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La famiglia Ciancimino
Massimo, il «Nano»
Ha un soprannome, «Nano», ovviamente per la bassa statura. Ma si è sempre atteggiato a gigante, gigante degli affari, grande manager, sfruttando in realtà soltanto soldi, relazioni e amicizie mafiose di papà . È stato immortalato in una fotografia storica, pubblicata dai giornali, che lo ritrae sorridente, polo rossa e due sacchi neri di plastica per l’immondizia in mano. Ride felice, guardando a destra verso un uomo sorridente, capelli bianchi come la barba ispida e incolta, maglietta alla marinara a righe orizzontali bianche e rosse, mani in avanti come per scansare il fotografo. È il 1990, esattamente il 14 luglio, giorno in cui i francesi celebrano la presa della Bastiglia e inizio della Rivoluzione. Anche per «Nano» quel giorno è stato una liberazione, ma per ragioni un po’ diverse.
«Nano» è Massimo Ciancimino, e allora aveva ventisette anni. Sta accompagnando fuori dal carcere palermitano dell’Ucciardone suo padre Vito, don Vito da Corleone, che due anni dopo verrà condannato per mafia: un personaggio anziano, ma non domo, arrogante, protagonista di uno scempio edilizio bollato dalle cronache siciliane come il «sacco di Palermo», della distruzione di una città che l’ha visto potentissimo assessore ai Lavori pubblici nonché sindaco nei primi anni Sessanta. Una città piegata ai suoi voleri, messa a ferro e fuoco dai corleonesi di Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ovvero dai boss dei quali don Vito è lo sponsor politico di riferimento, creatore delle sue e delle loro ricchezze a suon di miliardi di lire grazie ad appalti truccati. In nome di una mafia responsabile soltanto negli anni Ottanta di centinaia di morti ammazzati tra uomini politici e faide interne ai clan: da una parte i vincenti, cioè i corleonesi, e dall’altra i perdenti, i palermitani delle famiglie Bontade e Inzerillo.
Fuori dall’Ucciardone, «Nano», anche se ostenta allegria, sa di avere accanto un padre/padrone. Uno che quand’era bambino lo legava alla catena. Don Vito era autoritario, severo, rigido, non ammetteva discussioni né voleva mai essere disturbato. Nella sua villa di Mondello decideva chi dovesse aggiudicarsi gare pubbliche e concessioni: quali imprese, in quali mandamenti, a che prezzo: il pizzo insomma. E lì, da pubblico ufficiale, riceveva boss e anche latitanti. Ad esempio Binnu Provenzano, «Spara veloce», come veniva chiamato per la rapidità delle sue «esecuzioni», non aveva infatti terminato la seconda elementare e da don Vito, corleonese come lui, prendeva lezioni di matematica, guadagnandosi così sul campo il diploma virtuale di «u’ ragioniere». Un titolo conquistato di diritto: anche se semianalfabeta, il futuro boss ormai aveva imparato – eccome se aveva imparato! – a far di conto. È il preludio alla formazione di un sodalizio di ferro, descritto dai magistrati di Palermo con le seguenti parole: «… pieno inserimento di Ciancimino Vito in Cosa Nostra… ruolo di importanza strategica da lui svolto nei rapporti tra l’organizzazione mafiosa, e in particolare Provenzano Bernardo, e il mondo politico e imprenditoriale siciliano».1
Là , tra i fiori e i profumi di bouganvillea della residenza di Mondello, se «Nano» osava affacciarsi in salotto per parlare con papà , veniva respinto da un furibondo don Vito che per ovvie ragioni non voleva avere tra i piedi quel figlioletto incatenato e così gli urlava di ritornare in camera sua, soprattutto per non farlo vedere a Provenzano conciato in quel modo.2 In seguito Massimo si vendicherà di quella sua infanzia belluina e del padre/padrone. Proprio quando lo andrà a trovare in galera, commenterà con una punta di sarcasmo: «Chi di spada ferisce, di spada perisce».3
Tra i suoi cinque figli don Vito ha sempre avuto un debole per «Nano», l’ultimo nato. Anni dopo lo nominerà , assieme alla sorella Luciana, suo erede. Ma lo farà in modo anomalo, di nascosto, perché solo durante una perquisizione del luglio 2005 negli uffici romani del suo avvocato di fiducia salterà fuori un testamento occulto che, appunto, assegna solo a Massimo e Luciana «tutto quanto di mia proprietà ». Ma come? Presso un notaio di Roma non era forse già stato redatto nel 2003 un inventario dei beni dell’ex sindaco di Palermo, morto nel 2002, proprio per l’assenza di un documento ufficiale che ne raccogliesse le ultime volontà ?
Che disdetta per la moglie Epifania Scardino e per il resto della prole! L’inventario infatti elencava soltanto, come unica risorsa finanziaria, l’esistenza di un libretto al portatore con poco più di 2 miliardi di lire. Mica male, verrebbe da dire, peccato però che nessuno potesse attingervi. Un bel mucchietto di quattrini, è vero, ma disponibili solo sulla carta: nessuno li poteva rivendicare, sottoposti com’erano a sequestro per vecchie pendenze giudiziarie. Niente da fare, quindi. Zero lire. Nemmeno un magro conticino, neanche una briciola per la famiglia Ciancimino. Eppure, quando quel testamento segreto, scritto nel 2000, salterà fuori per caso cinque anni dopo, dimostrerà l’esistenza di un patrimonio sconosciuto, disperso chissà dove. Ma quale ne era l’entità ? Soldi, palazzi, immobili o terreni dovevano pur esistere da qualche parte, altrimenti non si capirebbe il senso di quella frase sibillina: «tutto quanto di mia proprietà ».
Nessuno ha mai creduto che don Vito possedesse, tra case e titoli, «soltanto» qualche miliardo di lire bloccato dopo che Giovanni Falcone l’aveva arrestato nel 1984 sulla base delle accuse di Tommaso Buscetta, il primo grande pentito di mafia. E quando, dopo un anno di cella, gli era stata imposta una cauzione di 305 milioni di lire per lasciare il carcere e ottenere la libertà provvisoria, si era inferocito, chiedendo candidamente: «Come faccio a pagare se tutto mi è stato sequestrato?».4 Una balla clamorosa, naturalmente.
Vito Ciancimino era straordinariamente ricco, grazie agli affari mafiosi combinati nella sua veste di alter ego politico di Binnu Provenzano nell’interesse di Cosa Nostra, così ricco da permettersi di prendere in giro i giudici del Tribunale di Palermo che lo stavano processando. Un vero show. Durante un’udienza del maggio ’91, don Vito si era divertito a buttare lì in tono presuntuoso: «… nell’arco della mia vita ho guadagnato somme più del doppio di quelle che mi sono state sequestrate». Cioè 10 miliardi di lire del 1984 (oggi sarebbero almeno 25 miliardi, e quindi i 20 miliardi del raddoppio, secondo la provocazione di Ciancimino, equivarrebbero a 50 miliardi). E subito dopo, alla domanda di un pm5 – «Lei afferma che nel 1984 aveva delle disponibilità molto maggiori. Intende dire che aveva dei conti in Svizzera, degli immobili, dei prestanome, o altre cose di questo genere?» –, Vito Ciancimino rispondeva: «Per averli sequestrati pure?».6
Avevano dunque visto giusto i magistrati del maxiprocesso di Palermo fotografando con queste parole le fortune del loro ex sindaco: «Vito Ciancimino è riuscito ad accumulare una enorme quantità di denaro liquido con oscure interessenze in attività edilizie di privati, occultandola tra i meandri del sistema bancario».7 Rincareranno la dose altre toghe sentenziando: «Alla formazione dell’ingente patrimonio dell’imputato ha concorso una pluralità di fonti illecite di guadagno».8 Già , ma dov’era stato disseminato tutto questo ben di Dio? Sparito. Evaporato. Volatilizzato. Per rispondere a questa domanda bisognerà attendere parecchi anni, partendo da un primo indizio: un bigliettino trovato nel 2002 nelle mani di un mafioso di rango, Antonino Giuffrè, uomo di Binnu Provenzano, poi diventato un prezioso pentito. Tutto per un pizzino, due righe con un indirizzo di Palermo, lo studio professionale di un famoso avvocato tributarista al servizio di Vito Ciancimino. Una storia che solleverà il velo su vent’anni di misteri, tra conti bancari nei più remoti paradisi fiscali, riciclaggio di denaro, investimenti di copertura e confisca di beni per 60 milioni di euro, mettendo così a nudo il vero ruolo giocato da don Vito, morto nel suo letto a Roma il 19 novembre 2002, nel cuore di Cosa Nostra.
Ciancimino e Provenzano, ovvero vita in simbiosi. Il consigliori e il boss. Perché il «pecoraio» Bernardo Provenzano, il capo dei capi arrestato l’11 aprile 2006 in un casolare di campagna nutrendosi a formaggio e cicoria e scrivendo i suoi ordini sui pizzini in mezzo alle pagine della Bibbia, è solo un’immagine casereccia e riduttiva. Latitante da decenni, non può aver fatto tutto da solo. Vito Ciancimino era l’uomo giusto al posto giusto.
La caccia al tesoro
8 giugno 2006. Alle 6 del mattino di un caldo giovedì due pattuglie di agenti e ufficiali della Guardia di Finanza e dei Carabinieri si presentano in via Torrearsa, una traversa di via Libertà , in pieno centro di Palermo dietro il Teatro Politeama, dove vive Massimo Ciancimino. Suonano il campanello al numero 5. È Carlotta, la moglie, ad aprire in canottiera e pantaloncini di seta. «Suo marito è in casa?» «Sì, c’è.» Massimo arriva, è a torso nudo, indossa un paio di short chiari. Quando un capitano delle Fiamme Gialle pronuncia la frase di rito – «Dovremmo notificarle un’ordinanza di custodia cautelare» –, si sente male e si accascia su un divano nell’ingresso con in mano il documento firmato da un giudice delle indagini preliminari, 295 pagine. Riesce solo a balbettare quattro parole: «Mi viene da vomitare». Teme che gli stiano per scattare le manette ai polsi. Ma è fortunato. No, non deve andare in prigione. L’ordinanza prima definisce «dettagliatissima l’esposizione del pm», fondata quindi su un serio quadro accusatorio, ma poi sorprendentemente «diminuisce» la responsabilità di «Nano» risparmiandogli l’onta più grave: entrare, come già era successo al suo celebre padre, all’Ucciardone. Soltanto arresti domiciliari perché è incensurato. Intendiamoci, non tra quattro modeste mura, bensì nella propria abitazione dove l’opulenza viene esibita in modo sfacciato.
«Nano» scorre con trepida agitazione quelle pagine che da un momento all’altro potrebbero cambiare la sua vita e si rende subito conto che le accuse nei suoi confronti sono pesanti: riciclaggio, reimpiego di capitali di provenienza illecita. Capisce che la caccia al tesoro di papà è cominciata e che lui sta per pagarne le conseguenze.
Sono due ufficiali9 a interrompere i suoi pensieri: «Dobbiamo perquisire l’appartamento». Che è al pianterreno, molto grande, qualche centinaio di metri quadrati, ampio giardino, circondato da piante tropicali, palme nane, patio con chaises longues in vimini che fanno da contorno a un salottino estivo, un piccolo ponte che porta a una piscina. Dentro, un grande salotto con un televisore immenso appeso al muro, due enormi quadri di arte contemporanea alle pareti, camera da letto con scala a chiocciola, stanza per gli ospiti, una biblioteca dove spiccano libri d’arte, seminterrato con una cucina lunga all’americana, palestra e sala massaggi, quattro bagni, una stanzetta piena zeppa di borse e scarpe.
Dopo tre ore e mezzo la perquisizione è terminata. Massimo Ciancimino si veste e viene accompagnato in una caserma dei Carabinieri per le formalità di rito: impronte, foto. In quelle stesse ore, mille chilometri più su, a Roma, il destino bussa alla porta del suo legale. Anche Giorgio Ghiron si trova nella stessa barca di Massimo, cioè agli arresti domiciliari, perché anziano (settantatré anni), e con le stesse incriminazioni.
Come professionista, Giorgio Ghiron è molto conosciuto. È un avvocato internazionalista: studi a Roma, Napoli, Londra e New York e clienti di gran nome. Tra questi, nella seconda metà degli anni Settanta, un finanziere legato al banchiere del Vaticano e della mafia Michele Sindona, «suicidato» nel 1987 nel penitenziario di massima sicurezza di Voghera. E ora si trova a difendere gli interessi di «Nano» dopo aver fatto lo stesso per più di vent’anni per don Vito da Corleone, ovvero il consulente di Provenzano.
Ma non sono soltanto Massimo Ciancimino e Giorgio Ghiron a trovarsi al centro della bufera. A tener loro compagnia, infatti, altri personaggi non arrestati, ma soltanto indagati, come del resto i primi due: Epifania Scardino, madre non solo di Massimo, ma anche di Luciana, Sergio, Giovanni e Roberto Ciancimino, anche lei sotto inchiesta, ma per società off-shore con sede in isole dei Caraibi e per conti bancari olandesi. Poi il noto professionista, Gianni Lapis, avvocato tributarista di fama, professore dell’Università di Palermo, con studio al numero 78 di via Libertà , ovvero l’indirizzo riportato nel pizzino di Nino Giuffrè. Anche lui ha già trattato negli anni Ottanta questioni processuali per conto di Vito Ciancimino, adesso però è nel mirino della Procura palermitana. È il prestanome di don Vito nella società Gas spa, una holding di imprese10 che distribuiscono il gas in 74 città siciliane e abruzzesi, venduta per 120 milioni di euro nel gennaio 2004 alla Gas Natural, multinazionale spagnola quotata in Borsa.
Il professor Lapis è sospettato di essere quindi solo formalmente, assieme ai suoi parenti, il socio di maggioranza di quella holding fondata nel 1981. Invece, secondo i pm di Palermo, fin dall’inizio è Vito Ciancimino il reale titolare delle quote di quella società , è lui ad aver scelto un suo uomo di paglia, in passato suo consulente. Per questo l’avvocato Lapis ha tenuto un comportamento defilato, «limitandosi a svolgere il ruolo di socio e amministratore», perché, «le scelte operative» della gestione erano lasciate agli altri azionisti, le famiglie D’Anna-Brancato, del tutto all’oscuro delle vere mosse di un importante azionista, ma non in proprio, bensì «per conto altrui».
Scavando scavando, gli investigatori si trovano di fronte a un nuovo scenario con una prima conseguenza giudiziaria scontata: il sequestro preventivo di quanto ricavato dalla cessione della Gas spa (meno la parte di competenza dei D’Anna-Brancato). In totale, 60 milioni di euro sparpagliati in mille direzioni con un unico obiettivo: farne perdere le tracce.
Come accade in ogni storia finanziaria, per colpire chi ricicla i capitali illeciti bisogna seguire il percorso del denaro. Solo così si può risalire ai responsabili e ai complici delle operazioni criminose. Raccogliendo indizi e prove, frugando nella vita di chi vive all’insegna del lusso più sfrenato senza una giustificazione plausibile, mettendo a fuoco i comportamenti di chi ha agevolato il salto di qualità alla mafia.
Dopo anni e anni di processi s’è visto che Cosa Nostra non poteva non far fruttare tutti i suoi business senza l’aiuto di esperti, di chi si intende di affari. Per la prima volta a Palermo, nell’inchiesta sul riciclaggio della «roba» di Ciancimino, accumulata grazie ai favori di Provenzano, spuntano degli avvocati che hanno lavorato al suo fianco per molto tempo.
La dolce vita del «Golden Boy»
Ma come si è arrivati all’arresto di Ciancimino junior? Vale la pena di procedere per flash-back. Dei cinque fratelli Massimo è quello che appare maggiormente in pubblico, il più visibile, forse perché è l’unico che rilascia interviste ai media, contando anche sull’amicizia di certi giornalisti. O forse perché per anni ha seguito da vicino le peripezie del padre visitandolo più volte, sia quando era detenuto nel carcere d...