II
Il duello su due ruote. Coppi e Bartali
Milano-Sanremo indimenticabile
Coppi l’ha uccisa, ma offriamo
a Teisseire la coda della volpe
di Bruno Roghi
Quando i corridori procedono in gruppo, e sia pure a velocità elevata, tu puoi pensare a tante cose, a seconda del tuo buon umore o del tuo malumore: che sono un nugolo di allegri giovanotti in lesta passeggiata, che sono una frotta di maschere avviate a un veglione, che sono un gregge di pecore stimolate alla pastura. Pensi a tutto, insomma, fuorché a una corsa come si deve. A noi per esempio è sempre capitato di sospettare nei corridori in pacchetto una sorta di gargantuosa digestione dello sport ciclistico. E ci siamo sempre annoiati a morte pur ammettendo che la digestione è un fatto naturale, importante e, se volete, necessario.
A noi piace l’uomo solo, l’atleta che lotta in solitudine – reagendo alla fatica che lo consuma, alla strada che lo ingoia, agli avversari che l’incalzano – cessa di essere un corridore qualunque. Diventa un personaggio. Alla gara che vince, se la vince, egli non dà soltanto un nome, un colore, una marca, una ruota: dà un’insegna. A volte dà qualcosa di più. Fausto Coppi ha dato alla Sanremo una fiamma: la fiamma della fiaccola che egli ha acceso sulle balze del Turchino e ha spento sotto lo striscione vermiglio di Sanremo. Questa fiaccola ha illuminato lo sport italiano, e ha inondato di bagliori i centomila volti che, in teoria incessante, hanno accompagnato l’atleta lungo tutta la parabola della sua impresa.
Le cinque dita
È la prima volta che ci capita, forse, di chiudere una gara nella conca di una mano. Cinque dita, cinque corridori: tutta la Sanremo è qui, in questa mano sintetica che vi mostriamo. Ma voi direte che a Milano erano più di cento, di tutte le maghe e di tutte le Ditte, cento che sognavano di staccare dall’albero della Sanremo il frutto maturo della vittoria, il frutto acerbo della promettente affermazione.
Cento a Milano, agli ordini di Petit Breton, e soltanto dieci, o poco più, un chilometro dopo. Chissà : forse le dita di Petit Breton hanno spruzzato polvere di pepe nel sangue e negli occhi dei «sanremisti» 1946. Fatto sta che la fuga è andata alla partenza come il fiammifero alla sigaretta. Il «pronti via» dei vecchi nostalgici del ciclismo di una volta, almeno così dicono loro.
Poi sono rimasti in cinque. Nominiamoli per singole dita, perché lo meritano, perché la Sanremo è virtualmente roba loro. Il pollice, l’immaginate: Fausto. L’indice: Teisseire che mostra alla pattuglia il suo remoto traguardo. Il medio e l’anulare: gli italiani di Francia Casellato e Bardelli, che alla mano danno il movimento e l’articolazione con i loro strappi e le loro serpentine. Per il mignolo facciamo l’onesto Mutti, il più piccoletto, ma tondo e stagno, come certi mignoli bacherozzoli appunto.
Questa mano aperta è il ventaglio della corsa: e va che ti va. I chilometri che mancano al traguardo sono uno spavento, ma per nulla spaventati, di rimpallo, sono gli innumerevoli inseguitori che non credono affatto nella serietà e nella resistenza dei fuggiaschi. Sanno che laggiù, a gambe larghe tra la pianura e il mare, monta la guardia il carabiniere del Turchino. Li arresterà tutti e cinque, li tradurrà alle carceri sportive, dove vengono imprigionati i disturbatori dell’ordine pubblico.
Guardatelo
Al Turchino non c’è un carabiniere. C’è un macellaio arguto e invisibile con un coltellaccio in mano. Di un colpo netto mutila la mano che sapete. Tre dita saltano via. Restano il pollice e l’indice, Coppi e Teisseire. Un’altra tranciata, là in cima. Resta soltanto il pollice. Pollice verso per tutti gli avversari e pollice verso Sanremo.
Non lo prenderanno più. Dire questo è poco. Non lo vedranno più. È ancora poco. Ne farà una seminata.
Guardatelo. Sta scalando la rampa acre di Albissola, è tutta scanalature profonde, buche insidiose, pietre taglienti. Fausto, con quei suoi occhietti tondi iniettati di sangue, fruga il terreno come un rabdomante: non c’è rischio che sbagli, evita ogni pericolo di sobbalzo e di foratura con la sua pedalata lieve e destra, come se le ruote carezzassero e non mordessero. Naturalmente Zambrini e Tragella dicono che è merito (anche) della bicicletta. Sia concesso. E se volete, amici, cambiamo la romanza dell’Aida e che «la celeste» si chiami… bianca, e che il trono vicino al sol sia vostro.
Guardatelo, gli hanno allungato la bisaccia dei viveri, a Savona. A tracolla, al volo, poi sceglie, ripone, esamina, decide, inghiotte. Non mangia alla ciclistica maniera, strappando e divorando, ma propriamente fa uno spuntino accurato, l’uovo picchiato contro il manubrio, via la chiara, il tuorlo sorbito con distinzione, alte le mani, il girarrosto (scusa Zambrini) che rotea senza pause. Ne dite che questo è soltanto colore. Maestri dell’arte permettendo, è anche tecnica. Il corridore che mangia bene, infatti, è un atleta in pieno possesso delle sue virtù, di gambe e di cervello. Fausto ha finito di cibarsi. Ti verrebbe la voglia di porgergli il tovagliolo.
Non ha più segreti
Oh, finalmente. Coppi ha abbracciato l’estremità del manubrio, ed è tutto ricurvo sulla sua macchina a un tempo fragile e forte. Fino a questo punto – Alassio – egli ha marciato con le mani appoggiate all’arco della guida, pilotando più che spingendo. Un’energia misteriosa e sensibile, quasi una musica, ha alimentato la sua andatura, ha composto la sintassi della sua fuga fenomenale. Da quanto tempo, da quanti chilometri va da solo? Chi li conta più? Ci dovrebbe essere la fatica in agguato, la fatica che pianta i denti incisivi nei polpacci. Ma Fausto ignora la fatica. La fatica lo segue come un cane sciocchissimo che latra, e latra lingua fuori, dietro il pedalatore inafferrabile.
Le rampe sono tue, Coppi: il Mele, il Cervo, il Berta. La moltitudine raggiunge i limiti estremi della densità . Ma il suo ardore è pari alla sua disciplina. Le pareti che forma la folla ai lati della strada sono erte e paurose, ma il corridoio è libero e spazioso: e non una mano che s’attenti a spingere la schiena dell’atleta, tutte le mani che applaudono con frenesia, questo sì.
Allora l’atleta si trasfigura, nella nostra fantasia commossa. Prima era il corridore che fugge, poi è diventato la vedetta della gara, poi ancora il protagonista spavaldo. Ma ora – che Sanremo lunata sfoggia all’orizzonte il suo strascico candido che si immerge nell’azzurro intenso del mare, e il mare crepita di scintille solari, e la primavera è dappertutto, e l’aria è carica di effluvi odorosi –, ora Fausto sprigiona la luce della fiaccola.
È stato proprio così
Egli è la fiaccola della Sanremo. La Sfinge non ha più segreti per questo Edipo allampanato, che la va svelando alle folle con la sua grinta di buon combattente sportivo, con le sue pupille pungenti che trasformano i vetri degli occhiali, con la sua bocca semichiusa, un poco ansimante. La Sfinge si è arresa. E ha consegnato al suo violatore la fiaccola perché la scuota, ne sprigioni faville, in onor tuo, affascinante Sanremo, in onor tuo, rifiorente sport nazionale.
Per virtù di Coppi la Sanremo cessa di essere una gara di ciclisti, per diventare un’idea: ch’è un’idea di forza, di salute, di bellezza. Chissà per quale mai gioco di strani riflessi noi ci sentiamo, per l’impresa di Coppi, repentinamente italiani, di nuovo italiani.
L’impresa di Coppi varrebbe soltanto a dare lustro novello a una splendida manifestazione atletica, quale la Sanremo, se un altro coefficiente non fosse intervenuto per conferirle un innegabile significato simbolico.
La gara, la lotta, il secondo posto, la «solidarietà » del campione francese Teisseire. Noi li accomuniamo nel medesimo elogio, li confondiamo nella medesima nostra esultanza. Un italiano e un francese, capite? L’uno primo, l’altro secondo, l’uno e l’altro soli, senza ausilio di ruote accomodanti o servili, entrambi lanciati in una sfida che è nata – diciamolo subito – da un gesto di amicizia.
Ti abbiamo visto, Coppi, ti abbiamo visto, Teisseire, quando vi siete accostati, e parlati, e riparlati in corsa, là dopo Voghera. È stato là che la vostra fuga a cinque è virtualmente diventata una fuga a due. Si sono intesi per assonanza, forse per cenni, gli atleti hanno invisibili antenne radio tra i capelli. I due avevano sentito di essere i più forti. Misurandosi si erano stimati. Pesandosi con la coda dell’occhio e col battito dei pedali si erano accorti di essere i corifei della Sanremo, e che tutto dipendeva da loro. Parlati per monosillabi, si sono. Ma le belle (e capziose) decisioni spregiano in lunghi periodi. Da un monosillabo è derivata la vita, dal «sì» di Eva.
Al messaggero
Si sono detti (è come se li avessimo uditi): «Siamo i più forti. O la va o la spacca, alla Coppi. Noblesse oblige, alla Teisseire. Diamo battaglia. Chi di noi due vince è bravo. Chi di noi perde vale il vincitore».
È stato così, credetelo, è stato proprio così. Una Sanremo come questa ha bisogno di essere stata così. E chi ha perso, Teisseire, ma perso da solo, vale il vincitore.
Non nella gamma dei valori meramente atletici, e secondo il criterio delle valutazioni tecniche, d’accordo. Ma sul piano eletto dei vagli morali. Un italiano e un francese soli davanti a tutti. Il garofano della fraternità latina ha dato il suo colore più bello e il suo profumo più intenso ai giardini che scandiscono con le loro sequenze il nostro cammino alla città dei fiori, vicino al confine che deve essere un ponte, che deve essere l’appuntamento per un abbraccio.
Teisseire, tu allevato nel clan dei levrieri gallici, tu così solido con le tue cosce a clava, tu così elegante con la tua pedalata armoniosa, tu, Teisseire, hai donato a noi, con uno spettacolo di ardimento e di cavalleria, una festa della speranza e della bellezza. Se la Sanremo fosse una caccia alla volpe la coda spetterebbe a te, che sei stato il cavaliere della gara, tu che, con il tuo intervento e la tua prova, hai detto agli stranieri – quelli che si baloccano con i nostri profondi dolori, e spesso ci umiliano perché ignorano, o vogliono ignorare, che gli italiani hanno profondo anche il senso dell’onore – una umile e grande verità . L’amicizia degli italiani è una cosa bella e buona.
Te l’hanno detto, Teisseire, i centomila e i centomila che ti hanno applaudito e spronato lungo il percorso: i centomila e i centomila che hanno fatto della Milano-Sanremo una pacifica, onesta e scintillante apoteosi dello sport libero della libera nazione italiana. Che tu sia un messaggero della buona notizia, Teisseire, oltre i confini, questi di Francia, e gli altri confini.
«La Gazzetta dello Sport», 21 marzo 1946
Vi aspettavamo, Fausto e Gino…
di Orio Vergani
Vi aspettavamo, Fausto e Gino, da sei anni: vi aspettavamo dal giorno in cui, sotto un cielo d’uragano, sotto la sferza della pioggia, sotto il vento che piegava gli alberi, vedemmo per la prima volta nel Giro d’Italia del 1940, sulle rampe della salita dell’Abetone, venire avanti, leggero sulla sella e sul pedale, un magro giovanotto sconosciuto che aveva piantato in asso Bartali e il cui nome, Fausto Coppi, non diceva un granché.
Da allora era cominciato il duello. Due scalatori, due passisti, entrambi uomini di poche parole, il primo chiuso nella preghiera, il secondo nel segreto della sua giovanile furbizia, venivano a rinsanguare il popolarissimo sport con la presenza di due protagonisti che avrebbero rinnovato per la folla, che ama le combattutissime rivalità , i tempi appassionati di Binda e Guerra e di Girardengo e Belloni.
Bartali e Coppi si assomigliavano. Non erano certamente due fratelli. Ma certamente due cugini. Sulla salita, Coppi pareva avesse meno forza, ma aveva più sicura autorità . In pianura, Bartali era un po’ scomposto con un pedalare rotto e scentrato. Coppi era il passista-fenomeno, che doveva far dimenticare i Demuysière, gli Archambaud, i Di Paco e lo stesso Binda. Leggero, equilibrato sulla bicicletta, come la mano sulla penna veloce, filava in pianura con l’accortezza di una rondine che sfiora la terra per portare un po’ di fanghiglia al suo nido. Bartali forse lo superava in audacia, nelle discese; era l’acrobata dell’abisso, il falchista che prima di buttarsi nella discesa si faceva il segno della croce e poi si affidava al suo angelo custode.
Due atleti differenti solo per un tono, non per un colore. Forse di un tono più grave Bartali, nel cui sforzo è più evidente una specie di santa e forsennata ira di crociata, e di un tono più splendente, quasi argenteo, Coppi. Lega di bronzo il primo; d’argento il secondo. In sella, due statue. Visti di fronte, due maschere differenti, Bartali cupo, ostinato, quasi folle, inciso quasi d’ira; Coppi enigmatico, assonnato, con la palpebra pesante e l’occhio sornione, un occhio come se ne vedono disegnati negli obelischi egiziani. Nel viso del primo, il dispetto di sentirsi a ventisei anni vecchio in contrasto al rivale ventenne. Nel viso del secondo, una sorta di indifferenza sonnambolica.
La guerra ha fatto rinviare la prova decisiva di sei anni. I due sono restati con le armi al piede per sei anni. I muscoli si potevano intanto arrugginire e fiaccare. Bartali è rimasto in Italia: Coppi, fantaccino, è finito in Tunisia ed è stato fatto prigioniero.
Forse, tanto l’uno che l’altro, hanno pensato che il destino fosse di non incontrarsi più. Questo è stato il pensiero di tanti uomini, in questi sei anni: la vita ha cammini molto misteriosi. Dal grande naufragio, dal diluvio universale vengono fuori dall’arca, appena la barca della pace ha un punto di approdo, i due rivali: trovano fra le macerie e la polvere delle rovine, fra le case devastate dalla lebbra della mitraglia e dal cancro delle cannonate, la folla del 1940.
La gente esce dalle case, si mette in fila, pare addirittura che si prepari a una migrazione o a un imbarco, che aspetti non si sa quale segnale. Ha lasciato tutto il passato alle spalle, forse ne è stata tanto oppressa che non si volgerà più. Sa che non è così ma pare che sia così, e forse nel suo desiderio, se si interrogasse, vorrebbe fosse così.
Sembra un esercito, come in certe vecchie illustrazioni, un esercito che abbia lasciato gli zaini nei fossi, un esercito all’antica, senza traini e cannoni, senza impedimenti. Sembrano un po’ anche soldati senza stellette, che abbiano rinunciato a combattere: non sanno se devono essere tristi o contenti.
Una volta, ai lati delle strade, c’era ogni tanto una croce. Quand’ero ragazzo quella croce voleva dire che, vicino a quella siepe, c’era stato un morto ammazzato per amore, o per qualche sparo di trombone dei briganti. Poi, vennero le croci di pietra che ricordavano il morto per uno scontro automobilistico, il morto per una motocicletta rovesciata. Adesso, ogni tanto, una vera tomba. Soldato anonimo, caduto qui, sepolto qui in fretta dai compagni. Oppure, in mezzo al granoturco, cento tombe in fila, precedute da un cartello: cimitero inglese, cimitero francese, cimitero indiano.
Anche per questo la gente che sta a lato della via mi fa ancora pensare alla guerra. La stessa strada va dal casolare sperduto alla città , bordata da una siepe di folla. Italiani in attesa, tanto per non pensare a melanconie, del Giro d’Italia. Guardo il colore di questa folla. La macchina e lo sport la sorprendono col vestito di tutti i giorni. Potrei dire che li sorprendiamo come se fossero cascati adesso dal letto. Non è vestita per andare a messa, né per andare al pomeriggio all’osteria. Contadini, operai, braccianti, gentarella mista, geometri, bonificatori, impiegati paesani, studenti di paese. Ogni tanto una fila nera di preti.
Una volta la folla aveva un color grigio e verdognolo. Il grigio era la borghesia, il verdognolo la vita militare; quello che s’era avanzato del corredo militare. Moltissimi italiani portavano, a consumo, un vecchio pantalone grigioverde «grattato». Poi, c’era il grigio dell’abito borghese, sogno dei «congeda’». Tutti gli italiani, per venti anni, hanno avuto l’aria dei «congeda’». In campagna, piaceva il grigio azzurrino, il grigio rosato, il grigio violaceo. Certi riflessi erano inconfondibili: i romagnoli amavano un grigio chiaro, acciaiato o, meglio, con riflessi di alluminio. Di bruno, color ala di passero, vestivano in Abruzzo. Era il colore del fustagno. Poi si accecava per il bianco. Da Pescara in giù, pantaloni bianchi, che dalla macchina sembravano candidissimi: se ti fermavi erano color avorio, velati di sudore, bruciati dal ferro, macchiati dal pomodoro. Scarpe di tela bianca, appena si arrivava in vista dei paesi. La camicia alla Robespierre – con sudati ciuffi di pelo nello scollo – trionfava verso Napoli, col berretto alla gelatiera.
Adesso, da Piacenza in giù, mezza Italia veste con gli scarti degli eserciti che hanno fatto il pendolo lungo la penisola. Non c’è differenza per le strade di Toscana o quelle di Romagna. L’Italia povera, e cioè il 95 per cento dell’Italia, veste un miserabile e frusto color kaki. Una volta, lo vedevamo sulle strade d’Africa, adesso ritorna su e domina per tutto l’Appennino, come se fossimo ancora sull’altopiano etiopico. Questo color coloniale, questo color da campo di prigionia e di concentramento, portato all’ombra dei gelsi e dei campanili diroccati, vicino ai ponti distrutti, nei villaggi sventrati, è un poco il colore italiano, di un’anima fiaccata dai colpi della sorte. Non è solo per il caldo che tanta gente va, invece che in maniche di camicia, in maglietta canottiera o addirittura a torso nudo. La folla italiana ha bisogno di camicie. Quelle che ha ancora sono lise, si lasciano da parte per la domenica. Queste braccia abbronzate non sono segno di civetteria maschile. Ho visto dei sessantenni forzatamente abbronzati.
Questo kaki – tedesco, austriaco, americano, inglese, australiano, neozelandese, indiano, negro – si va consumando. Anche questo corredo va a pezzi. Folla tipo Texas, sì, ma un po’ a brandelli. Le riserve si esauriscono. La marcia degli eserciti si è fermata. I pantaloni del ’44 hanno perduto il colore, la forma, i bottoni; nel ’45 ci hanno messo le toppe; nel ’46 minacciano di andare a brandelli.
Man mano che si va in giù, verso Napoli, dove l’occupazione alleata ha preceduto di qualche mese l’occupazio...