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Boccaccio
Informazioni su questo libro
Dall'
Elegia di madonna Fiammetta, definito il primo romanzo psicologico, alla riscoperta della lingua greca con la sua immissione nella cultura trecentesca e, insieme, all'uso sempre più ampio del volgare, fino all'apologia della donna come essere senziente, capace di prendere in mano la propria vita e nutrire amore anche in senso fisico non diversamente dall'uomo, Giovanni Boccaccio ha segnato un cambiamento di rotta nella storia della letteratura, della cultura e del costume. Con il
Decameron, poi, ha costruito un'opera aperta in grado di ricostruire, "rinovellare" il mondo e le sue istituzioni – un mondo smarrito nello scenario della peste, buio e senza un domani – con il recupero della dignità umana attraverso l'intelligenza del dire, del raccontare, del ridere, del fare, seguendo regole civiche e di solidarietà: un manuale di sopravvivenza da leggersi scavando sotto la superficie del puro intrattenimento, al di là dell'aspetto "boccaccesco" che del libro è solo il richiamo epidermico.
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
Didattica generaleIL SUO MONDO E LE SUE IDEE
all’Arianna, che preferisce Boccaccio
“FIN DAL GREMBO DI MIA MADRE, E QUEL CHE È STATO LO TESTIMONIA, FUI DISPOSTO DALLA NATURA ALLE MEDITAZIONI POETICHE, E A MIO PARERE SONO NATO PER QUESTO.”
Nel quindicesimo e ultimo libro della grande opera erudita sull’Olimpo greco e romano, Le genealogie degli dei pagani, che è la prima straordinaria enciclopedia moderna della mitologia classica, Giovanni Boccaccio racconta, con orgoglio e cruccio a un medesimo tempo, la storia della sua precoce vocazione poetica e quella della sua formazione, che non poté essere, come avrebbe voluto, tutta concorde alla sua natura, e cioè tutta d’ambito letterario, né fu, a suo dire, adeguata: «Se mio padre me lo avesse generosamente permesso, sarei diventato un poeta celebre; e invece, mentre prima si tentava di piegare il mio ingegno alle arti del guadagno, poi a studi da guadagno, il risultato è che non son diventato né un mercante né un canonista, e ho perso l’occasione di essere un poeta notevole».1
Nato per la letteratura, e però costretto ad un percorso di studi non dedicato, assai vario e per niente lineare (che andò dai rudimenti della “grammatica”, cioè del latino, e della retorica, a quelli delle finanze e della matematica, per concludersi con gli studi, mai portati a termine, in diritto canonico), già ormai maturo, anzi, prossimo alla vecchiaia, con alle spalle capolavori quali L’elegia di madonna Fiammetta, il Decameron e il Corbaccio, e dopo aver raccolto e ordinato tutto il sapere conseguibile sugli eroi e sugli dei degli antichi, Boccaccio continua a ritenere insufficiente il suo proprio tesoro culturale, a pensarlo e a descriverlo come inadeguato a quell’idea alta di poeta intellettuale e umanista che nel corso della vita aveva maturato e contribuito a creare.
Le Genealogie, scritte a varie riprese a partire dalla metà del secolo e terminate solo all’inizio degli anni Settanta, rappresentano un ottimo punto di partenza per illuminare il suo sempre costante impegno culturale, privato e pubblico, le battaglie di idee, le rivendicazioni laiche, il lavoro strenuo, certosino, per noi oggi quasi impossibile da concepire, che fu sia propriamente creativo, sia di servizio agli studi e al loro progresso, alla diffusione, conservazione e trasmissione della conoscenza alle generazioni future.
La bella mostra Boccaccio autore e copista organizzata a Firenze nel 2013, in occasione del settimo centenario della sua nascita, esponeva un numero di codici impressionante per quantità e per varietà di àmbiti di sapere e culture, nonché per abilità grafica – quale il bellissimo autografo illustrato delle Genealogie, appunto –, dovuti direttamente alla sua mano. Infatti per chi, come Boccaccio, ha versato per lunghi periodi in difficili condizioni economiche e di conseguenza non ha potuto permettersi di affidare a copisti di professione non solo le sue opere, ma nemmeno quelle di cui desiderava copia per la sua personale biblioteca (che costituì poi la parva libraria, la “piccola biblioteca” del convento agostiniano di Santo Spirito a Firenze), o che era necessario duplicare perché rarissime e da lui stesso riscoperte (quale ad esempio l’archetipo di Varrone trovato fra gli antichi e trascurati, mal conservati codici della biblioteca di Montecassino), in qualche caso per farne dono ad amici, come all’amatissimo Petrarca, impegno e lavoro culturale ha significato anche fredde veglie notturne dedicate alla faticosa ma capitale opera di trascrizione di manoscritti degli autori amati e studiati (attività che in quei medesimi decenni, operando per gli stessi ideali, riusciva invece a commissionare il ben più agiato amico e maestro Petrarca).
A lui, e solo a lui, dobbiamo la sopravvivenza di alcuni testi della nostra cultura letteraria, fondamentali per capire l’evoluzione e la ricezione di opere quali, per rimanere nell’ambito del volgare, il primo commento, un commento scientifico e medico, alla Canzone d’amore di Cavalcanti o la prima edizione del Canzoniere di Petrarca.
In altre parole, se Boccaccio non avesse materialmente trascritto di suo pugno, ad esempio, i quaderni che costituiscono il manoscritto Chigiano L.V. 176, e il codice da lui realizzato non si fosse conservato, non sarebbe sopravvissuto il commento del grande medico fiorentino Dino del Garbo, e così non sapremmo che la lirica poetica amorosa di Cavalcanti fu in prima istanza interpretata quale trattato scientifico: avremmo così perso un testo che offre uno spaccato decisivo sul pensiero dei poeti, dei medici-filosofi e degli intellettuali e lettori in genere del Due e Trecento. Non sapremmo, ancora, che il Canzoniere di Petrarca, negli anni Sessanta, quando Boccaccio qui lo trascrisse dandone la prima edizione, la forma cosiddetta Chigi del Canzoniere, presentava un’idea dell’amore e della poesia ben diversa da quella sancita nella redazione ultima, rispecchiata dalla diversa composizione e organizzazione dei frammenti lirici del libro.
Ma è sul fronte dantesco, e della diffusione e culto dell’opera di Dante, che Boccaccio operò sempre e instancabilmente, e anche da copista: trascrivendo più e più volte la Commedia e le Canzoni, testi che in questo medesimo codice eccezionale (ora separato dalla porzione recante la Commedia) sono uniti alla Vita Nuova a raccogliere tutto il Dante poeta volgare. Boccaccio lo accompagnò col suo Trattatello in laude di Dante che ne racconta la vita, riunendo così, in un sol libro, gli autori del suo proprio canone della letteratura (della poesia) italiana: Cavalcanti, Dante, Petrarca, e, ultimo, sé stesso che li onora:
«Questi fu quel Dante, che a’ nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi fu quel Dante, il quale primo doveva al ritorno delle muse, sbandite d’Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare […] è regolata; per costui la morta poesì meritamente si può dir suscitata».
Grazie a Dante, dunque, è risorta la poesia; anzi, è nata a nuova vita perché scritta nella nostra lingua materna, non già «rustica o volgare», ma lingua bellissima e ricchissima che Dante stesso ha impreziosito nelle forme e nei significati. La percezione netta, precoce, e che mai lo abbandonerà, della grandezza di Dante e dell’importanza decisiva della sua scelta di poetare nel “volgare di sì” guida l’opera di Boccaccio a favore del suo idolo, dalla prima redazione del Trattatello, sopra citato, all’impegno nel convincere il renitente Petrarca della grandezza del concittadino, alle molteplici trascrizioni dell’opera, alla sua ultima fatica: quelle Esposizioni sopra la Commedia che, per l’aggravarsi progressivo delle sue condizioni di salute, Boccaccio svolse solo fino al verso 17 del diciassettesimo canto dell’Inferno.
Si tratta della prima lettura pubblica del poema, la Lectura Dantis che tutt’oggi si prosegue in tante città italiane e nel mondo, inaugurata da Boccaccio per incarico del Comune fiorentino a vantaggio della popolazione, per la quale, a partire dal 23 ottobre 1373 e fino al gennaio 1374, nella chiesa di Santo Stefano di Badia, conservando per i posteri moltissime preziose informazioni, commentò da par suo, verso per verso, il testo della Commedia, in un’estrema attestazione di fedeltà.
Ma amore per Dante e culto per le sue opere hanno significato in Boccaccio, e fin dai suoi esordi come autore, anche un’intima adesione al suo magistero che si è concretizzata sia nelle forme dell’emulazione e dell’ispirazione comune, sia in un medesimo atteggiamento aperto e sperimentale nei confronti della lingua e delle forme letterarie, sia nella scelta coraggiosa e decisa del proprio pubblico.
Il poemetto giovanile scritto a Napoli e dedicato alla Caccia di Diana, per esempio, rappresenta da subito un chiaro episodio di fortuna dantesca: l’allegoria mitologica vi è narrata utilizzando il metro che Dante aveva inventato per la Commedia, la terzarima, una catena di endecasillabi perfettamente idonea alla narrazione in versi. Scrivere novelle, un genere che non era codificato e non era considerato di alcun valore letterario, e in più raccoglierle in una complessa struttura conferendo ad esse dignità e finalità non di solo intrattenimento; rivolgerle a chi il latino non conosce, alle donne, dichiaratamente, come nel Decameron, vuol dire operare una netta scelta di campo “popolare”: pur con tutte le virgolette che impone al termine “popolare” la sua coltissima scrittura in italiano, ricca di risonanze dotte e di tessere provenienti dalla cultura romanza e classica.
Una scrittura però che offre, consente (e pretende) diversi livelli di fruizione e lettura, da quella più immediata e godibile a quella più raffinata ed esigente, a seconda degli strumenti a disposizione di chi la esercita. E oltre a rivolgersi alle donne, esserne richiesto e stimolato, come nel lungo romanzo d’amore Filocolo, scritto su istanza di una donna, appunto; trarre da esse ispirazione, argomento e committenza; o addirittura scrivere un romanzo il cui io narrante ha la voce di una donna sedotta e abbandonata, L’elegia di madonna Fiammetta, quel che è stato definito il primo romanzo psicologico:
tutto questo rappresenta una novità straordinaria e un consapevole, voluto, difeso cambiamento di rotta per la storia della letteratura, della cultura e del costume.
La vastità dei suoi interessi, il suo bilinguismo, il progredire dei suoi studi ci sono testimoniati da un suo zibaldone che ha riempito di trascrizioni e appunti a partire dalla eccezionale disponibilità di opere presenti nella biblioteca della corte angioina a Napoli.
Ma torniamo alle tarde Genealogie, per eccellenza l’opera somma del versante erudito e della scrittura latina di Boccaccio, area sempre più frequentata col passare del tempo e con l’intensificarsi del rapporto e degli scambi intellettuali con Petrarca, il quale all’opposto professava un’idea di letteratura estremamente elitaria volta alla riproposizione della classicità aurea, dei valori e delle virtù legati alla romanità e che a parole disprezzava Dante e il suo rivolgersi al volgo, benché poi nei fatti la sua poesia d’amore in volgare, la parte ancor viva e ammaliante della sua produzione, tanto da esser sempre stata ed essere tuttavia oggetto d’imitazione da parte dei poeti, si sia alimentata ad ogni verso della parola dantesca.
Le Genealogie testimoniano di un ulteriore apporto, determinante per l’evoluzione della cultura italiana ed europea: la riscoperta della lingua greca, e con essa l’impegno personale e pubblico, politico, affinché, insieme a quei caratteri alfabetici da secoli non più intesi, tutto quell’antico mondo e quella letteratura di cui erano una chiave ancora misteriosa potessero venir decifrati e studiati e innestati nella giovane ma fiorente tradizione italiana.
È così a Boccaccio che si deve l’intrapresa delle prime traduzioni dal greco in latino, la costosa importazione di preziosi codici, l’audace scelta di Leonzio Pilato («uomo di aspetto orribile […] rozzo di costumi e non abbastanza civile […] vagabondo») quale insegnante e traduttore: per sé, per Petrarca e per la collettività tutta, vale a dire per l’Europa che anche grazie a questo si incamminava verso l’umanesimo in senso ampio e pieno; nonché la battaglia per l’istituzione di una cattedra di greco nello Studium fiorentino. Lo rivendica con autentico e meritato orgoglio, insieme con l’entusiasmo per l’occasione eccezionale, procuratasi con fatica e investimento economico, per lui tanto più gravoso, di essere il primo, il primo dei moderni, a sentir leggere e ad intendere il grande Omero, la cui poesia era da secoli assente dalla cultura occidentale.
Scrive ancora nelle Genealogie: «Non fui forse io […] che con grande impegno feci sì che Leonzio Pilato fosse accolto e stipendiato fra i professori dello Studio fiorentino? Sì, proprio io! E sempre io, e a mie spese, fui il primo a far rientrare in Etruria i libri di Omero e di altri autori greci, che senza opportunità di tornare se ne erano andati da tanti secoli: anzi, non in Etruria, ma in patria li ho ricondotti. E ancora io fui il primo degli italiani a sentir leggere l’Iliade da Leonzio, e per me solo. Io, ancora io, ho poi fatto in modo che i libri di Omero fossero letti pubblicamente».
Il primo a sentir leggere, a sentir risuonare e a comprendere, ma anche ad usare parole e versi greci nella sua opera: un primato che non sempre si sottolinea per l’autore del “disimpegnato” Decameron. Primato che subito Boccaccio intende trasformare in patrimonio condiviso, operando per mettere a disposizione della collettività le proprie conquiste culturali.
Ma in queste pagine altre battaglie ideologiche vengono combattute e vinte anche per la posterità: e innanzitutto quella contro chi pensa che solo le scritture dedicate alle cose sacre abbiano diritto alle cure formali e all’impegno allegorizzante dei loro autori e, di conseguenza, all’applicazione intellettuale dei loro interpreti e lettori.
Non è solo la teologia che giustifica l’uso di storie e parabole, sostiene Boccaccio; anche la poesia ha natura divina e non è vero che la poesia sia inutile, o che i poeti siano da meno dei teologi.
Ci appare ancora oggi come una presa di posizione necessaria, oggi che, anziché la teologia, solo la tecnologia e le scienze applicate, volte all’utile immediato, paiono avere diritto di cittadinanza nella scuola attuale e negli studi, e dare ad essi valore e senso. A cosa serve la poesia?
La poesia è un’arte utile, titola Boccaccio uno dei capitoli del quattordicesimo libro. I poeti giungono al vero e alla conoscenza attraverso le loro opere. E per mezzo delle “favole” che inventano, che creano arricchendone le loro opere, educano e insegnano, pervengono alla verità sull’uomo, e gliela sanno rivelare.
Poesia come teologia, anzi, come la stessa Sacra Scrittura. E “favole”, le favole, le storie, le novelle di cui a lungo, per tutta la vita Boccaccio ha nutrito i suoi testi, come mezzi, vie alla conoscenza. Quelle dei filosofi, certo; quelle provenienti dalla storia, a maggior ragione; le parabole usate da Cristo innanzi a tutte le altre: più o meno vicine al vero, verisimili o allegoriche. Ma persino quelle raccontate a veglia dalle nonne ai bambini per spaventarli o farli divertire, quelle che ancora chiamiamo favole, in ultima analisi non si allontanano delle loro più nobili parenti d’autore. E tutte hanno un senso, tutte sono utili, tutte di pari dignità e creatrici di comunità che attraverso queste narrazioni si formano ed educano.
Nel descrivere l’ambiente, le narratrici, i temi di quest’ultimo tipo di “fole”, ecco subito svettare sul trattatista lo straordinario narratore: «non c’è farneticante vecchietta accanto al focolare di casa, a veglia insieme agli altri nelle notti d’inverno, che inventi e reciti favole di orchi, o di fate, o di streghe, o di simili cose di cui quelle fole son piene, la quale, pur col suo debole ingegno, non conosca il senso riposto nei suoi racconti, un senso per niente da riderne: per il quale intenda incutere la paura nei piccoli, o divertire le ragazze, o irridere i vecchi, o almeno mostrare il potere della Fortuna».
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1 Le traduzioni dei testi latini di Boccaccio (da Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, cit.) sono di N. Tonelli
LE OPERE
IL FILOCOLO
Una vocazione netta, precoce e durevole, allo scrivere d’amore, al fare dell’amore, della sua natura, dei suoi casi, della sua forza indomabile, ideale, reale e sensuale, il perno attorno a cui muove il mondo e la vita dell’uomo, è dominante nelle opere volgari di Boccaccio fin dal suo esordio.1
E le storie d’amore dei suoi personaggi, siano essi i protagonisti dei romanzi, come del Filocolo o della Fiammetta o, molto più tardi, del Corbaccio, o dei poemi e poemetti, come dal Filostrato e dal Teseida in poi, o, infine, che si tratti di tutta la fantastica varia umanità che si ama, si insegue, si allontana, si tradisce, si diverte a scapito di chi ama nelle cento e una novelle del Decameron, le storie che racconta non sono mai disgiunte da un collegamento alla propria personale esperienza dell’amore e dal richiamo esplicito a questa.
Anch’egli, come tutti i suoi personaggi, si rappresenta come soggetto, e di buon grado soggetto, al potere d’Amore, e dalla sua vicenda amorosa fa in modo che prendano costantemente avvio le sue invenzioni romanzesche. L’eros così non è solo una fonte di ispirazione o la materia prescelta, ma, nella fictio autobiografica e narrativa, viene evocata una precisa occ...
Indice dei contenuti
- Collana
- Frontespizio
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- Indice
- Un manuale di sopravvivenza
- PANORAMA
- FOCUS a cura di Natascia Tonelli
- APPROFONDIMENTI
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