le notti-mattine.
La band si allarga, siamo pronti per i primi veri concerti rock e Bubi è nel cofano con noi. Oltre le città non si ferma mai, questa lunga corsa in fondo all’avventura, e tu sola sai quello che darei per ricominciare un’altra volta ancora. Partiremo insieme senza limiti nel cuore, quante lune su di noi nei giorni di Israele. Finiremo in quel caffè di Porta Ticinese, canteremo l’arabo ti bacerò in cinese.
«Bubi, ho trovato un agente, è Adele. Che tipa, si appassiona e mi trova un sacco di concerti. Crede in me.»
Festival delle donne di Modena, partiamo tutti e guido io, poveretti noi! Mentre i semafori diventano verdi, Bubi rintrona sui colpi di clacson, nasconde innocenti stati alterati di coscienza. Quando non c’è abbastanza posto Adele si mette fra il pianoforte CP70 e le chitarre, arriva sotto il palco stile sogliola che ancora respira. Poi scarichiamo piano e chitarre e bambola portafortuna Rebecca. Ci si collega all’impianto Montarbo che sta ritto coi fili. Si canta e poi si mangia, si torna sempre all’alba a Milano.
Metto da parte una cifra e comincio a pensare che è l’ora di comprarmi una moto. La moto molto nuda è in corso Lodi che mi sta aspettando: Honda CX 500 Custom nera. Ha già fatto 1500 chilometri, il resto li farà tutti con me fino alla fine, e non finirà. È la mia unica moto, mia, comprata coi miei primi veri guadagni extra sopravvivenza. Ha due borse ai lati, nere di pelle e a stelle rosse. Ci monto, preparo due caschi in cui faccio inserire un auricolare per parlare e ascoltare musica. Bubi mi stringe forte, mi accelero e libero di gas e mentre Anna e Marco di Lucio Dalla se ne vanno per mano, io con Bubi sono già arrivata in un’altra dimensione. Un parco di prati celesti fra mucche svizzere pezzate di nuvole e tanto cioccolato.
Adele mi sveglia, mi dice che a settembre ci sarebbe la prima grande occasione della mia vita. Concerto al Vigorelli di Milano. Io con la band, supporter di Francesco Guccini. Lui è la star numero uno in Italia e fa diecimila persone. Sì ci andrò, ma è estate e voglio prima fare un giro in moto in Grecia.
«Pronto Elvira, vieni anche tu?»
Rivedo il film: Midnight Express-Fuga di mezzanotte. E ci casco dentro anch’io.
Elvira sale in moto dietro di me: Brindisi, Peloponneso, poi Corfù, Itaca. È notte sulle stradine di Corfù e abbiamo bevuto molta retzina e parlando di padri a un certo punto ci giriamo e qualcuno ci insegue.
Elvira ferma un tipo in divisa, gli dice che qualcuno ci dà fastidio e gli chiede se sa consigliarci un posto dove passare la notte. A questi non gliene importa un tubo, non rispondono, guardano altrove e allora lei, splash: gli sputa in faccia. Sono due della polizia turistica, che non ci aiutano nella notte feroce. Allora li degradiamo con lo sguardo, gliene diciamo di tutti i colori in italiano. Ci acchiappano e ci legano le mani, io mi libero e do un pugno in faccia a uno di loro. Alt! Ferme, raggelate da una pistola piantata nelle nostre costole. Ci arrendiamo, poi manette rigide, ci sbattono dentro. Mi ritrovo con le spalle al muro e presa a schiaffi mentre mi prendono le impronte digitali: «Offesa a pubblico ufficiale». Poi voci incazzate mi si avventano come cani dobermann sugli zigomi.
«Ehi» e non mi muovo, sto rigida come un palo.
«Tu brigatista!»
«Brigatista!? No, io musicista! Pianista classica! No, non ho dato nessun pugno al poliziotto, mi sciuperei le mani e il tocco!»
Ho anche la gonna nera lunga. Non mi credono e non mi ascoltano. Dopo poco: io, accusata, Elvira libera. Io dentro, lei fuori. L’avvocato Dimitri è il mio salvatore, dopo tre giorni rivedo il cielo con lui che mi fa il filo, bello come Dioniso. Lascio i silenzi delle Logge delle Cariatidi e dell’Ulisse dell’Odissea col primo traghetto – l i b e r a. Sì domani ho il concerto a Milano e in galera non ho chiuso occhio per tre giorni. Fra il panico e le prove che non si possono fare, vado comunque sul palco senza ricordarmi quasi niente. La band comincia, è uno sfacelo, il mio primo concerto rock sta per affondare. Non sento niente, non capisco una nota, a malapena intono qualcosa con la voce strozzata dall’insonnia e dal whisky, davanti a una folla di diecimila persone che mi fischia spietatamente.
Bubi ride, festeggiamo lo stesso. Mi dice: «Sei la numero uno».
La stanza che ho a Porta Ticinese è una monovolume. Il piano sta ritto e verticale in bagno, è tutto all’aperto per ottimizzare gli spazi e le ispirazioni. Mangio riso integrale per tre giorni di seguito. Devo dimagrire, devo perdere tre chili in tre giorni. Il riso mi esce dalle orecchie, al secondo giorno vedo le Madonne e ci parlo pure. È una sensazione di assoluta lucidità, ma devo prepararmi, ho le foto da fare e devo essere magra. Con le diete risparmio anche, stessi jeans e stesso riso con qualche pomodoro. Sono pronta, moscia, sfibrata e con le occhiaie, ma magra.
È la mia notte più piccola, una di quelle che si fermano sui sogni per renderli tali. Ascolto un canto, una bella voce. Non distinguo il ritmo, è battere o levare? Quel cordone ombelicale, deve essere stato un bello strappo, un gioco dimenticato.
Mi va all’incontrario la memoria, il tempo si è dilatato all’indietro, è un’altra dimensione che è stata la mia. Improvvisamente mi metto a correre e percorro sentieri mai visti, cunicoli, ed è come se entrassi in un tunnel per sempre al buio.
Un corridoio che deve essere stato mio, ma che vogliono da me? C’è una schiera di persone che hanno una strana esigenza: io devo rendere. Ma cosa ha la mia anima? La monto come fosse un cavallo e scappo, mi porta in deserti che avrei sempre voluto vedere. Un silenzio di montagne di sabbia e il vento mi macerano il volto, mi trasfigurano, mi piegano in ginocchio. Sono disposta a tutto, ma devo riuscire a cantarlo questo disco, che non riesco mai a finire. Lascio l’anima alle nuvole e non mi domando se salirà o scenderà. Bubi lo sa.
Torno che è mattina di stelle e sotto casa chi ti vedo? «Johnny, che ci fai?». Johnny è arrivato da New York con la chitarra, il sax e una bottiglia di Jack Daniel’s. Resta qualche mese perché è senza lavoro, si occuperà del tour, mi assisterà. Lo ospito nella monovolume. Che vita insieme!
Questi maschi americani sono abituati fin da piccoli e sono perfetti in casa, senza dirgli niente sparecchiano, preparano la colazione e rifanno il letto. Io apprezzo anche se non sono abituata alla convivenza ma si ingrana e si parte per il tour più rock. È uscito da pochi mesi California, e nonostante i manifesti col vibratore a stelle e strisce in mano alla Statua della Libertà col mio nome, la gente mi viene a vedere, ma è scettica quasi prendessero tutto come una provocazione, come se io fossi costruita a tavolino, invece per me è normale parlare di certi argomenti. Non capisco perché divento, dalle domande idiote dei giornalisti, la ribelle, l’operaia, la controcorrente, l’aggressiva, la trasgressiva, la provocatrice. Certo che la provincia dilaga dappertutto, qui mi sta stretto tutto il pianeta, ho bell’e capito. Continuo per la mia strada, non mi ferma nessuno. Perché non si riesce ad accettare una persona quale è? Intorno sono tutti complessati, anche una canzone diventa pretesto per classificare, ghettizzare, annullare. Il pubblico viene comunque a fiotti, dopo i primi pezzi si esalta, monta sul palco, è un continuo di gente che vuole toccarti le mani, sale ad abbracciarti, mi si appende alla giacca. Il nostro è un rock sfrenato, senza limiti e sparato a tutto volume con musicisti animali che non danno riposo. Due chitarre, basso, batteria e tastiere. Niente a che vedere coi cantautori, è difficile emergere, c’è chi diffida, perché nel rock il modo di cantare è dentro la musica e la voce va oltre le parole. E poi, quanti pregiudizi. Sì, provincia e pregiudizi anche qui: una donna come me che si tocca l’America e fa certi gesti al microfono è meglio evitarla. È malvista. Ma che ci posso fare io? Mica programmo niente, sul palco sono rapita da qualcosa che mi guida e sono sicura che quando sento questa forza che spinge è tutto solo positivo. La canzone America va in classifica prima in Germania, in Italia non viene digerita. Allora comincio a fare tour là dove sta nascendo un nuovo movimento.
La guerra dilaga ancora, la mandano in onda più delle canzoni. Io credo che un giorno la fermerò. Grazie Bubi che mi hai detto: «Fammi l’amore».
Mi chiama Andrea Mingardi che sta scrivendo un libro sul rock: «Ehi, mi faresti due righe scritte da te sul rock? Sì, dai, qualche aneddoto».
«Sì, va bene, appena c’ho voglia.»
Ora. Scrivo. Titolo: «Gli accenti del rock e del roll». Qui c’è sempre una luce che sfreccia, sono i fari delle auto di notte e poi quelli del palco. Ci si acceca di luce e ci si illumina di alcol. È l’inizio del rock’n’roll d’Europa.
Il mio chitarrista è un maschio. Il mio batterista è un maschio. Il mio tastierista e il mio bassista anche. C’è un concerto che si deve fare a Berlino: Venus Weltklang. Lo fanno al famoso Tempodrom, ci sarà Nina Hagen e un sacco di band internazionali. Ma devono essere tutte donne. Così mi dicono quelli dell’organizzazione, anche i musicisti che accompagnano, «tutte donne».
«Ma come, io ho una band di maschi, e allora? Che significa fare un concerto a due passi dal muro per creare altri muri?»
Mi incazzo perché il sessismo è come il razzismo e come l’eterosessismo. L’idea che devo cambiare il mio gruppo per fare questo concerto mi fa impuntare più di quando sono scappata di casa. So che mi vogliono e quindi tento la carta prendere o lasciare: «Io vengo con la mia band o altrimenti non vengo».
«Verstehst du?» Va bene, mi dicono. «Komm.»
E accettano.
La sala è affollata, i miei musicisti sembrano cavalli alla partenza, un’orda di donne tutte in prima fila ci accoglie con grande entusiasmo. Si comincia e si spinge il volume, io sull’asta, i musicisti sulle pelli e sulle corde. Poi Romeo, il chitarrista, fa delle strane espressioni, noi lo conosciamo bene nella band, ogni tanto, quando spinge (e in Italia pochi come lui sono in grado di fare il riff di America) tira fuori la lingua ma non per prendere per il culo, solo perché è un tic nervoso a cui noi siamo abituati. Romeo fuori dal palco è un ragazzo eccezionale, uno leale che ti salverebbe sempre dai guai, uno di cui mi fido proprio come persona, è il mio preferito anche perché, finalmente, è uno che sa suonare la chitarra ritmica, gli altri chitarristi si fanno spesso prendere dalla sega e si immergono in questi assoli che non finiscono mai, e che io non sopporto.
Insomma, a un certo punto inizio con Sognami, una canzone che parte silenziosa e che guarda caso Romeo accompagna con la lingua. Fiotti di donne cominciano a fischiare e a tirare lattine di birra in faccia a lui, scambiato per macho, per uno che provocava con la lingua. Ma insomma, cosa non va bene a tutte queste donne delle prime file? A un certo punto mi immergo nel ritmo senza iniziare a cantare e faccio il passo dell’oca fra il pubblico e il chitarrista, sfilando laterale a mo’ di bersaglio e sfidando le lattine, gli sputi e il resto. La band continua il ritmo ipnotico senza cambiare mai accordo, io aspetto le conseguenze, ma dopo circa cinque minuti di fischi il pubblico trasforma il sibilo in un applauso, segue un boato e la folla comincia a godere con noi. Tutti, donne e uomini, si scatenano e sono con noi perché sembrano capire che non è proprio il caso di fare delle separazioni. Che gioia, che urlo, che muro andato in frantumi! Saltano tutti di qua e di là, anche i bambini prendono il martello e abbattono i mattoni che si sgretolano, sotto gli occhi dei poliziotti dell’Est. Un gran finale e poi tutti, est, ovest, neri, bianchi, femmine e maschi, al Jungle. Un viaggio di locale dove ci si scatena fino all’alba. È mattino, mi raccatta Gino, un giornalista italiano venuto per fare un reportage. Si ritorna alla luce, quella sparata negli occhi dal sole.
Oddio! Che differenza c’è fra battere e levare. Non ho mai capito dove si canta, in quali buchi, che confusione. Sono in preda a una crisi di nervi e disperazione, perché sto confondendo gli accenti deboli e forti. O è tutto in salita o è tutto in discesa. Non so, non riesco a trovare una via di uscita. Per me è sempre tutto in battere, lo dice anche Roberto. Roby è il mio nuovo produttore, sembra che vada di moda l’elettronica e lui la segue. È uno di tendenza, dice che gli piaccio così come sono, che i miei punti deboli sono la mia forza, che bisogna farli sentire e mi prepara gli arrangiamenti sviluppando la pulsazione che io do quando li eseguo al pianoforte. Anche se ancora non ci capisco niente fra battere e levare, anzi ancora meno perché alla fine l’album è tutto pieno di contrappunti dove la voce viene messa a parte e su una pista sua per dare modo agli arrangiamenti di fare il loro corso. Non capisco, perché quando si fanno i dischi un produttore deve dimostrare quanto è bravo a lavorare in studio. Noi cantanti siamo dei prodotti, degli espedienti per permettere a questi produttori di fare, grazie a noi, il loro disco. Però Roberto si adopera e nonostante mi lamenti del chitarrista, che come al solito non è quello che sogno, il disco prende il via e lo finiamo a Londra. Alla fine sono tutta tirata e agli sgoccioli di alcol e coca. L’ultima striscia non comincia più. Torno a Milano. E vedo Bubi che in un rito di sepoltura mi trascina e accompagna in una danza, mi tiene la mano sul water ...

Indice dei contenuti

  1. Io
  2. Copyright
  3. San Prospero
  4. Jolanda burro di carité
  5. Bobo Otto
  6. Di giorno di notte
  7. Adolescenza assassina
  8. Il culo di Gianna
  9. Le bambine perbene
  10. Il Club dei Piccoli Guerrieri
  11. Toglimi il fiato
  12. Scappo
  13. La California
  14. Lsd
  15. Bubi
  16. Vent’anni di Peter
  17. Conny
  18. Viaggio all’inferno
  19. Morire in un pigiama
  20. Rinascere in una vasca da bagno
  21. Il neurologo
  22. G come Gioia
  23. Scandalo
  24. Pace = Amore
  25. Mi oltrepasso
  26. Commando Greenpeace
  27. Aria
  28. Riprendo la mia faccia
  29. Punto G e a capo
  30. Indice