Nahri chiuse gli occhi, sollevò il viso verso il sole e si godette il calore sulla pelle. Inspirò, assaporando l’odore terroso delle montagne lontane e la fresca brezza del lago.
«Sono in ritardo» si lamentò Muntadhir. «Sono sempre in ritardo. Credo che li renda felici vederci aspettare al sole.»
Zaynab sbuffò. «Dhiru, tu non sei mai arrivato puntuale in vita tua, neanche una volta. Sicuro di voler tirare fuori questo argomento?»
Nahri ignorò il loro battibecco, respirò di nuovo a fondo l’aria frizzante e si godette quella tranquillità. Era raro che le fosse concessa una tale libertà e intendeva approfittarne. Aveva imparato a proprie spese che non aveva altra scelta.
Aveva tentato di sgattaiolare fuori dal palazzo per la prima volta poco dopo la notte sulla barca. Era alla disperata ricerca di una distrazione, sentiva il bisogno di vagare per le parti della città che non conosceva ancora, luoghi in cui il ricordo di Dara non l’avrebbe perseguitata.
Per tutta risposta Ghassan le aveva fatto portare davanti la sua domestica Dunoor. Come punizione per non aver segnalato l’assenza della Banu Nahida, aveva stregato la lingua della ragazza, che non avrebbe mai più parlato.
La seconda volta, Nahri era stata spinta dal desiderio di sfidarlo. Lei e Muntadhir si sarebbero sposati presto. Era la Banu Nahida. Chi credeva di essere Ghassan per rinchiuderla a palazzo nella città dei suoi antenati? Era stata più attenta, si era assicurata che i suoi compagni avessero buoni alibi e si era servita del palazzo stesso perché la nascondesse tra le ombre e la guidasse lungo i corridoi meno utilizzati.
Ma Ghassan lo aveva scoperto. Aveva fatto trascinare davanti a sé la guardia del cancello che si era addormentata e che lei aveva superato in punta di piedi, e l’uomo era stato flagellato di fronte a Nahri fino a quando il sangue non gli aveva ricoperto la schiena.
La terza volta, Nahri non aveva neanche agito di soppiatto. Si era sposata da poco con Muntadhir e aveva semplicemente deciso di tornare a piedi al palazzo dal Grande Tempio in una giornata di sole, invece di prendere la sua lettiga con le guardie. Non aveva neppure pensato che a Ghassan – ormai suo suocero – sarebbe potuto importare. Lungo la strada, si era fermata in un piccolo caffè nel quartiere daeva e aveva fatto piacevoli chiacchiere con i proprietari, sorpresi e deliziati.
Il giorno dopo Ghassan aveva fatto portare la coppia a palazzo. Quella volta non aveva dovuto maltrattare nessuno. Nahri, vedendo i loro visi spaventati, si era inginocchiata e aveva giurato che non sarebbe mai più andata da nessuna parte senza autorizzazione.
Il che significava che ormai non rifiutava più la possibilità di sfuggire alle mura del palazzo. A parte i battibecchi tra l’emiro e la principessa e il grido di un falco, il lago era molto silenzioso e l’aria la avvolgeva in una pace pesante e benedetta.
Il suo sollievo non passò inosservato.
«Sembra che tua moglie sia appena stata rilasciata dopo un secolo di prigionia» mormorò Zaynab a pochi passi di distanza. Mantenne la voce bassa, ma Nahri era brava a cogliere i sussurri. «Inizio anch’io a stare male per lei, e una delle viti del suo giardino mi ha strappato di mano la tazza l’ultima volta che abbiamo preso il tè.»
Muntadhir zittì la sorella. «Sono certo che non intendeva farlo. Può succedere, quando c’è lei…»
«Ho sentito dire che una delle statue degli shēdu ha morso un soldato che schiaffeggiava il suo assistente.»
«Forse non avrebbe dovuto schiaffeggiare il suo assistente.» Il sussurro di Muntadhir si fece più acuto. «Ma basta con questi pettegolezzi. Non voglio che abba senta cose del genere.»
Nahri sorrise sotto il velo; era una piacevole sorpresa che lui la difendesse. Nonostante fossero sposati da quasi cinque anni, era raro che Muntadhir prendesse le sue parti contro la famiglia.
Aprì gli occhi e ammirò il panorama. Era una bella giornata, una delle poche in cui neanche una nuvola rovinava l’azzurro luminoso e insondabile del cielo di Daevabad. Tutti e tre stavano aspettando davanti al vecchio porto della città. Le banchine erano ancora utilizzabili, ma tutto il resto era in rovina e, a giudicare dall’aspetto, lo era da secoli. Attraverso le pietre incrinate della pavimentazione crescevano le erbacce e le colonne decorative di granito giacevano a pezzi. L’unico indizio dell’antica grandezza del porto era alle sue spalle, nelle scintillanti facce in ottone dei suoi antenati che ricoprivano le possenti mura della città.
Più avanti c’era il lago; sulla sponda opposta, le montagne di un verde nebbioso scendevano fino a una spiaggia stretta e sassosa. Le acque torbide, immobili, erano state stregate molto tempo prima dai marid durante una faida ormai dimenticata con il Consiglio Nahid. Era una maledizione a cui Nahri cercava di non pensare. Né lasciò che il suo sguardo si spostasse verso sud, dove le alte scogliere sotto il palazzo incontravano l’acqua scura. Non voleva pensare a quello che era successo in quel tratto di lago cinque anni prima.
L’aria luccicò e scintillò, attirando l’attenzione della Banu Nahida verso il centro del lago.
Erano arrivati gli ayaanle.
La nave emersa dal velo sembrava uscita da una fiaba, e scivolava tra la foschia con una grazia che smentiva le sue dimensioni. Nahri era cresciuta lungo il Nilo ed era abituata alle barche, alla moltitudine di feluche eleganti, alle canoe da pesca e alle imbarcazioni cariche di merci che scivolavano sull’ampio fiume in un flusso incessante. Ma quella nave era diversa. Pareva abbastanza grande da trasportare centinaia di persone; mentre galleggiava leggera sul lago, il suo teak scuro brillava sotto la luce del sole. Dagli alberi sventolavano bandiere verde-blu decorate con le immagini di piramidi dorate e guarnite di borchie e di mucchietti di sale argentati. Le numerose vele color ambra – e Nahri ne contava almeno una dozzina – torreggiavano sui ponti luccicanti. Segmentate e munite di stecche, sembravano più ali che parti di un’imbarcazione, e tremavano e ondeggiavano nel vento come esseri viventi.
Stupita, Nahri si avvicinò ai fratelli Qahtani. «Come hanno potuto far arrivare fin qui una nave?» L’unica terra oltre la soglia magica che circondava il vasto lago e le montagne nebbiose di Daevabad era composta da immensi tratti di deserto roccioso.
«Perché non è una nave qualsiasi.» Zaynab sorrise. «È una nave da sabbia. Le hanno inventate i sahrayn. Stanno attenti a mantenere segreta la magia che impiegano, ma un abile capitano può volare in tutto il mondo con una di quelle.» Sospirò, con un’espressione ammirata e afflitta. «I sahrayn fanno pagare agli ayaanle una fortuna per usarle, ma sono davvero eleganti.»
Muntadhir non sembrava impressionato dalla bella nave. «È interessante che gli ayaanle possano permettersi una cosa del genere, visto che da Ta Ntry ci versano regolarmente meno tasse del dovuto.»
Lo sguardo di Nahri si spostò sul viso del marito. Sebbene lui non gliene avesse mai parlato in modo esplicito, i problemi economici di Daevabad erano evidenti a tutti, in particolare alla Banu Nahida, che guariva le ferite riportate dai soldati durante l’addestramento, ne udiva le lamentele sulle razioni ridotte e annullava le stregonerie che i segretari del Tesoro – sempre più esausti – avevano iniziato a lanciarsi l’un l’altro. Per fortuna la recessione non aveva ancora danneggiato in maniera grave i suoi daeva, soprattutto perché non commerciavano più con le altre tribù da quando Ghassan, dopo la morte di Dara, aveva tacitamente permesso che le bancarelle daeva nel Gran Bazar venissero distrutte e i mercanti fossero molestati. Perché correre il rischio di fare affari con i jinn, se nessuno li proteggeva?
La nave ayaanle si avvicinò e le sue vele si aprirono a ventaglio, mentre i marinai – con vesti di lino a righe colorate e grossi ornamenti d’oro – sfrecciavano qua e là. Sul ponte superiore c’era un essere simile a una chimera, con un corpo felino coperto da squame di rubini, corna che brillavano come diamanti e una bardatura dorata; sferzava il legno con una coda da serpente.
Appena la nave ebbe attraccato, alcuni passeggeri si diressero verso il gruppo reale. Tra loro c’era un uomo con voluminose vesti color verde-blu e un turbante argentato che gli avvolgeva la testa e il collo.
«Emiro Muntadhir.» Sorrise e fece un profondo inchino. «Che la pace sia con te.»
«E con te la pace» rispose educatamente Muntadhir. «Tirati su.»
L’ayaanle raddrizzò la schiena e rivolse a Zaynab un sorriso che sembrava molto più sincero. «Piccola principessa, come sei cresciuta!» Rise. «È un grande onore per questo vecchio cambiavalute che tu sia venuta di persona ad accogliermi.»
«L’onore è mio» gli assicurò Zaynab con una grazia che Nahri non avrebbe mai potuto emulare. «Spero che il viaggio sia andato bene.»
«Sì, che Dio sia lodato.» L’uomo si girò verso Nahri e i suoi occhi dorati si illuminarono di sorpresa. «Questa è la ragazza Nahid?» Sbatté le palpebre e lei notò che l’ayaanle aveva fatto un passo indietro.
«Questa è mia moglie» lo corresse Muntadhir, con voce notevolmente più fredda.
Nahri incrociò lo sguardo dell’uomo e raddrizzò la schiena, stringendosi addosso il chador. «Sono la Banu Nahida» disse attraverso il velo. «Mi dicono che tu sei Abul Dawanik.»
Lui si inchinò. «Esatto.» Non distoglieva lo sguardo da lei, e sentirsi così esaminata le faceva venire la pelle d’oca. L’uomo scosse la testa. «Stupefacente. Non avrei mai immaginato di incontrare una vera Nahid.»
Nahri strinse i denti. «Ogni tanto ci viene permesso di uscire e terrorizzare la popolazione.»
Muntadhir si schiarì la gola. «Ho fatto spazio per i tuoi uomini e il tuo carico al caravanserraglio reale. Sarei lieto di accompagnarvi.»
Abul Dawanik sospirò. «Ahimè, c’è poco carico. La mia gente avrebbe avuto bisogno di più tempo per preparare la carovana delle tasse.»
L’emiro non modificò l’espressione educata, ma Nahri sentì che il suo battito accelerava. «Non è quello che avevamo concordato.» Il tono di avvertimento era così simile a quello di Ghassan che le formicolò la pelle. «Sai quanto è vicina Navasatem, vero? È un po’ difficile organizzare una celebrazione che si svolge una volta ogni secolo, se i pagamenti delle tasse sono costantemente in ritardo.»
Abul Dawanik gli lanciò uno sguardo ferito. «Dobbiamo parlare subito di denaro, emiro? L’ospitalità geziri a cui sono abituato prevede che si chiacchieri cordialmente di sciocchezze per almeno altri dieci minuti.»
La risposta di Muntadhir fu diretta. «Forse preferiresti la compagnia di mio padre alla mia.»
Abul Dawanik non sembrava intimorito; anzi, Nahri gli vide un lampo di astuzia nello sguardo prima che replicasse: «Non è necessario minacciarmi, Altezza. La carovana è solo qualche settimana dietro di me». Gli scintillarono gli occhi. «Senza dubbio apprezzerai ciò che ti porterà.»
Da dietro le mura della città risuonò l’adhān, che chiamava i fedeli alla preghiera di mezzogiorno. Si sollevò e ricadde in ondate lontane mentre altri muezzin la riprendevano, e Nahri combatté una familiare fitta di nostalgia. L’adhān la faceva sempre pensare al Cairo.
«Dhiru, di certo questo può attendere» disse Zaynab, cercando di alleggerire la tensione tra i due uomini. «Abul Dawanik è nostro ospite. Ha fatto un lungo viaggio. Perché voi due non pregate insieme e poi non visitate il caravanserraglio? Nahri può tornare a palazzo con me.»
Muntadhir non sembrava soddisfatto, ma non protestò. «Ti dispiace?» chiese cortesemente a Nahri.
“Ho scelta?” pensò lei. I portatori di Zaynab stavano già arrivando con la lettiga, la graziosa gabbia che avrebbe ricondotto Nahri nella sua prigione dorata. «Certo che no» mormorò, allontanandosi dal lago per seguire sua cognata.
Non parlarono molto durante il tragitto di ritorno. Zaynab pareva assorta nei suoi pensieri e Nahri era felice di riposare gli occhi prima di tornare all’affaccendata infermeria.
Ma la lettiga si fermò troppo presto. Nahri era mezza addormentata: sussultò, si strofinò gli occhi e, quando vide che Zaynab si toglieva rapidamente alcuni gioielli, corrugò la fronte. La cognata impilò i suoi tesori sul cuscino accanto a sé e poi, da sotto il sedile coperto di broccato, tirò fuori due semplici abaya di cotone e se ne infilò una sopra l’abito di seta.
«È una rapina?» chiese Nahri, sperando quasi che fosse vero. Una rapina avrebbe significato rimandare il ritorno al palazzo e la presenza costante e vigile di Ghassan.
Zaynab si avvolse un fazzoletto scuro sui capelli. «Ovviamente no. Vado a fare una passeggiata.»
«Una passeggiata?»
«Non sei l’unica che a volte vorrebbe scappare, e colgo l’occasione quando si presenta.» La principessa lanciò la seconda abaya a Nahri. «Svelta, mettiti questa. E tieni il viso velato.»
La Banu Nahida la fissò, sorpresa. «Vuoi che venga anch’io?»
Zaynab la guardò. «Ti conosco da cinque anni. Non ti lasce...