Povera gente
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Povera gente

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Opera prima del grande narratore russo, Povera gente è un romanzo epistolare, che ha segnato l'inizio della carriera di Dostoevskij e ne ha reso subito celebre il nome. Due giovani si scrivono, si raccontano le loro piccole vicende quotidiane, le loro speranze, i loro sogni. Nasce così un amore che potrebbe aprire a entrambi la via della felicità, ma la loro miseria è tale che la ragazza deciderà di sposare un uomo non più giovane ma ricco, nella folle speranza di poter aiutare il suo infelice amico. Romanzo d'esordio in cui Dostoevskij esalta la potenza creatrice dei contrasti, della lotta eterna fra tenebra e luce, scoprendo negli strati più bassi della società, della vita, una bellezza nuova e misteriosa, una verità profonda ed eterna.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817014618
eBook ISBN
9788858650790
POVERA GENTE
8 aprile
Mia inapprezzabile Varvara Aleksjejevna,
ieri sono stato felice, smisuratamente felice, felice sino all’impossibile: almeno per una volta nella vita, ostinata che siete, mi avete ubbidito. Verso le otto di sera mi sveglio (sapete, diletta, che dopo il lavoro mi piace dormire un’oretta e anche due) e, procuratami una candela, preparo le carte, appuntisco la penna; a un tratto, senza volerlo, alzo gli occhi, e davvero il mio cuore ha fatto un salto. Così avete subito capito che cosa desideravo, che cosa desiderava il mio povero cuore; vedo che un angolino di tendina della vostra finestra è rialzato ed è appoggiato al vasetto di balsamina, precisamente così come vi avevo detto di fare; lì per lì mi è sembrato che, presso la finestra, fosse apparso per un istante il vostro visino, che anche voi, dalla vostra cameretta, guardaste verso di me, che anche voi mi pensaste. E che cosa spiacevole è stato per me, passerottino mio, il non aver potuto discernere per bene il vostro leggiadro visino. V’è stato un tempo in cui anch’io vedevo bene, diletta: non è lieta la vecchiaia, cara. Ecco, anche ora sino a un certo punto qualcosa mi abbaglia sempre gli occhi; quando di sera lavoro un poco, scrivo qualcosa, alla mattina gli occhi sono infatti arrossati, e le lacrime colano da rendermi persino vergognoso di fronte agli estranei; tuttavia, nella mia immaginazione, il vostro bel sorriso, il vostro sorriso buono e gentile, si è proprio illuminato, angioletto, e nel mio cuore proprio non ho mai provato una sensazione simile a quella di quando vi ho baciato, Varinka, ricordate, angioletto? Sapete, passerottino mio, mi è persino sembrato che mi minacciaste col ditino... è vero, birichina? Certo, mi descriverete tutto ciò con maggiori particolari nella vostra lettera.
Ebbene, come vi sembra la mia trovata a proposito della tendina, Varinka: graziosa, vero? Che io sieda al lavoro, che mi corichi, o mi svegli, so già che anche voi mi pensate, mi ricordate, e anche che state bene e siete allegra. Abbassate la tendina, vuol dire: «Addio, Makar Aleksjejevic, è ora di dormire»; l’alzate, vuol dire: «Buon giorno, Makar Aleksjejevic, come avete dormito?»; oppure: «Come state, Makar Aleksjejevic? Per ciò che mi riguarda, sia gloria al Creatore, sto bene e sono felice». Vedete, anima mia, come è ben ideato? e non sono necessarie le lettere. Furba l’idea, no? Ed è proprio mia questa trovata. Be’ ci so fare in queste cose, Varvara Aleksjejevna?
Vi annuncio, mia diletta Varvara Aleksjejevna, che, contro ogni aspettativa, ho dormito benone tutta la notte, e ne sono molto contento; sebbene in una casa nuova, a causa del nuovo alloggio, non si riesca mai a dormire: c’è sempre qualcosa che non va. Oggi mi sono alzato gagliardo come un falco, piacevolmente allegro. Che bella mattinata, oggi, diletta! Da noi hanno spalancato una finestra; un bel sole splende, gli uccelletti cinguettano, l’aria è profumata di aromi primaverili, e la natura intera si rianima; bene, anche il resto deve essere conforme: tutto è in armonia, tutto è primavera. E oggi ho persino fantasticato piuttosto piacevolmente, e in tutte le mie fantasticherie c’eravate voi, Varinka. Vi ho paragonata a un uccelletto del cielo, creato per la gioia degli uomini e quale ornamento della natura; e lì per lì ho pensato, Varinka, che anche noi, uomini, che viviamo in mezzo agli affanni e alle agitazioni, dobbiamo invidiare la felicità spensierata e innocente degli uccelletti del cielo, be’, e tante altre considerazioni simili, dello stesso genere; cioè ho sempre fatto tali lontani paragoni. Ho un libro, Varinka, in cui sono scritte le stesse cose, e tutte descritte con molta minuzia. Per di più dico, che forse le fantasticherie sono di varie specie, diletta. Ecco, ora è primavera, e i pensieri sono tutti piacevoli, sottili, ingegnosi, e si fanno sogni delicati; tutto è color di rosa. E inoltre ho scritto tutte queste cose; e del resto, ho preso tutto dal libro. In esso l’autore esprime in versi un desiderio simile, e scrive:
Perché non sono un uccello, un uccello di rapina?
E così via; e ci sono anche altri pensieri, ma, che Dio sia con loro! Però, dove siete andata stamattina, Varvara Aleksjejevna? Non mi ero ancora avviato verso l’ufficio, che già voi, proprio come un uccellino della primavera, volavate via dalla camera, e attraversavate il cortile tutta allegra. Quanto mi ha fatto piacere il guardarvi; ah, Varinka, Varinka! Non siate triste; non si può aiutare il dolore con le lacrime; io lo so, diletta, lo so per esperienza. Ora siete alquanto tranquilla, e vi siete anche rimessa un poco in salute. Be’, come va la vostra Fedora? Che gran brava donna è mai! Scrivetemi, Varinka, come vi trovate ora da lei; e siete soddisfatta di tutto? Fedora è un poco brontolona: ma non badatevi, Varinka. Dio l’assista: è tanto buona.
Vi ho già scritto della Teresa di qui; anch’essa è buona e fedele. Come mi ero preoccupato per le nostre lettere! Come avremmo potuto scambiarcele? Ma ecco che Dio, per la nostra felicità, ci ha mandato Teresa; ed è proprio una buona donna, umile, poco chiacchierona. Ma la nostra padrona di casa è semplicemente spietata: la fa sgobbare, strapazzandola come uno straccio. In che buco sono capitato mai, Varvara Aleksjejevna; che razza di appartamento! Il fatto è che prima, voi lo sapete, vivevo del tutto in disparte nella calma, nel silenzio, e se a casa mia volava una mosca, la mosca si sentiva; ma qui: baccano, grida, fracasso! Però forse non sapete ancora come sono sistemate le cose qui. Immaginate, grosso modo, un lungo corridoio, affatto buio e sporco, con un muro cieco a destra, e a sinistra sia tutto porte e porte: esattamente dei numeri allineati in fila. Ecco tutto: affittano questi numeri, e per ognuno di essi vi è una camera in cui vivono due o tre persone. Non chiedete ordine: un’arca di Noè! Del resto pare che gli inquilini siano brave persone, tutte molto educate e istruite. C’è un funzionario (occupa non so che posto di consulente letterario): un uomo erudito, discorre di Omero, di Brambeus e di tanti altri autori, parla di tutto; proprio un uomo intelligente. Vi son pure due ufficiali che giocano sempre a carte; c’è un guardiamarina, un insegnante inglese. Aspettate, vi divertirò, diletta, ve li descriverò satiricamente nella prossima lettera, cioè come si comporta ognuno nell’intimità, con tutti i particolari. La nostra padrona, una vecchiaccia piccola e sporca, è tutto il giorno in vestaglia e pantofole, e tutto il giorno sgrida Teresa. Io abito in cucina, o per dire molto più esattamente, ecco come: qui accanto alla cucina v’è una camera (e si deve tener presente che da noi la cucina è pulita, chiara, molto bella); la camera è piccola, un angolino modestissimo... cioè – per dire ancor meglio – la cucina è grande e ha tre finestre, così per me è stata messa una tramezza lungo la parete trasversale, e in tal modo è come se ci fosse un’altra camera, una stanza in soprannumero; e tutto è spazioso, comodo; ho anche una finestra, e tutto – in una parola – tutto è confortevole. Ebbene; questo è il mio angolino. Via; ora voi, diletta, non pensate che qui le cose siano diverse e che vi siano misteriosi significati; ecco, insomma, è una cucina: cioè, se volete, vivo proprio in questo localino oltre là tramezza, ma non fa nulla; vivo appartato da tutti, alla meglio, alla chetichella. Ho messo un letto nella stanza, un tavolo, un cassettone, un paio di sedie, e ho anche appeso un’icona. Per la verità, vi sono pure alloggi migliori, forse, ve ne sono di molto migliori, ma la comodità è la cosa più importante; il fatto si è che io sono sempre per le comodità, e non pensate che l’abbia scelto per qualche altra ragione. La vostra finestra è di fronte a me, oltre il cortile, e il cortile è stretto: quando passate vi vedo, e per me, tapino, è sempre una gioia, e costa anche meno. Qui da noi la camera più modesta, con un tavolo, costa trentacinque rubli di carta; non fa per la mia tasca. Il mio alloggio costa sette rubli di carta, e il vitto cinque rubli d’argento; il tutto ventiquattro rubli e mezzo; prima pagavo esattamente trenta rubli, e per questo mi dovevo privare di molte cose: non sempre bevevo il tè, ed ecco ci ho guadagnato il tè, e anche lo zucchero. Sapete una cosa, caruccia mia, si ha vergogna a non prendere il tè; qui son tutti agiati, così si ha vergogna. Bisogna farlo per gli estranei, Varinka, per la forma, per il tono; per me sarebbe lo stesso, non ho esigenze, io. Aggiungiamo anche gli spiccioli – ne occorrono sempre – per esempio, gli stivali, un abituccio: resterà molto? Ecco tutto il mio stipendio. Non me ne lagno e sono contento: mi basta; già da parecchi anni mi basta; eppoi vi sono anche le gratifiche. Dunque, addio, angioletto mio. Vi ho comperato due vasetti di balsamina e di geranio: non sono stati cari. Ma forse vi piace anche la reseda? C’è anche la reseda, voi scrivetemi; e badate, scrivete tutto il più particolareggiatamente possibile. Del resto non vi date alcun pensiero e non preoccupatevi per me, diletta, perché ho preso in affitto un alloggio simile; no, la convenienza mi ha deciso, e unicamente la convenienza mi ha sedotto. Il fatto si è, diletta, che io risparmio i soldi, li metto da parte; ho un gruzzoletto. Non guardate se sono tanto gracile, che – si direbbe – una mosca potrebbe spezzarmi con un colpo d’ala; no, diletta, secondo me non sono un debole, ma di carattere assolutamente come si conviene a un uomo di animo forte e pacato. Addio, angioletto mio: vi ho scritto quasi due fogli, ed è ormai ora di andare in ufficio. Vi bacio i ditini, diletta, e sono
il vostro umilissimo servo e fedelissimo amico
Makar Djevuskin
P.S. – Di una cosa vi prego: rispondetemi, angioletto mio, con tutti i particolari possibili. Vi mando con questa, Varinka, una libbra di confetti; che mangerete alla nostra salute; ma, per l’amor di Dio, non vi preoccupate per me e non siate in collera. Be’, di nuovo addio, diletta.
8 aprile
Egregio signor Makar Aleksjejevic,
sapete che, una volta o l’altra, dovrò litigare definitivamente con voi? Vi giuro, mio buon Makar Aleksjejevic, che mi è addirittura penoso ricevere i vostri regali. So quanto vi costino, quali rinuncie e privazioni in ciò che è indispensabilissimo a voi personalmente; e quante volte vi ho detto che non mi occorre nulla; che non sono in grado di contraccambiare nemmeno quei benefici di cui finora mi avete colmato? E perché mandarmi questi vasetti? Via, per la balsamina, passi; ma, perché anche il geranio? Non si può dire imprudentemente una parolina, come – per esempio – a proposito di questo geranio, ecco che già l’avete comprato; ma è proprio caro? Che incanto i suoi fiori: vere crocette di corallo! Dove vi siete procurato un geranio tanto grazioso? L’ho messo proprio nel mezzo della finestra, nel punto più in vista; sul pavimento metterò uno sgabello, e sullo sgabello altri fiori; da noi ora sembra che ci sia il paradiso in camera: c’è pulizia, luce. Ebbene, e perché i confetti? Per la verità, dalla lettera, ho subito compreso che in voi qualcosa non va: e il paradiso, e la primavera, e aromi che volano, e uccelletti che cinguettano. Come mai, penso, non vi sono anche i versi? Ora, davvero, non ci mancano che i versi nella vostra lettera, Makar Aleksjejevic; sentimenti delicati, sogni color di rosa: c’è tutto. Alla tendina non avevo proprio pensato; di certo è rimasta impigliata da sé, quando ho spostato i vasetti; ecco.
Ah, Makar Aleksjejevic; ma, che mi dite, che mi andate raccontando dei vostri guadagni, per mostrare che servono esclusivamente a voi solo, ma a me non celate e non nascondete nulla: è chiaro che vi private dell’indispensabile per causa mia. Che cosa vi è venuto in mente, per esempio, di prendere in affitto un alloggio simile? Dunque vi disturbano, v’inquietano; state stretto, a disagio. Voi amate la solitudine; ma lì, accanto a voi, che cosa succede? E potreste vivere molto meglio, giudicando dal vostro stipendio; Fedora dice che voi, prima, vivevate meglio, e senza confronto. Avete forse passato tutta la vita in solitudine, nelle privazioni, senza gioia, senza la parola affabile di un amico, prendendo in affitto angolucci presso gente estranea? Ah, buon amico, quanto sono spiacente per voi! Abbiate almeno riguardo della vostra salute, Makar Aleksjejevic. Voi dite che gli occhi vi si indeboliscono, e allora non scrivete al lume di candela; perché scrivete? Anche senza questo, il vostro zelo è certamente noto ai vostri superiori.
Ancora una volta, vi supplico, non sciupate tanto danaro per me: so che mi amate, ma infine non siete ricco. Oggi anch’io mi sono alzata allegra; mi sentivo tanto bene. Fedora lavorava già da un pezzo, e ha procurato un po’ di lavoro anche a me. Ero così lieta; sono scesa soltanto per comperare della seta, poi mi son messa al lavoro; per tutta la mattinata ho avuto l’animo leggero, ero proprio molto allegra. Ma adesso i pensieri sono di nuovo tutti neri, sono triste; il cuore langue sempre.
Ah, che sarà di me, quale sarà il mio destino? È penoso che mi trovi in tale incertezza, che non abbia un avvenire, che non possa prevedere che cosa accadrà di me; e ho paura anche a guardare indietro: c’è stato tanto dolore, che il solo ricordo mi spezza il cuore. Mi lamenterò per tutta la vita dei malvagi che mi hanno rovinata.
Si fa buio; è ora di mettersi al lavoro: vorrei dirvi tante cose, ma qualche volta il lavoro ha un termine fissato, e bisogna affrettarsi. Certo le lettere sono cosa piacevole; scacciano la noia; ma, perché non venite mai a farci visita? Perché mai, Makar Aleksjejevic? Dunque ora siete nostro vicino, e poi qualche volta avete un po’ di tempo libero; venite a trovarci, vi prego. Ho visto la vostra Teresa: sembra tanto ammalata; mi ha fatto pena e le ho dato venti kopeke... Per poco non dimenticavo: scrivetemi, senza fallo e con tutti i possibili particolari, ciò che riguarda la vostra vita; che persone vi sono nel vostro ambiente e se vivete in armonia con esse: desidero proprio sapere tutto. Badate, scrivete senz’altro: oggi alzerò apposta la tendina. Coricatevi più presto; ieri ho visto luce da voi sino a mezzanotte. Be’, addio; sono angustiata, annoiata, triste: si vede che oggi è una giornata così. Addio.
La vostra
Varvara Dobrosjelova
8 aprile
Egregia signorina Varvara Aleksjejevna,
sì, diletta, sì, cara, evidentemente oggi è un giorno molto disgraziato per la mia sorte meschina. Sì, vi siete burlata di me, povero vecchietto, Varvara Aleksjejevna; del resto la colpa è proprio mia, tutta mia: negli anni della vecchiaia, con pochi capelli in testa, non ci si dovrebbe lanciare negli amori e negli equivoci. Vi dirò anche, cara, che qualche volta l’uomo è strano, molto strano; e, santi del cielo, capita di essere imbarazzati su ciò di cui si deve parlare. Ma che cosa ne segue, che cosa ne risulta? Ma, non succede proprio niente, e ne vengono fuori tali sciocchezze, che Dio me ne guardi. Io, diletta, non mi arrabbio; ma è tanto spiacevole ricordare tutte queste cose, è spiacevole che io abbia scritto in modo figurato, così sciocco. Oggi sono andato al lavoro tutto elegante; avevo molta luce in cuore. Non c’è mai stata tanta festa nel mio animo, per nessuna ragione: ero allegro; mi sono messo al lavoro con zelo, ma che cosa ne è seguito poi? Dopo aver appena dato uno sguardo intorno a me, ogni cosa è diventata come prima: grigia, tetra; sempre le stesse macchie d’inchiostro, sempre gli stessi stivali e le stesse carte, e anche io: sempre lo stesso, così come ero sono assolutamente rimasto; perché, poi, ho infilato gli arcioni di Pegaso? e perché è accaduto tutto ciò? perché era apparso un bel sole e il cielo si era rasserenato? Per questo, forse? Ma, del resto, che razza di aromi, quando nel nostro cortile, sotto la finestra, succede quel che succede! Si vede che a me è sembrato così a causa della mia stupidità; ebbene, talvolta a un uomo accade proprio così, di smarrirsi nei propri sentimenti e di dir sciocchezze, e questo non dipende da altro che da troppo fervore del cuore. Non ci sono andato, a casa, mi ci sono trascinato; a un tratto mi è anche venuto il mal di testa; ma, evidentemente, una cosa tira l’altra (forse ho preso un colpo d’aria nella schiena); e, da vero stupido, mi son rallegrato per l’arrivo della primavera, tanto che ho indossato il cappotto leggero. E, riguardo ai miei sentimenti, vi siete sbagliata, cara; avete travisato del tutto le mie espansioni. Un affetto paterno mi ha ispirato, un affetto puro, unicamente paterno, Varvara Aleksjejevna; poiché mi occupo di voi al posto di vostro padre, per la vostra amara condizione di orfana, e lo dico dal profondo dell’anima: con cuore puro, come uno di famiglia. Dato che, comunque sia, vi sono parente, sia pure lontano, tuttavia parente, infatti, secondo il proverbio (anche la settima acqua è nell’impasto); e, al presente, sono il più vicino parente e protettore; visto che là, dove meglio che altrove avevate il diritto di cercar protezione, avete trovato tradimento e offesa. E, a proposito dei versi, vi dirò, diletta mia, che è sconveniente che mi vi eserciti negli anni della vecchiaia: i versi sono una sciocchezza; e, per causa loro, anche ora sferzano i ragazzini nelle scuole... ecco qui, cara.
Che mi andate scrivendo, Varvara Aleksjejevna, di agi, di quiete e di altre svariatissime cose? Diletta, non sono né schizzinoso, né esigente, non ho mai vissuto meglio di ora; e perché mai dovrei fare il difficile negli anni della vecchiaia? Sono sfamato, vestito e calzato; a che serve far capricci? Non sono di origine comitale: mio padre non era nobile di nascita, e, con tutta la sua famiglia, era più povero di me, dati i guadagni. Non sono un rammollito; del resto, se devo dire la verità, nel mio vecchio appartamento tutto era meglio, senza confronto; ero più comodo, diletta. Certo, anche il mio attuale alloggio è bello, sotto certi aspetti anche più allegro, e, se volete, più vario; su ciò non ho niente da dire, ma rimpiango sempre quello di prima: noi anziani, cioè gente vissuta, siamo affezionati alle cose vecchie (come a una persona cara). Sapete, quell’alloggio era molto piccolo; le pareti erano... via, perché parlarne?... le pareti erano come tutte le pareti; non si tratta di esse, ma sono i ricordi di tutte le cose di prima che mi angustiano. È una cosa strana, penosa, e i ricordi dovrebbero essere una cosa piacevole. Anche ciò che era cattivo e di cui mi sono talvolta stizzito, anche quello – in un certo modo – nei ricordi sembra liberarsi delle sue brutte qualità e mi si presenta all’immaginazione con aspetto gradevole. Vivevamo serenamente, Varinka, io e la mia padrona, una vecchietta ora defunta. Ecco, adesso ricordo con un senso di tristezza anche la vecchietta: era una buona donna e prendeva poco per l’alloggio. Da vari stracci e con certi lunghi ferri da calza, ricavava coperte a maglia, e si occupava soltanto di questo; avevamo la luce in comune, così lavoravamo allo stesso tavolo. Aveva una nipotina, Mascia – la ricordo ancora ragazzina –, ora sarà una signorinella di tredici anni; era molto birichina, allegra, ci faceva sempre ridere. Ecco, così vivevamo noi tre; e nelle lunghe serate d’inverno sedevamo intorno al tavolo, bevevamo il tè, poi ci mettevamo al lavoro; e la vecchietta, affinché Mascia non si annoiasse e non facesse scherzi, la birichina, cominciava a raccontar fiabe; e che fiabe! Non solo un bambino, ma anche un uomo intelligente e di buon senso sarebbe stato ad ascoltarle con interesse, eccome! Accendevo la pipa e ascoltavo con tanta attenzione da dimenticare il lavoro; e la bambina, la nostra birichina, diventava pensierosa, si appoggiava la guancia rosea alla manina, apriva la graziosa boccuccia, e appena la fiaba era un po’ paurosa, si stringeva forte alla vecchietta. Per noi era un piacere guardarla e non vedevamo la candela consumarsi, non sentivamo come, talvolta, fuori, la burrasca si stesse addensando e la bufera infuriasse.
Vivevamo bene, Varinka; e così, in questo modo, abbiamo vissuto insieme poco meno di vent’anni. Ma di che cosa mai mi sono messo a chiacchierare ora... forse questo argomento non vi piace, eppoi anche a me non fa molto piacere il ricordare; specie in questo momento, al cader del giorno. Teresa si dà da fare rumorosamente e a me fa male la testa, e mi duole anche un poco la schiena, e i pensieri sono tanto strani, sembra che dolgano anch’essi; sono triste oggi, Varinka! Che mi scrivete mai, cara? Come potrò venire a farvi visita? che cosa dirà la gente? Ecco, bisognerà attraversare il cortile, ci noteranno, cominceranno a far domande; ne seguiranno dicerie, pettegolezzi, e daranno al fatto una falsa interpretazione. No, angioletto mio, è meglio che vi veda domani ai vespri; sarà più giudizioso e più innocuo per tutt’e due. E siate i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. Introduzione
  4. Cronologia della vita e delle opere
  5. Bibliografia
  6. POVERA GENTE
  7. Sommario