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Della guerra
Informazioni su questo libro
Tre sono le forze in gioco: il cieco istinto dell'odio, la libera scelta dell'anima e la pura e semplice ragione. Un soldato non deve essere il mero strumento dell'autorità , ma proprio in nome della ragione e del sentimento ha il diritto di ribellarsi agli ordini. Con La guerra del Peloponneso di Tucidide, il trattato di Clausewitz è un classico della letteratura sull'arte della guerra. Un'analisi logica, razionale ed emotiva dell'aggressività umana quando si fa vero e proprio strumento politico.
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Informazioni
Print ISBN
9788817028967eBook ISBN
9788858651919SULLA NATURA DELLA GUERRA
Concetto della guerra
Intendiamo trattare prima gli elementi singoli del nostro argomento, successivamente le parti, le membra che lo compongono e infine il concetto generale nella sua interna concatenazione: progredire insomma dal semplice al composto. Ma nel nostro caso è, più che in qualsiasi altro, necessario incominciare con uno sguardo all’insieme, perché più che mai l’insieme non può essere pensato che in uno con le parti. Non vogliamo qui addentrarci in una noiosa definizione della guerra, ma attenerci al suo elemento fondamentale: al duello. La guerra non è altro che un duello ingrandito. Se vogliamo pensare come unità la serie dei duelli singoli di cui è composta, vi riusciremo col rappresentarci una coppia di lottatori: l’uno cerca di costringere l’altro con la forza fisica, ad adempiere alla propria volontà ; il suo scopo immediato è di rovesciare l’avversario e renderlo così incapace d’opporre qualunque ulteriore resistenza.
La guerra è dunque un atto di forza per ridurre l’avversario al nostro volere.
La forza si arma delle scoperte dell’arte e della scienza per affrontare la forza. Le trascurabili limitazioni che l’accompagnano sotto il nome di diritto delle genti non l’affievoliscono in modo considerevole. La forza, cioè la forza fisica quando c’è, è, dunque, il mezzo; ridurre il nemico alla nostra volontà , lo scopo. Per raggiungere con sicurezza questo scopo dobbiamo disarmare il nemico, e questa è, logicamente, la vera e propria meta dell’attività bellica. Essa viene a sostituire lo scopo originario e lo mette in un certo modo da parte come cosa non attinente alla guerra vera e propria.
Ora gli animi filantropici possono facilmente pensare che ci sia un modo perfezionato di disarmare ed abbattere il nemico senza causargli troppe ferite e che questa appunto sia la vera meta dell’arte della guerra. Per quanto ciò faccia un bell’effetto, bisogna distruggere questo errore, perché in cose rischiose come la guerra, gli errori che provengono dal buon cuore sono proprio i peggiori. Poiché la collaborazione dell’intelligenza non esclude in alcun modo l’impiego della forza fisica – anche in tutta la sua estensione – chi si vale della forza senza riguardo, senza risparmio di sangue, deve ottenere il sopravvento se l’avversario non fa altrettanto. Egli impone in tal modo all’altro la sua legge e ambedue si spingono fino agli estremi senza incontrare altre barriere all’infuori di quelle costituite dal reciproco contrappeso.
Così bisogna vedere la cosa, ed è uno sforzo inutile, anzi dannoso, non volerla prendere in considerazione per ripugnanza verso la natura elementare di essa.
Se le guerre dei popoli civili sono molto meno crudeli e devastatrici di quelle dei barbari, questo dipende dalla situazione della società , tanto nella vita interna degli stati quanto nei loro rapporti. Da questa situazione la guerra sorge, ne viene condizionata, limitata, moderata: ma tali cose non le appartengono, non sono per essa che un dato; non si potrebbe introdurre nella filosofia stessa della guerra un principio di moderazione senza commettere una assurdità .
La lotta tra uomini consta essenzialmente di due elementi diversi: del sentimento di ostilità e dell’intento ostile. Noi abbiamo prescelto come contrassegno della nostra definizione il secondo dei due, perché, come più generale, comprende l’altro. La brutale passione dell’odio, confinante con il puro istinto, non si può pensarla priva di intenti ostili, mentre vi sono molti disegni ostili non accompagnati da nessun sentimento ostile o – almeno – dove questo non è il sentimento preponderante. Nei popoli primitivi predominano i moti dell’animo, nei popoli civili quelli della ragione: questa differenza non riposa sulla natura stessa della barbarie o della civiltà ma sulle circostanze, sulle istituzioni, ecc. che l’accompagnano: non si presenta dunque come necessaria in ogni caso singolo, ma domina nella maggioranza dei casi; in una parola anche i popoli civili possono ardere d’odio l’uno per l’altro. Donde si vede come sarebbe nel falso chi volesse ridurre la guerra tra i popoli civili a un puro atto razionale dei governi, e vederla sempre più pura da ogni passionalità fino al punto da non aver più bisogno realmente delle masse fisiche delle forze combattenti, ma solo dei loro rapporti; quasi algebra dell’azione.
La teoria già cominciava a muoversi in questa direzione, quando le risultanze dell’ultima guerra gliene indicarono una migliore. La guerra, che è atto di forza, è di necessità anche faccenda dell’animo. Se non vi ha direttamente origine, vi ritorna più o meno, e questo più o meno non dipende dal grado di civiltà , ma dall’importanza e dalla durata dell’intento ostile.
Se dunque vediamo che i popoli civili non mettono a morte i prigionieri, non distruggono città e campi, gli è perché nella loro condotta di guerra l’intelligenza entra in grado maggiore, dando loro metodi per l’impiego della forza più efficaci di quelle manifestazioni dell’istinto.
La scoperta della polvere, il sempre maggiore perfezionamento delle armi da fuoco, mostrano già a sufficienza che la tendenza all’annientamento del nemico, insita nel concetto di guerra, non è stata in alcun modo turbata o deviata dal crescere della civiltà .
Ripetiamo dunque la nostra definizione: La guerra è un atto di forza e non c’è nessun limite nell’uso di questa: l’una parte impone la propria legge all’altra, ne sorge una reciprocità d’azione che, logicamente, deve condurre all’estremo limite. Questa è la prima reciprocità e il primo limite in cui ci imbattiamo.
Abbiamo detto: disarmare il nemico essere lo scopo all’azione bellica; vogliamo ora mostrare che ciò è necessario, almeno nella rappresentazione teoretica.
Perché il nemico sia indotto a fare la nostra volontà , dobbiamo ridurlo in una condizione più svantaggiosa del sacrificio che da lui richiediamo; gli svantaggi di questa situazione non possono essere transitori – almeno secondo l’apparenza – ché altrimenti l’avversario non s’arrenderebbe in attesa di un momento migliore. Ogni mutamento della situazione, derivante dalla prosecuzione della belligeranza, non dovrebbe portare che ad una situazione ancor più svantaggiosa, almeno secondo le previsioni. La situazione peggiore a cui può giungere un belligerante è di esser ridotto assolutamente inerme. Perché dunque l’avversario venga ad essere ridotto al nostro volere, mediante le armi, noi dobbiamo, o disarmarlo realmente, oppure ridurlo in uno stato in cui egli ne sia – secondo verosimiglianza – minacciato. Ne consegue che lo scopo dell’attività guerresca debba essere sempre quello di disarmare o abbattere il nemico.
Ora la guerra non è l’azione di una forza vivente su una massa morta, ma è sempre – una assoluta passività non essendo affatto un guerreggiare – l’urto di due forze viventi, l’una contro l’altra; e quanto abbiamo detto dello scopo ultimo dell’attività bellica, deve essere applicato ad ambedue le parti. Ecco dunque una seconda reciprocità . Fintanto che non ho abbattuto il nemico devo temere che egli abbatta me, quindi non sono più padrone delle mie azioni, ma egli impone a me la legge come io la impongo a lui. Questa è la seconda reciprocità , che conduce al secondo limite.
Volendo abbattere il nemico, dobbiamo commisurare il nostro sforzo alla sua capacità di resistenza; questa si esprime mediante un prodotto i cui fattori inseparabili sono: la grandezza dei mezzi disponibili e la forza della volontà .
La grandezza dei mezzi disponibili si potrebbe determinare, poiché consta – per quanto non interamente – di cifre; la forza della volontà si lascia assai meno facilmente determinare, ma soltanto stimare approssimativamente, quando si tiene presente la gravità del motivo.
Ottenuto per questa via un sufficiente grado di approssimazione nella stima della forza di resistenza dell’avversario, ad essa dobbiamo commisurare i nostri sforzi e accrescerli fino a superarla, o almeno – se i nostri mezzi non lo consentono – accrescerli per quanto ci è possibile. Ma lo stesso fa il nemico: quindi, nuovo accrescimento da ambo i lati, che, sul piano della rappresentazione pura, deve presentare la tendenza all’infinito. Questa è la terza reciprocità e il terzo limite in cui entriamo.
In tal modo l’intelletto non trova mai pace, nel campo del concetto puro, finché non è giunto all’infinito perché ha a che fare con un assoluto, con un conflitto di forze abbandonate a se stesse che non seguono altra legge all’infuori di quella loro interna; se volessimo dedurre, perciò, dal puro concetto della guerra un punto assoluto per lo scopo che esponiamo e per i mezzi da impiegare cadremmo, in virtù della continua reciprocità degli effetti, in estremi che non sarebbero altro che un gioco della immaginazione, condotto su un filo appena visibile di logica sottigliezza. Se si volesse, tenendoci fermi all’assoluto, delineare tutte le difficoltà con un tratto di penna, e insistervi con logico rigore, in modo da doversi spingere ognora all’estremo e porre in ogni caso lo sforzo estremo, un tale tratto di penna sarebbe solo una legge libresca, non una legge per il mondo reale.
Posto anche che quel massimo dello sforzo fosse un assoluto facile a trovarsi, si deve tuttavia ammettere che lo spirito umano difficilmente si subordinerebbe a questo genere di vaneggiamenti logici. In molti casi ne deriverebbe un inutile dispendio di energie, che dovrebbe trovare un compenso in altri princìpi dell’arte di governo: si richiederebbe una tensione di volontà sproporzionata alla meta proposta, che quindi non si potrebbe suscitare, perché la volontà umana non acquista le sue forze mediante le sottigliezze logiche. Tutto però si configura diversamente quando passiamo dal regno delle astrazioni a quello della realtà . Nel primo, tutto doveva restare sottoposto all’ottimismo e dovevamo raffigurarci che tanto l’una parte quanto l’altra non tendessero soltanto alla perfezione ma l’avessero addirittura raggiunta. Avverrà mai questo nella realtà ? avverrebbe se:
1) la guerra fosse un atto totalmente isolato che sorgesse repentinamente senza nessuna connessione con l’anteriore vita dello stato.
2) se essa consistesse in una risoluzione singola o in una serie di risoluzioni contemporanee.
3) se costituisse la risoluzione completa di per sé, se la situazione politica che sarà per seguirla non reagisse su di essa, già nella fase delle previsioni.
Per quanto concerne il punto primo, ciascuno dei due avversari non è per l’altro una persona astratta, neanche riguardo a quel fattore della forza di resistenza che non è costituito da oggetti esteriori, cioè la volontà . Questa volontà non è totalmente un’incognita, ma preannunzia in ciò che è oggi, ciò che sarà domani. La guerra non scoppia improvvisa: la sua preparazione non è opera di un momento, perciò ciascun avversario può giudicare l’altro grosso modo, non da quello che a rigore dovrebbe essere o fare, ma da quello che è già e da quel che fa. Orbene l’uomo, con il suo organismo imperfetto, resta sempre al disotto della linea dell’ottimo assoluto e queste manchevolezze, che divengono reali da ambo le parti, saranno un principio di moderazione.
Il secondo punto ci porge il destro per le considerazioni seguenti:
Se la decisione, nella guerra, fosse unica o consistesse in una serie di risoluzioni contemporanee, tutti i preparativi per essa dovrebbero naturalmente assumere la tendenza all’estremo, ché una omissione non si potrebbe in alcun modo riparare. Al più potrebbero darci – del mondo reale – una unità di misura i preparativi dell’avversario nella misura in cui ci sarebbero conosciuti, e tutto il resto ricadrebbe nel dominio dell’astrazione. Ma poiché la decisione consta di più atti successivi, il precedente può naturalmente divenire in tutte le sue manifestazioni una misura per quello che segue e in tal modo il mondo reale si sostituisce anche qui al posto dell’astrazione e così modera la tendenza verso l’assoluto.
Ora, ogni guerra dovrebbe essere costituita da una decisione singola o da una serie di decisioni contemporanee, qualora i mezzi destinati alla lotta si offrissero tutti insieme: infatti, siccome un risultato sfavorevole riduce necessariamente i mezzi di cui si dispone, non si può pensare più di ottenerne un secondo migliore qualora tutti i mezzi fossero stati impiegati nel primo. Tutte le azioni belliche seguenti farebbero essenzialmente parte della prima, e non ne costituirebbero realmente che la durata.
Ma abbiamo visto come, già nella fase preparatoria alla guerra, il mondo reale si sostituisce al concetto puro, una misura reale al posto della presupposizione estremistica, e perciò già in questo ambedue gli avversari – nella loro reciprocità – resteranno al disotto della linea del massimo sforzo e tutte le forze non si presenteranno immediatamente.
Ma è anche nella natura stessa di queste forze e nella modalità del loro impiego che non possano entrare in azione tutte insieme. Queste forze sono: le forze combattenti vere e proprie, il paese con il suo territorio e la sua popolazione, e gli alleati.
Il paese con il territorio e la popolazione costituisce anche di per sé, oltre che la sorgente di tutte le forze combattenti vere e proprie, con la parte che è compresa nel teatro della guerra, una parte integrante delle grandezze agenti nella guerra, o esercita su di essa un influsso considerevole.
Ora si può ben fare agire contemporaneamente tutte le forze mobili, ma non tutte le fortezze, i fiumi, montagne, abitanti, ecc. ecc., in breve non il paese tutto, se questo non è così piccolo da essere coinvolto tutto dal primo atto di guerra. Inoltre la collaborazione degli alleati non dipende dalla volontà dei belligeranti, ed è nella natura dei rapporti tra gli stati che questi, di frequente, intervengano oppure rinforzino la loro collaborazione per restaurare l’equilibrio compromesso, solo in un secondo momento.
In seguito si dimostrerà in modo più particolareggiato che la parte delle forze di resistenza che non vengono messe subito in azione costituisce in molti casi una frazione del tutto ben più grande di quanto si possa credere a prima vista, e che, per conseguenza, l’equilibrio delle forze può essere restaurato anche quando la prima decisione si sia ottenuta con grande entità di forze e perciò l’equilibrio stesso sia stato gravemente turbato. Qui ci basta di segnalare che una completa riunione delle forze in un solo tempo è svantaggiosa. Pure questo non sarebbe, in sé e per sé, un motivo per limitare l’aumento degli sforzi per la prima decisione, perché una decisione sfavorevole è sempre uno svantaggio a cui nessuno si sottoporrà intenzionalmente e perché la prima decisione, ancorché non rimanga l’unica, avrà tanto più influsso sulle seguenti quanto più rilevante sarà stata; è solo la possibilità di una seconda decisione che fa sì che lo spirito umano, nella sua ripugnanza per gli sforzi troppo grandi, vi si rifugi, e non raccolga e tenda le forze nella prima decisione, come invece avverrebbe se fosse altrimenti. Ciò che ciascun avversario tralascia per debolezza, è per l’altro un motivo obiettivo per una limitazione, e così, attraverso questa reciprocità , la tendenza verso il massimo sforzo viene ricondotta entro una determinata misura.
Infine il risultato finale d’una guerra intera non va considerato come assoluto; al contrario, lo Stato soccombente non vi vede che un male passeggero per porre riparo al quale si può ancora trovare un aiuto nelle relazioni politiche di tempi posteriori. Quanto debba una simile considerazione moderare la forza della tensione e l’energia nell’impiego delle forze, è evidente.
In tal modo si toglie a tutta l’attività bellica la rigida legge che spingerebbe le forze all’estremo. Se l’assoluto non viene più temuto né cercato, diviene compito del giudizio di fissare – al posto dell’assoluto – i limiti per lo sforzo, ciò che può avvenire solo in base ai dati offerti dalle manifestazioni del mondo reale e secondo le leggi di probabilità . Quando i due avversari non sono più nudi concetti, ma Stati individualizzati, governi; quando la guerra non è più una realtà ideale, ma un succedersi di azioni che si determina e si particolarizza, la realtà fornirà i dati per trovare l’incognita.
Ciascuna delle due parti dedurrà , secondo leggi di probabilità , la linea d’azione dell’altra dal carattere, dalle istituzioni, dalla situazione, dai mezzi del nemico e in base ad essa determinerà la propria.
A questo punto ritorna di per sé nella questione un argomento che avevamo messo da parte: il fine politico della guerra. La legge radicale, l’intento di disarmare il nemico, di abbatterlo, l’aveva finora come riassorbito in sé. Non appena quella legge viene a perdere della sua forza e questo intento si allontana dalla sua mira, lo scopo politico della guerra torna di nuovo in primo piano. Essendo tutta l’indagine costituita da un calcolo di probabilità determinate, basato su persone e situazioni, il fine politico, come motivo determinante, deve divenire un fattore veramente essenziale nel prodotto finale. Quanto minore è il sacrificio che esigiamo dal nostro avversario, tanto minori potremo prevederci i suoi sforzi, per resistere. Ora, più questi saranno piccoli, più limitati potranno restare i nostri. Inoltre, quanto più ristretto è il nostro scopo politico, tanto minore sarà il valore che gli attribuiremo e tanto più facilmente ci rassegneremo a rinunciarvi: anche per questo i nostri sforzi si ridurranno in proporzione.
Il fine politico, dunque – in quanto motivo determinante della guerra, – sarà la misura, tanto per la meta da raggiungere mediante l’attività bellica, quanto per gli sforzi necessari. Ciò non potrà avvenire automaticamente di per sé, bensì – in quanto abbiamo a che fare con oggetti reali e non con nudi concetti – sempre in relazione al rapporto reciproco dei due stati. Lo stesso fine politico può produrre effetti totalmente diversi su popoli diversi, e anche, sullo stesso popolo, in epoche diverse. Perciò non possiamo prendere il fine politico, come meta, che considerandolo nei suoi effetti sulle masse che deve mettere in moto, onde l’esame si estende al carattere di queste masse. È facile scorgere che il risultato può essere totalmente differente, a seconda che nelle masse si trovino princìpi che le incitino alla azione o che – al contrario – ne la distolgano. In due popoli, in due Stati possono trovarsi una tale tensione, una tal somma di elementi di ostilità , che anche un motivo di guerra trascurabile in sé, può produrre un effetto di gran lunga sproporzionato alla sua natura: una vera esplosione.
Ciò vale per lo sforzo che il fine politico può suscitare in ambedue gli Stati e per la meta che dovrà prescrivere all’attività bellica. Talora il primo si identificherà con la seconda: nella conquista di una certa provincia, per esempio.Talora il fine politico non sarà in grado di designare lo scopo bellico: in tal caso ne va scelto uno, equivalente, che possa prenderne il posto, al momento della pace.
Ma anche qui bisogna tener presente il carattere degli Stati in campo. Ci sono casi in cui l’equivalente deve essere assai più rilevante del fine politico, perché questo possa essere raggiunto mediante di esso. Il fine politico sarà la misura tanto più predominante – decisiva addirittura – quanto più indifferenti saranno le masse, quanto minore la tensione preesistente in ambo gli Stati o nei loro rapport...
Indice dei contenuti
- Della guerra
- Copyright
- Nota introduttiva di Giacinto Cardona
- Cronologia della vita e delle opere
- Nota bibliografica
- SULLA NATURA DELLA GUERRA
- SULLA TEORIA DELLA GUERRA
- SOMMARIO