Per la pace perpetua
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Per la pace perpetua

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Per la pace perpetua

Informazioni su questo libro

Scritto nel 1795, questo progetto etico-giuridico recepisce tutte le sollecitazioni di uno scenario politico internazionale in radicale mutamento e le rielabora in una riflessione molto avanzata, mettendo al centro l'idea di pace e la ricerca delle sue condizioni di possibilità. La Rivoluzione americana, con il suo esito federalistico, e la Rivoluzione francese, con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, aprono nuove prospettive sul terreno della moralità, del diritto e della storia. E all'ordinamento repubblicano dello Stato, al debole diritto delle genti, Kant avverte la necessità di affiancare nuovi, più elevati istituti giuridici in grado di unire i popoli e abolire la guerra.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817106399

INTRODUZIONE

1. Le premesse teoriche

Per comprendere pienamente la riflessione politica, o giuridico-politica, kantiana e i concetti/istituti in essa dispiegati di perfetta costituzione interna, di stato, di lega o federazione di popoli, di pace perpetua, di diritto cosmopolitico è necessario che questa riflessione sia legata, in una lettura unitaria, con l’ampia teorizzazione fondativa della moralità universale, con l’interpretazione progressuale, a un tempo razionalistica e finalistica, del cammino della storia umana, e infine con l’analisi antropologica.1 Né per quella comprensione si può trascurare il contesto storico-politico, gli eventi cruciali dell’ultimo quarto del Settecento: la Rivoluzione americana, con il suo esito federalistico e la Dichiarazione d’Indipendenza, la Rivoluzione francese, con i principi accolti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, costituirono infatti, per Kant, importanti punti di riferimento e stimoli all’approfondimento dei temi giuridico-politici.
Temi che irrompono piuttosto tardivamente nella riflessione kantiana, e conseguono, non solo dal punto di vista cronologico ma anche dal punto di vista teorico, anzitutto alla chiarificazione del quadro normativo. In effetti, entro l’ambito pratico della riflessione giuridico-politica, la moralità risolve il suo carattere formale (l’accusa rivolta già dai contemporanei alla morale kantiana di attestarsi sulla forma, il «tu devi»), e acquista, come nota H. Cohen, valenza di concretezza, contenuti precisamente indicati. La forma del dovere trova il suo oggetto entro la storia ed entro la politica, le quali diventano in tal modo campo di dispiegamento e applicazione dei principi morali, ma anche nuovo orizzonte trascendentale. A. Philonenko vede l’intero sistema kantiano della moralità sfociare in una filosofia del diritto o per il diritto, cioè in un sistema di principi per la prassi politica. 2
Non è, però, soltanto la teorizzazione morale che si configura come propedeutica alla riflessione giuridico-politica. Quest’ultima consegue del pari all’affrontamento delle questioni fondamentali della storia umana: dalla ricostruzione per congetture delle sue origini, all’analisi delle condizioni antropologiche, le disposizioni naturali, e del loro ruolo nella storia umana, al rapporto fra agire umano libero e piano della natura/provvidenza, alla ricerca di un filo conduttore che dia senso agli accadimenti, fino alla interpretazione dell’intero corso storico come di un progresso, un avanzamento della specie umana verso il meglio, seppure tormentato per l’individuo a causa della sua finitezza.

1.1 La storia, sintesi di natura e libertà

Negli scritti più significativi in cui Kant discute di storia, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), Congetture sull’origine della storia (1786), Il conflitto delle facoltà (1798),3 il lettore coglie senza difficoltà una sostanziale differenza con la precedente teorizzazione morale. Una differenza riassumibile nella complessa interazione stabilita fra quelle che possiamo definire le premesse trascendentali della storia umana, che sono di tipo naturale/deterministico e antropologico, e le componenti razionale e morale dell’agire umano; l’interazione cioè fra natura e morale, fra finalismo e libertà. La storia è indagata da Kant attraverso la domanda sul suo senso, attraverso la ricerca di un filo conduttore capace di dar conto del significato unitario e globale degli eventi, che, certo, non può prescindere da un’analisi «empirica», la più ampia e aperta alle discipline ausiliarie, ma che è orientata teleologicamente, alla comprensione cioè del suo scopo finale.
Accogliendo l’ipotesi biologica del preformismo elaborata da Charles Bonnet, Kant (il quale, come emergerà chiaramente dall’Antropologia pragmatica,4 conosce le più aggiornate ricerche naturalistiche di Buffon, Linneo, Moscati, Camper) ritiene presenti in tutte le creature disposizioni naturali destinate a un completo sviluppo e corrispondenti alla finalità di ogni essere. Secondo questa ipotesi, la struttura biologica di ogni animale contiene dei «germi» (Keime), delle possibilità allo stato puramente incoativo, un virtuale programma di sviluppo, che nel caso dell’uomo, animal rationale, sembra lasciare sospeso e inspiegato il rapporto fra natura, libertà e moralità.
Il processo dello svilupparsi, fino al compimento, delle disposizioni naturali umane, corrisponde in realtà sia al percorso di graduale costruzione di sé dell’uomo, sia al percorso di costruzione della società-storia, nella quale il genere umano giunge a realizzare un progressivo avanzamento. Cosicché la storia e il progresso risultano in buona parte riconducibili a una matrice naturale da cui prende forma l’umanità dell’uomo. La natura prepara l’uomo a ciò che egli stesso deve fare, lo orienta e lo spinge, talvolta suo malgrado, verso le tappe progressive della sua socializzazione-civilizzazione e della sua moralizzazione; verso un perfezionamento che proviene dai mezzi offerti direttamente dalla natura, ma che comprende anche la Willkür, la volontà liberamente determinata.
La storia umana viene così interpretata da Kant come la realizzazione dell’intenzione, della finalità della natura e, insieme, come l’esplicazione della libertà dell’uomo. Ciò che appare subito connotato da intima e profonda aporeticità, ma che va compreso nel senso che la natura esige il completo realizzarsi delle disposizioni, spingendo in vario modo l’uomo in quella direzione. A un tempo, però, essa vuole che il motore del progresso e del perfezionamento sia l’attività libera degli individui, che hanno maturato il disciplinamento di sé e conquistato piena capacità razionale di agire, prescindendo dal dominio dell’istinto. Lo sviluppo della cultura, la capacità di porsi fini «arbitrari», scelti cioè a proprio arbitrio, nonché la capacità dell’uomo di «districarsi da solo» e di elevarsi dalla «massima rozzezza» alla «massima abilità» tecnico-strumentale, alla perfezione interiore e del pensiero, alla «razionale stima di sé», saranno i fattori fondamentali del perfezionamento del genere umano che, con duro lavoro e quasi senza goderne, gli individui preparano per le generazioni successive, alle quali trasmettono il proprio «grado di raggiunta luce».
Per Kant, dunque, non è l’individuo che può, nel breve corso della propria esistenza, giungere alla compiuta realizzazione del cammino di perfezionamento e alla felicità del suo godimento; solo il «genere umano», nella sua pur finita, approssimativa, immortalità, può ambire a un tale risultato. L’individuo, anzi, sembrerebbe qui non più di un anello nella catena delle finalità: l’incessante affaticamento delle generazioni precedenti a vantaggio di quelle successive sembrerebbe relegarlo a un ruolo strumentale nei confronti dei posteri e della specie in generale; tuttavia, si può dire che l’intento kantiano sia qui di far risaltare l’unità della storia e la sua continuità, che sono poi le premesse della visione progressuale, cui va a dare un importante contributo.
Resta da comprendere il veicolo che la natura adopera in ordine al raggiungimento del fine, cioè la stessa struttura antropologica dell’uomo. Anche Kant si trova così di fronte alla domanda, che già era stata centrale per tutta la filosofia moderna: qual è la natura dell’uomo. La risposta hobbesiana, che identificava nell’uomo il nemico, il lupo per il suo simile, appare a Kant semplicistica e insoddisfacente, così come considera inadeguata e parziale la risposta di Rousseau centrata sulla bontà originaria dell’uomo, che rende necessario il ricorso alla società/cultura per spiegare corruzione e degrado umani e per attribuirle la responsabilità di tutti i mali. In realtà anche Kant, con un’espressione molto vicina all’incipit dell’Émile, conviene che la «storia della natura» comincia col bene perché essa è opera di Dio, mentre la «storia della libertà» comincia col male perché essa è, invece, opera dell’uomo.
Nella natura umana convivono, per Kant, due fondamentali predisposizioni: alla socialità, alla convivenza e cooperazione (Geselligkeit), e all’insocievolezza, all’isolamento ed egoismo (Ungeselligkeit). Tendenze «buone» e tendenze «cattive», come le qualifica nella Religion, opposte, antagonistiche ma compresenti, ne caratterizzano la struttura antropologica, col risultato di un perenne conflitto individualismo/socialità nel quale si trova per Kant la molla di ogni progresso e della stessa moralità. Da un tale antagonismo si genera la resistenza di ciascuno nei confronti delle pretese egoistiche dell’altro, si liberano energie che innescano una dinamica di creatività, ambizione, emulazione. Lo sviluppo di «talenti», l’educazione del gusto, il desiderio di onore, potenza, ricchezza, sono così per Kant tutti esiti del conflitto.
Questa lettura antropologica kantiana, che coniuga, non diversamente da A. Smith, visione concorrenziale e finalismo, e che considera prodotto del conflitto ciò che sembra essere proprio dell’intelletto umano, del complesso gioco e dell’interazione fra le diverse facoltà umane, si è attirata critiche severe.5 Essa è tuttavia funzionale, per un verso, a una precisa idea della società e delle sue dinamiche, per altro verso, alla giustificazione del progresso e del perfezionamento dell’uomo; ma è anche applicata alla constatazione della presenza inestirpabile e, come dice Ricoeur, mai scrutabile fino in fondo, del male radicale,6 di profonda radice luterana.
La conseguenza è allora che l’antagonismo produce disuguaglianza, oppressione, sfruttamento, privilegi, bisogni sofisticati; una serie di mali che, diremmo mandevillianamente, contribuiscono anch’essi al progressivo, globale avanzamento della specie. Infine, a coronamento degli effetti, per Kant è ancora dal carattere antagonistico della natura dell’uomo che si origina l’ordinamento sociale, nel quale sono fissate le modalità di composizione e di controllo dell’antagonismo stesso in ordine alla convivenza umana.

1.2 La società: dalla condizione selvaggia alla condizione civile

Questo ordinamento è indicato da Kant come la più elevata costruzione che la natura affida al genere umano, costringendovelo, in certa misura, attraverso l’impellere del bisogno di sicurezza, che mai può essere soddisfatto in una condizione come quella selvaggia, originaria, regno dell’incertezza e della precarietà. Motivazione già riconosciuta dai giusnaturalisti, che, non diversamente da Kant, trascurano altre complesse ragioni come la tutela e promozione della persona.
L’ordinamento della società, cui presiede la costituzione civile, realizza il passaggio da una condizione naturale, in cui i rapporti sociali sono governati dal principio della forza, a una condizione civile, dove gli stessi rapporti sono governati dal principio del diritto, il quale non si configura solo come strumento di sicurezza collettiva. La società politica, fondata sulla legge e il suo ordinamento, è in grado infatti di garantire una uguale espressione della libertà di tutti i suoi membri, a patto che «la libertà sotto leggi esterne sia congiunta nel più alto grado possibile con un potere irresistibile». Potere che propriamente dovrebbe essere solo coattivo, ma al quale Kant esige che non si possa «resistere», neppure in caso di tirannia. Con la società civile o politica si raggiunge dunque il duplice obiettivo: di una composizione pacifica delle contrastanti tendenze umane, nel mentre si pongono in atto le condizioni per utilizzare al meglio, attraverso l’uguale esercizio della libertà, quelle stesse tendenze antagonistiche.
Esaltando infatti la volontà di affermazione di ogni individuo (ambizione, emulazione) e insieme le sue capacità, se ne favorisce secondo Kant la crescita sul modello «degli alberi in un bosco», ciascuno dei quali, nella costrizione spaziale in cui si trova, «cercando di sottrarre aria e luce all’altro» si spinge più in alto, con il risultato di «crescere belli e dritti»; mentre gli alberi che, in totale libertà e lontani tra loro, mettono rami a piacere, «crescono storpi, storti e tortuosi». La costrizione legale (analoga a quella spaziale) regolando le libertà individuali neutralizza, per Kant, gli esiti nefasti del dispiegarsi dell’insocievolezza.
Certo, occorre una «costituzione perfettamente giusta», che è poi per Kant il fine della natura rispetto alla specie umana. Un fine che si traduce in compito supremo e quanto mai arduo, che sempre si scontra con la realtà imperfetta dell’uomo, portato ad abusare della propria libertà. Del resto, Kant lo definisce duramente «animale che ha bisogno di un padrone» che ne pieghi la volontà, costringendolo a sottostare a una «volontà universalmente valida» e garantendo la libertà di ciascuno. Un padrone che sia però supremamente giusto, dal momento che deve costituire l’organo di garanzia della «giustizia pubblica». Affermazione forte e diretta, a seguito della quale si presentano difficoltà di ordine diverso; essa sembra inficiare il presupposto stesso della capacità umana di autodeterminarsi. Sembra prodursi, infatti, una scissione fra l’animalità dell’uomo che ha bisogno di un padrone e la razionalità/moralità che pare destinata a diventare il vero padrone. Ma qui si discute della libertà esterna, dunque il padrone è il capo supremo, il quale deve essere giusto per se stesso, ma anche uomo. La difficoltà diventa così, per Kant, pressoché insolubile, nel senso che, come egli stesso dice, è «impossibile» trovare una soluzione perfetta. Non resta allora che procedere per approssimazioni successive, avvicinandosi in un percorso lungo, forse inesauribile, a un’idea che gli corrisponda. Infatti, come Kant conferma nella Conclusione della Rechtslehre, «la costituzione giuridica perfetta fra gli uomini dev’essere annoverata fra le idee alle quali non si può trovare nell’esperienza nessun oggetto adeguato».
Così il continuo approssimarsi a una tale idea della ragione (coincidente con l’approssimarsi al fine), il cui carattere di perfezione la rende inattingibile dall’uomo, almeno nella sua compiutezza, non costituisce se non il cammino verso quell’idea, rappresentato dallo sviluppo della coscienza civile e, a livello più alto, dalla coscienza morale. Si tratta naturalmente di un approssimarsi di tipo asintotico, cui non segue un raggiungimento. Tuttavia, ritenere possibile tale percorso di avvicinamento a una costituzione politica perfetta significa ritenere possibile il progresso civile e morale.7
Ma Kant non si ferma qui. In totale analogia con la costituzione civile perfetta, obiettivo e compito cui la natura e la ragione «costringono» individui egoisti e fra loro insocievoli, li inducono ad abbandonare il ricorso alla forza per dirimere le loro controversie e accedere a una convivenza governata da una legge sempre più adeguata, da cui riceveranno sicurezza e libertà, allo stesso modo la natura e la ragione «costringono» gli stati, agitati da un costante antagonismo, a uscire dalla condizione di «selvaggi privi di leggi» ed entrare in una lega di popoli, dalla quale potranno attendersi sicurezza e diritti, non secondo la propria forza e potenza, bensì secondo «le leggi della volontà riunita». La lega degli stati o federazione è anch’essa, come la costituzione interna perfetta, un’idea della ragione cui, ancora una volta, approssimarsi. Un’idea in seguito continuamente ripresa e rielaborata da Kant, che evolverà verso livelli di maggiore esplicitazione e chiarezza nella terza Critica, dove assume la forma del «tutto cosmopolitico» o «sistema di tutti gli stati»,8 e soprattutto nel progetto di Pace perpetua.
Fin dall’abbozzo, l’idea di federazione rientra nella prospettiva di pacificare gli stati. Kant anticipa che il suo attuarsi richiede un più elevato livello di sviluppo delle disposizioni naturali della specie, e che solo un’alta crescita della cultura e della sua capacità di modificare l’ambiente naturale e sociale, insieme a un’alta crescita della moralità, possono infine consentire.
Né Kant ignora la complessa attività a favore della pace svolta dai filosofi della tradizione pacifista, la cui idea di pace aveva subito letture distorte e continue irrisioni. Il suo riferimento è soprattutto a Saint-Pierre, il «sognatore sublime», come veniva chiamato, e a Rousseau, i quali avevano peccato nel descrivere la pace come una condizione concretamente raggiungibile in breve tempo, attirandosi in tal modo ironici epiteti. La loro proposta, e la concezione dei ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INTRODUZIONE
  5. ALLA PACE PERPETUA
  6. PARTE PRIMA, - che contiene gli articoli preliminari per la pace perpetua tra gli stati
  7. PARTE SECONDA, - che contiene gli articoli definitivi per la pace perpetua tra gli stati
  8. PRIMO SUPPLEMENTO - Della garanzia della pace perpetua
  9. SECONDO SUPPLEMENTO - Articolo segreto per la pace perpetua
  10. APPENDICE
  11. NOTE
  12. BIBLIOGRAFIA