Svestite da uomo
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Svestite da uomo

  1. 350 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Svestite da uomo

Informazioni su questo libro

Da Giovanna d'Arco a Calamity Jane, da Greta Garbo a Cristina di Svezia, da Marlene Dietrich a Bradamante a Caterina la Grande, tutte le donne che si sono fatte passare per uomo per essere se stesse. Fa scandalo una donna vestita da uomo? Oggi forse no, almeno in Occidente, ma fino a quarant'anni fa era impensabile accettarlo. Valeria Palumbo ripercorre la storia delle donne - e sono moltissime - che in tutti i secoli, in tutte le culture e a qualsiasi livello sociale, si sono sottratte alle regole e hanno assunto abiti maschili per conquistare un'indipendenza altrimenti irraggiungibile. Donne che si sono vestite da marinaio, da frate, da soldato, da moschettiere, che si sono fatte passare per accademico, dottore, faraone, esploratore, bandito, e addirittura finto castrato, semplicemente per navigare, viaggiare, combattere, studiare, comandare, cantare, scoprire. Ancora oggi molte ragazze in Arabia Saudita, Iran e Afghanistan si travestono da uomo per poter andare a lavorare, per uscire di sera o per assistere a una partita di calcio. Svestite da uomo è un saggio sulla libertà. O sull'aspirazione alla libertà. Delle donne, certo. Ma non solo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817016957
eBook ISBN
9788858653012

1

Al principio, fra i sessi, era il caos. E gli antichi lo sapevano benissimo

Di come le Amazzoni si distinguono dagli uominis
solo per come fanno pipì. E di come i giovani Sciti
non ne fecero una questione di principio
Erodoto racconta che gli Sciti le chiamavano Oiorpata, “quelle che uccidono gli uomini”. Sono le Amazzoni (“quelle che non hanno seno”) di Omero. Sono, in qualche modo, anche le guerriere, ormai abbastanza conosciute dagli archeologi, dei popoli iranici, Sciti, Sarmati e Saci (i fratelli che vivevano più a Oriente), che dominarono già dall’VIII secolo a.C. le steppe euroasiatiche. Le loro sepolture rivelano armi ma anche specchi, il che vuol dire che erano donne combattenti ma non mascolinizzate. Eppure hanno costituito, nei secoli, il simbolo stesso della paura-attrazione che le donne-maschio esercitano sugli uomini.
Certo, non si trattava solo di donne armate. Erodoto, nel Libro IV delle Storie, sostiene che le Amazzoni vivessero molto diversamente dalle donne della loro epoca. Il suo racconto prende avvio dalla loro leggendaria sconfitta contro Teseo, re dell’Attica, sulle rive del fiume Termodonte in Scizia. Perfino la loro regina, Ippolita, venne fatta prigioniera (bellissimo il dipinto sulla battaglia di Pieter Paul Rubens). Le Amazzoni furono caricate su tre navi ma, quando si trovarono in alto mare, assalirono gli equipaggi e li sterminarono. Non conoscevano però le navi e non sapevano governare il timone o manovrare le vele e i remi; così, rimaste sole, andarono alla deriva. Approdarono alla Palude Meotide, a Cremni, dove vivevano gli Sciti. Le guerriere sbarcarono, si misero a caccia di qualche insediamento umano e decisero di dedicarsi a ciò che sapevano fare meglio: rapinare. Si imbatterono in una mandria di cavalli, la rubarono e, una volta in sella, presero a razziare i beni degli indigeni. Scrive Erodoto: «Gli Sciti non riuscivano a capire la faccenda: non conoscevano né la lingua né l’abbigliamento né la razza delle Amazzoni, pieni di stupore si chiedevano da dove mai fossero usciti quei tipi; credevano che fossero maschi in giovanissima età, e ingaggiarono battaglia con loro». Fu solo quando gli Sciti riuscirono a spogliare i corpi dei nemici uccisi che si accorsero del loro sesso. A quel punto avvenne un fatto che dimostra un’incredibile saggezza da parte loro: «Si consultarono sul da farsi e decisero di smettere subito di ucciderle e di mandare da quelle donne i loro ragazzi più giovani, tanti quante calcolavano che fossero. I giovani dovevano accamparsi vicino alle Amazzoni e comportarsi esattamente come le Amazzoni; se esse li attaccavano non dovevano battersi, ma fuggire; quando l’inseguimento fosse cessato, dovevano tornare ad accamparsi vicino a loro. Escogitarono tale tattica gli Sciti, perché desideravano avere figli da quelle donne». Il racconto prosegue: piano piano, i ragazzi riuscirono ad avvicinare le Amazzoni; uno di loro, accortosi che le guerriere si appartavano per i loro bisogni, ebbe l’ardire di fermarne una e convincerla a giacere con lui. Lei ne fu evidentemente così soddisfatta da invitarlo, a gesti, a tornare il giorno dopo e portare un compagno. Lei sarebbe venuta con un’amica. L’immagine dell’Amazzone accoccolata a far pipì che si lascia sedurre dal giovane scizio come una teenager d’oggi in discoteca è davvero straordinaria. Ancor più curiosa la conclusione: «Gli altri giovani, quando vennero a saperlo, ammansirono a loro volta le Amazzoni restanti…».
Di come un’Amazzone non è per ciò stesso una cattiva moglie, anche se non sa cucinare e preferisce scagliare lance
In seguito Sciti e Amazzoni, racconta ancora Erodoto, «unirono gli accampamenti e abitarono insieme, ciascuno con la donna a cui si era unito la prima volta. I mariti non furono capaci di imparare la lingua delle mogli, ma le mogli compresero il linguaggio dei mariti». E questo la dice lunga sul fatto che sin dall’antichità le donne sembrano possedere una maggiore abilità linguistica (ed empatica) dei maschi. A quel punto i ragazzotti proposero alle Amazzoni di seguirli nei villaggi sciti, pur promettendo loro di rimanere fedeli. Ma le orgogliose fanciulle risposero: «Noi non potremmo abitare insieme con le vostre donne: le nostre usanze e le loro sono ben differenti; noi tiriamo con l’arco, scagliamo lance, andiamo a cavallo e non abbiamo mai imparato i lavori femminili; invece le vostre donne delle cose che abbiamo detto non ne fanno nessuna: attendono invece ai lavori femminili restando sui carri, a caccia non ci vanno, non si muovono mai. Non potremmo andare d’accordo con loro. Perciò se volete tenerci come mogli e mostrarvi giusti, andate dai vostri genitori, prendete la parte dei beni che vi spetta e tornate qui; dopodiché ce ne vivremo per conto nostro». Come andò a finire? Che non solo i ragazzi obbedirono ma le seguirono anche al di là del fiume Tanai, verso nord. «Quando giunsero nella località dove tutt’oggi dimorano, vi si insediarono. E da allora le donne dei Sauromati vivono secondo le antiche abitudini: vanno a caccia a cavallo, assieme ai mariti e anche senza di loro, vanno in guerra e sono abbigliate esattamente come i maschi» conclude Erodoto.
Dalle tombe, o meglio dai kurgan, complesse sepolture dei principi nomadi (la cui morte si tirava dietro quella, atroce, con tanto di impalatura, di decine di fedelissimi e cavalli), sta riemergendo proprio la somiglianza dello stile di vita e dell’abbigliamento tra uomini e donne delle steppe. Ma c’è voluto del tempo prima che gli archeologi, nonostante i loro ritrovamenti, ammettessero che Erodoto aveva ragione: una splendida sepoltura conservata oggi al museo di Almaty, in Kazakistan (e arrivata a Roma nel 1998 per una importante mostra), si chiama ancora dell’“Uomo d’oro”. Peccato che si tratti di una donna.
Di quando Ercole si vestì come un’odalisca, di come Pan tentò di sedurlo, di come tutto questo c’entra con il matriarcato.
E del perché i Greci avessero giustamente le idee confuse
Il mito delle Amazzoni, dunque, rispecchia in pieno la paura maschile della “donna con i pantaloni”: le guerriere della Scizia, almeno secondo il mito, bastano a se stesse e, ribaltando del tutto i ruoli tipici del mondo antico, sono anche le “signore della riproduzione”. Ciò che le rende uniche è appunto che non sono donne “mascherate”: sono vestite da uomini, si comportano da uomini, ma restano donne.
Gli uomini si saranno pure sentiti “superiori” dall’inizio dei tempi, ma qualche dubbio sulle radici precarie di questo primato devono averlo avuto se perdere il possesso della spada, o della clava, li ha sempre così spaventati. Lo dimostra un mito troppo spesso dimenticato. Quello di Onfale ed Ercole. A un certo punto della sua tormentatissima vita, Ercole (Eracle per i Greci), si era cacciato in uno dei suoi soliti pasticci: aveva ucciso il suo amico Ifito in un eccesso d’ira. Poi, giunto a Delfi per sapere come espiare il delitto, aveva rubato il tripode sacro poiché la pitonessa, la sacerdotessa-profetessa di Apollo, si era rifiutata di interrogare l’oracolo, convinta che mai avrebbe risposto a un tipaccio come lui. Ercole, a cui l’eccesso di muscoli sembrava nuocere fortemente ai neuroni, se n’era uscito dal santuario urlando che si sarebbe fatto la profezia da solo. Era intervenuto Apollo, c’era stata una zuffa ed Ercole, sconfitto, era stato condannato dagli dei a essere venduto come schiavo. Fu acquistato da Onfale, regina della Lidia. Donna e, per i Greci, per giunta barbara. Onfale però se ne innamorò e lo rese addirittura padre tre volte. Incredibilmente, un giorno riuscì a imporre a quell’omaccione tutto peli e bicipiti di vestirsi da donna: collane di pietre preziose, braccialetti d’oro, un turbante femminile, un manto purpureo e una cintura meonia, ossia dell’Asia minore. Lei invece indossò la sua pelle di leone, e imbracciò l’arco e la clava. Anche i ruoli s’invertirono. Narra ancora il mito che il dio Pan, innamoratosi di Onfale ed entrato nella grotta dove Ercole dormiva con gli abiti della donna, tentasse di sedurlo ricevendo in cambio un violento calcione.
Che cosa c’è dietro questo mito? Gli studiosi ci hanno letto un po’ di tutto: metafora della suprema umiliazione che sopporta l’uomo ridotto in schiavitù; metafora più letterale del pericolo costituito, anche per un uomo forte come Ercole, da una donna furba e lasciva; a riprova di questa tesi si cita il fatto che venne soprannominata Onfale la criticatissima Aspasia, la straniera amata da Pericle che tanta influenza esercitò su di lui e quindi sulla politica ateniese. Oppure, addirittura, la leggenda viene considerata lo specchio di un – mai dimostrato – passaggio dall’originario matriarcato che contrassegnava il Mediterraneo al patriarcato dell’epoca storica, quando gli uomini, per ottenere il diritto a officiare alcuni riti religiosi, che spettava solo alle regine, dovettero indossarne gli abiti. Tutto ciò verrebbe confermato da alcuni rilievi negli antichi templi sumerici di Lagash e da molte opere d’arte cretesi che rappresentano appunto sacerdoti en travesti.
Conclusione: di come all’inizio dei tempi
gli uomini sapessero che maschile e femminile, amore e morte sono intrecciati e quasi indistinguibili.
E del perché la dea Ishtar avesse la barba
La terza spiegazione ci porta ancora più a oriente, in Mesopotamia, ai piedi della più potente divinità del mondo antico: Ishtar, dea babilonese della fertilità e della morte, madre del ciclo vitale e delle battaglie. Ishtar, o Inanna, per i Sumeri, è una figura complessa, spesso definita “vergine”: oggi sappiamo che “vergine” per i mesopotamici voleva dire capace di creare senza bisogno di un uomo. E in effetti non solo per la sua intemperanza sessuale (si accoppia con tutto e tutti, uomini, bestie, divinità), ma soprattutto per il fatto che porta volentieri la barba, l’arco e le frecce, sembra piuttosto esprimere una tendenza all’ermafroditismo che, evidentemente, i popoli mesopotamici non trovavano affatto scandaloso. Ishtar ha un seno magnifico e spesso è raffigurata mentre allatta; protegge le cortigiane e non a caso, nei suoi templi, le sacerdotesse praticano la prostituzione sacra. È la dea della birra, ma anche la donna dall’abbraccio fatale, tanto che perfino il coraggioso eroe Gilgamesh, l’Ercole babilonese, rifiuta i suoi approcci amorosi per non morire.
Più pacifica secondo i Sumeri, nelle vesti della Ishtar babilonese diventa anche la dea della guerra, la “Signora delle battaglie”. Gli Assiri ereditarono questa visione e diedero Ishtar in moglie al loro feroce dio Assur: i due si piacquero tanto che, come accade agli sposi più fedeli, finirono con l’assomigliarsi. Da qui la raffigurazione di Ishtar con barba e arco.
Ishtar, sulla cui nascita esistono miti molto diversi, era la stella della sera e quella del mattino: entrambe, per i popoli del Tigri e dell’Eufrate, espressioni delle energie femminili, di volta in volta battagliere o sensuali. Come stella del mattino, sotto forma di Dilbah, Ishtar indossava arco e frecce, montava sul suo carro guidato da sette leoni e partiva all’alba a caccia di uomini e fiere (secondo alcuni in questa veste era un dio e non più una dea). Come stella della sera, Zib, era adorata dalle prostitute in quanto dea “che porta il maschio alla femmina e la femmina al maschio”. Ovvero tra la barba del mattino e il candido seno della sera sembrerebbe non esserci alcuna contraddizione: il maschile e il femminile fluiscono e cambiano come il giorno e la notte.
Se la barba fa una dea, può anche fare un faraone?
E quale imbroglio si nasconde dietro i baffi posticci degli Egizi?
La curiosa vicenda di Hatshepsut
La barba di Ishtar ci conduce alla fine nell’antico Egitto, dove un mento peloso era un indubbio segno di potere.
Ma’at-ka-Ra Hatshepsut, figlia maggiore e unica sopravvissuta del faraone Thutmosi I e di sua moglie Aahmes, nacque nel 1526 a.C. e fu educata dagli scribi di corte. Nel 1504 morì Thutmosi II, suo marito e fratellastro (figlio della concubina Moutnofrit): la Grande sposa reale fu allora nominata reggente in attesa che il figliastro Thutmosi III raggiungesse la maggiore età. Dopo sei anni, però, Hatshepsut, che si era progressivamente liberata dei fedelissimi sia del marito sia dell’erede al trono, realizzò un vero colpo di Stato e si proclamò faraone, il quinto della diciottesima dinastia. Si concesse quindi tutti gli attributi del potere, barba compresa, nel senso che prese a farsi raffigurare con una barba posticcia (pare però che fosse posticcia anche quella di molti faraoni) e in abiti maschili, con tanto di shendyt, il gonnellino corto di lino, e nemes, il copricapo di tela rigato sormontato dal cobra all’attacco. Pretese anche che la corte le si rivolgesse con pronomi e aggettivi al maschile. Infine fece cadere la “t”: divenne Hatshepsu, nome da uomo. In realtà sembra che già al tempo del giovanissimo marito, Hatshepsut, indicata dal padre come sua erede (la definizione appare però sulle pareti del tempio di lei e quindi potrebbe essere propaganda posteriore), avesse tenuto le redini del regno. In parte ciò non stupisce: la condizione femminile in Egitto era piuttosto privilegiata se paragonata a quella di gran parte del mondo antico. Le regine avevano grande influenza e potevano diventare reggenti.
Per rafforzare il suo potere, Hatshepsut si proclamò anche figlia del dio Amun, prassi normale per i faraoni maschi egiziani. In nome del dio si fece costruire un monumento funerario a Deir el Bahdi, presso Tebe. L’architetto Senemut (forse suo amante e di sicuro suo principale consigliere) creò però un edificio architettonicamente e concettualmente molto innovativo rispetto alle precedenti e successive tombe egizie: un altro segno della “diversità” della sua signora. Da un’iscrizione appare che la sovrana abbia anche guidato personalmente, almeno una volta, il suo esercito in battaglia, in Nubia.
È interessante che perfino la figlia, Neferura, morta ancora bambina, venne allevata come un principe: una statua ritrae il tutore, Senemut, con in braccio la piccola, anche lei con la sua barbetta posticcia.
Il regno di Hatshepsut, che fu il primo faraone (titolo di pertinenza maschile) di sesso femminile ma non fu la prima né tanto meno l’ultima sovrana dell’Egitto, fu lungo, prospero, pacifico. Numerose furono le spedizioni in cerca di nuove vie e prodotti commerciali. Addirittura fervida si rivelò la promozione dell’arte. Insomma è ben difficile per noi, oggi, comprendere la furia distruttrice che colse Thutmosi III quando, alla morte della matrigna, nel 1482 a.C., riuscì finalmente a salire sul trono. Il rancoroso figliastro, che pure sposò la seconda figlia della sovrana, Merira-Hatshepset, cercò di cancellare qualsiasi iscrizione, opera, monumento, prova che attestasse il regno di Hatshepsut. Non ci riuscì ma ancora oggi, per esempio, non sappiamo che fine abbia fatto il suo corpo.
Di quando anche Cleopatra, che non assomigliava a Liz Taylor, indossò abiti maschili.
E di come questo sia in fondo irrilevante
per tracciare una storia del potere
Se doveste pensare alla più sensuale sovrana egiziana? Inutile dire: complici gli occhi viola di Elizabeth Taylor, sua interprete sul grande schermo, citereste Cleopatra. E non a torto, visto che, pur non bellissima, riuscì a sedurre Cesare, Marco Antonio e in parte Ottaviano. Eppure anche Cleopatra si fece ritrarre vestita da uomo, molti secoli dopo Hatshepsut e nonostante la sua appartenza a un Egitto diverso, quello sorto dalle ceneri dell’impero di Alessandro e quindi fortemente grecizzato. Possediamo tre steli in cui Cleopatra appare come un faraone: l’ultima di cui hanno parlato i giornali, ritrovata in un deposito di reperti, è stata forse scavata a Leontopolis, una città posta sulla riva orientale del ramo di Damietta del Nilo. Risale agli inizi del regno di Cleopatra, intorno al 51 a.C., e la rappresenta con la tipica doppia corona dei faraoni maschi. Sappiamo che è lei dal geroglifico che l’accompagna. L’archeologo che ha annunciato la scoperta, Willy Clarysse, ha però ipotizzato che potrebbe anche trattarsi di un’operazione al risparmio: quando il padre di Cleopatra, Tolomeo XII, morì, molte steli che lo ritraevano erano rimaste incompiute. Può essere che ci si sia limitati a modificare solo il nome del sovrano, sostiene lo studioso, notando che una delle gambe di Cleopatra porta segni di un parziale rifacimento. Nella Roma imperiale questo procedimento sarebbe stato adottato spesso. Ma quasi sempre con statue dello stesso sesso.
Per quanto i regni ellenistici abbiano visto una crescita esponenziale del potere femminile, può essere invece che Cleopatra avesse ancora bisogno di affermare la sua natura di “faraone”. Oppure, più semplicemente, si rifaceva alla tradizione egiziana. In fondo anche la sovrana Sobekneferu, il cui nome significa “La bellezza di Sobek”, il dio-coccodrillo della fecondità e della potenza della luce solare, e altre regine egiziane meno conosciute utilizzarono titoli maschili. In più Sobekneferu, che regnò alla fine della dodicesima dinastia del Medio Regno (1806-1802 a.C.) e che è il primo sovrano donna accertato dell’antico Egitto, venne anche rappresentata vestita con elementi in parte maschili e in parte femminili. Lo sappiamo da una sua statua, di provenienza incerta ma comunque originaria del Fayyum, dove i sovrani della dodicesima dinastia risiedevano. I tre anni e dieci mesi di regno di Sobekneferu, salita al trono perché il fratello, il faraone Amenemhat IV, non aveva figli maschi, furono pacifici. Tanta facilità nell’accettare un faraone donna, che, al contrario di Hatshepsut, non enfatizzò i suoi “attributi maschili”, lascia però supporre che già altre donne, come la mitica Nitokris, potessero aver regnato sull’Egitto.
Di come la condanna senza appello della Bibbia per le donne
che indossano capi maschili abbia condizionato la storia.
E di come altre norme non abbiano invece avuto alcun effetto
La condanna della Bibbia è senza appello. Nel Deuteronomio (22:5) è scritto: «La donna non indosserà ciò che riguarda all’uomo, né indosserà l’uomo un abito da donna: perché quelli che fanno tali cose sono una abominazione al Signore tuo Dio». Dopodiché ci sarebbe da chiedersi perché una norma del genere abbia avuto tanta eco (e provocato tanti problemi), mentre quella che si trova appena sei versetti più in basso sia bellamente ignorata da tutti: «Non ti vestirai con un tessuto misto, fatto di lana e di lino insieme». La Chiesa non pare averne fatto mai un cavallo di battaglia e la questione riguarda solo gli ebrei ortodossi. Inutile aprire qui il dibattito: dal versetto 22:21 si parla di lapidazioni di ragazze non più vergini. C’è solo da compiacersi che la Bibbia non venga quasi più presa alla lettera.
Ma questo ci permette di ribadire che, nelle diverse civiltà, la concezione di che cosa sia maschile e che cosa femminile è talmente varia da rendere precetti simili a quelli del Deuteronomio praticamente inapplicabili: nella Grecia arcaica e classica, uomini e donne si vestivano sostanzialmente nello stesso modo, con il chitone e l’himation, ovvero la tunica e il mantello. Anche...

Indice dei contenuti

  1. Svestite da uomo
  2. Copyright
  3. Introduzione - Che senso ha, oggi, parlare di donne che si vestirono da marinaio, monaco o spadaccino?
  4. 1 Al principio, fra i sessi, era il caos. E gli antichi lo sapevano benissimo
  5. 2 Quando le donne avevano la corazza
  6. 3 Il Regno dei cieli? Per maschi, eunuchi. E travestite
  7. 4 Il potere ha bisogno di attributi virili?
  8. 5 Le donne amano il jazz. Ma sotto falsa veste
  9. 6 Cimiero e chiome fluenti: Bradamante è sempre piaciuta
  10. 7 La sindrome di Cherubino
  11. 8 Le trappole dell’esotismo
  12. 9 Quando travestirsi serve a fuggire. Dagli altri o da se stessi
  13. 10 Le sommerse e le salvate
  14. 11 Quelle che si ostinano a fare cose da veri uomini
  15. 12 Come si va vestiti a far la rivoluzione?
  16. 13 Quando travestirsi fa parte dell’imbroglio
  17. 14 Alle donne piace la divisa
  18. 15 Ma la scienza aveva davvero bisogno delle donne?
  19. 16 Scrivere rende il cervello più maschile?
  20. 17 Quando le pittrici ne fanno di tutti i colori
  21. 18 Qual è il confine che le donne non possono superare?
  22. 19 Recitare fuori dalla scena non è sempre una messa in scena
  23. 20 Perché piace tanto la donna mascherata sullo schermo?
  24. 21 E se oggi si fossero invertite le parti?
  25. INDICE