Il ciclo del Principe Corum
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Il ciclo del Principe Corum

  1. 780 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il ciclo del Principe Corum

Informazioni su questo libro

Il principe Corum appartiene alla razza aliena dei Vadhag, esseri longevi privi di emozioni, dediti allo studio e alla contemplazione. I Vadhag stanno per essere sopraffatti dai Madben, gli Uomini, che invece vivono schiavi delle passioni, e Corum vaga per il regno in cerca dei familiari superstiti e di una moglie con cui perpetuare la stirpe. Ma quando di accorge di essere l'ultimo Vadhag, le passioni a lungo sopite esplodono e un solo sentimento lo tiene in vita: il desiderio di vendetta.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
Print ISBN
9788804735632
eBook ISBN
9788835708117

Trilogia delle Spade

IL CAVALIERE DELLE SPADE

Introduzione

In quei giorni v’erano oceani di luce e città veleggianti nei cieli e selvagge belve di bronzo solcavano l’aria. V’erano mandrie muglianti di bestie cremisi alte più delle torri dei castelli. V’erano stridule creature d’un verde bluastro che infestavano fiumi tenebrosi. Era un tempo di dei che si manifestavano nel nostro mondo in tutte le loro forme; un tempo di giganti che camminavano sulle acque; di spiritelli incuranti e di demoni deformi che un pensiero sconsiderato poteva bastare a evocare ma che non si sarebbe stati più in grado di esorcizzare se non a prezzo di terribili sacrifici; tempo d’incantesimi, di spettri, di fenomeni instabili, di eventi impossibili, di folli paradossi, di sogni divenuti realtà, di sogni ormai svaniti, di incubi che prendevano corpo.
Era un tempo di splendori e un tempo di oscurità. Il tempo dei Signori della Spada. Il tempo in cui i Vadhagh e i Nhadragh, nemici atavici, stavano estinguendosi. Il tempo in cui iniziava a palesarsi l’Uomo, lo schiavo della paura, inconsapevole che gran parte del terrore che provava non era che il risultato del fatto che egli stesso era emerso nell’esistenza. Ed era soltanto una delle tante ironie connesse all’Uomo, il quale in quei giorni chiamava la sua stirpe col nome di Mabden.
I Mabden vivevano brevi vite e si moltiplicavano prodigiosamente. Nell’arco di qualche centinaio d’anni, essi giunsero a impadronirsi dell’intero continente occidentale che ne aveva visto l’evoluzione. Solo il timore superstizioso impedì loro per un secolo o due di inviare navi in gran numero verso le terre dei Vadhagh e dei Nhadragh, ma a poco a poco, non incontrando alcuna resistenza, presero coraggio. Incominciarono a provare invidia nei confronti delle stirpi più antiche; incominciarono a provare odio in cuor loro.
I Vadhagh e i Nhadragh non ne erano consapevoli. Per un milione di anni e più avevano abitato il pianeta che ora, finalmente, pareva tranquillo. Sapevano dell’esistenza dei Mabden, ma non li consideravano molto diversi dagli altri animali. Per quanto continuassero a indulgere alla loro tradizionale, mutua ostilità, tanto i Vadhagh quanto i Nhadragh seguitavano a dedicare le loro lunghe ore al pensiero astratto, alla creazione di opere d’arte e ad altre occupazioni consimili.
Razionali, raffinate, in pace con se stesse, queste stirpi più antiche erano incapaci di credere ai mutamenti che erano sopravvenuti. Così, come quasi sempre accade, ne ignorarono le avvisaglie.
Non vigeva alcuna consuetudine allo scambio di informazioni tra i due antichi nemici, benché avessero ormai combattuto la loro ultima guerra molti secoli prima.
I Vadhagh vivevano in piccoli gruppi familiari, abitando romiti castelli sparsi sul continente da essi chiamato Bro-an-Vadhagh. Le loro famiglie non comunicavano tra di loro che assai di rado, poiché da molto tempo i Vadhagh non sentivano più il desiderio di viaggiare. I Nhadragh vivevano invece nelle loro città, sulle isole dei mari che cingevano il Bro-an-Vadhagh a nordovest. Anch’essi mantenevano pochi contatti fra loro, perfino con i parenti più stretti.
Entrambe le stirpi si ritenevano invulnerabili. Entrambe si sbagliavano.
Poiché l’Uomo, l’ultimo venuto, stava cominciando a proliferare e a diffondersi come una pestilenza sul mondo. E la pestilenza sterminava i rappresentanti delle Antiche Stirpi ovunque si imbattesse in essi. E non era soltanto la morte che l’Uomo recava con sé, ma anche il terrore. Deliberatamente, egli mutava il volto del vecchio mondo in null’altro che un cumulo di ruderi e di ossa. Stupidamente, egli provocava lo sfacelo psichico e soprannaturale di una magnificenza che perfino i Grandi Dei Antichi stentavano a spiegarsi.
E i Grandi Dei Antichi presero a conoscere essi stessi la paura.
E l’Uomo, schiavo della paura, arrogante nella sua ignoranza, continuò la sua goffa avanzata. Era cieco dinanzi alle immani rovine causate dalle sue ambizioni apparentemente insignificanti. Inoltre, l’Uomo aveva sensi ottusi, non era affatto cosciente delle molteplici dimensioni che colmavano l’universo, in cui ogni piano ne interseca parecchi altri. Non così i Vadhagh e i Nhadragh, i quali erano già stati al corrente di ciò che significava sapersi muovere tra le dimensioni che essi definivano i Cinque Piani. Avevano intravisto e compreso la natura dei molti altri piani di là dei Cinque attraverso i quali si muoveva la Terra.
Parve perciò una terribile ingiustizia il fatto che quelle savie stirpi dovessero perire per mano di creature che erano tuttavia poco più che animali. Era come se degli avvoltoi si fossero avventati sulle membra paralizzate di un giovane poeta e seguitassero a infierire su di lui, in grado soltanto di fissarli con occhi allucinati mentre i volatili continuavano a defraudarlo a ogni colpo di rostro di una esistenza squisita che essi non avrebbero mai potuto gustare, inconsapevoli com’erano perfino della loro ferocia.
«Se essi avessero gustato di quel che gli sottraevano, se almeno avessero saputo che cosa stavano distruggendo,» dice il vecchio Vadhagh dell’apologo intitolato Infine pur le nubi hanno un senso «allora mi darei pace.»
Era ingiusto.
Creando l’Uomo, l’universo aveva tradito le Antiche Stirpi.
Si trattava tuttavia di una perenne, ordinaria ingiustizia. Un essere senziente può anche percepire e amare l’universo intorno a sé, ma l’universo non può percepire e amare l’essere senziente. L’universo non fa alcuna distinzione tra la moltitudine di creature e di elementi che abbraccia. Per esso, ogni suo costituente è uguale all’altro. Nessuno di essi è privilegiato rispetto agli altri. L’universo, fornito di nient’altro che dei materiali e dell’energia della creazione, continua a creare: ora questo, ora quello. Non può controllare ciò che crea e non può neppure, a quanto pare, venir controllato dalle sue creature (benché qualcuno possa anche ingannarsi in merito pensando altrimenti). Quanti maledicono ciò che l’universo opera, maledicono ciò che non ha orecchie per intendere. Quanti offendono ciò che esso opera, offendono ciò che non può patire offesa. Quanti scuotono i pugni minacciosi, scuotono i loro pugni all’indirizzo di stelle cieche.
Ma questo non significa che non ci sia qualcuno che possa tentare di dar battaglia e addirittura di distruggere ciò che è indistruttibile.
Ci saranno sempre creature del genere, creature dotate talora di grande saggezza, incapaci di tollerare l’idea di un universo insensibile e incurante.
Il principe Corum Jhaelen Irsei fu una di queste creature. Forse l’ultimo rappresentante della stirpe dei Vadhagh, era talora chiamato anche il Principe dal Mantello Scarlatto.
Egli è il protagonista della cronaca che qui si narra.

LIBRO I

In cui il principe Corum
apprende una lezione e perde un arto
1

Al castello di Erorn

Al castello di Erorn viveva la famiglia del principe Vadhagh, Khlonskey. Avevano occupato il castello per molti secoli e nutrivano un amore viscerale per il triste mare che lambiva le mura settentrionali di Erorn e la bella foresta che saliva fitta lungo i suoi fianchi meridionali.
Il castello di Erorn era così antico che sembrava interamente fuso nella roccia del picco immenso che sovrastava il mare. All’esterno, era tutto uno splendore di torrette diroccate dal tempo e di massi levigati dal sale. All’interno, c’erano delle pareti mobili che cambiavano struttura in accordo con gli elementi e mutavano di colore quando il vento cambiava direzione. C’erano sale piene di combinazioni cristalline e fontane che zampillavano in getti ricercati e complicati, raffiguranti i membri della famiglia, taluni viventi, altri morti. E gallerie piene di quadri dipinti sul velluto, di marmi e di vetrate, opere degli antenati artisti del principe Khlonskey. E biblioteche zeppe di manoscritti redatti da membri delle stirpi Vadhagh e Nhadragh. Sempre nel castello, c’erano inoltre sale adorne di statue, e uccelliere, serragli, osservatori, laboratori, nidi per bambini, giardini, camere di meditazione, gabinetti di medicina, palestre, collezioni di arnesi da guerra, cucine, planetari, musei, luoghi di preghiera, e così pure stanze lasciate libere per compiti meno specifici, oppure sale che costituivano gli appartamenti di coloro che vivevano nel castello.
Nel castello, benché una volta ve ne fossero vissute cinquecento, in quell’epoca vivevano dodici persone. Il principe Khlonskey, molto vecchio, sua moglie Colatalarna, apparentemente molto più giovane del marito, Ilastru e Pholhinra, le sue figlie gemelle, il principe Rhanan, suo fratello, Sertreda, suo nipote, Corum, suo figlio. I rimanenti cinque erano fittavoli, lontani cugini del principe. Tutti possedevano le fattezze caratteristiche dei Vadhagh: crani stretti e allungati, orecchie quasi senza lobi, accostate lungo il capo, belle chiome che un soffio avrebbe fatto gonfiare, come nubi leggere, sulla loro faccia, grandi occhi a mandorla con pupille gialle contornate di porpora, bocche larghe con labbra ben pronunciate, e la pelle di uno strano color rosa a macchie dorate. I loro corpi erano alti, esili e ben proporzionati; si muovevano con una grazia affettata che faceva assomigliare il loro portamento umano al dinoccolarsi di una scimmia sciancata.
Dal momento che si occupava principalmente di remoti passatempi intellettuali, la famiglia del principe Khlonskey da duecento anni non aveva più avuto alcun contatto con altre stirpi Vadhagh e, da trecento, non aveva più visto un Nhadragh. Per oltre un secolo, nessuna notizia del mondo esterno era arrivata fino a loro. Soltanto una volta avevano visto un Mabden – una femmina – che era stata messa in un serraglio e ben curata, ma era vissuta poco più di cinquant’anni e quando era morta non era più stata rimpiazzata. Da allora, naturalmente, i Mabden si erano moltiplicati e ora abitavano, così sembrava, larghe zone del Bro-an-Vadhagh. C’erano pure voci secondo cui qualche castello Vadhagh era stato invaso dai Mabden, che ne avevano sopraffatto gli abitanti e forse anche distrutto i focolari. Il principe Khlonskey trovava tutto ciò difficile da credersi. D’altra parte, il parlarne rivestiva ben scarso interesse per lui o per la sua famiglia. C’erano tante altre cose da discutere, tante fonti più complesse di ragionamento, centinaia di argomenti più dilettevoli.
La pelle del principe Khlonskey era bianca come il latte e così sottile che tutte le vene e i muscoli erano chiaramente visibili in trasparenza. Era vissuto per oltre mille anni, e solo recentemente l’età cominciava a indebolirlo. Ma quando la debolezza fosse divenuta insopportabile, quando i suoi occhi avessero cominciato a offuscarsi, avrebbe posto fine alla sua vita alla maniera dei Vadhagh: sarebbe entrato nella Camera dei Vapori, mettendosi a giacere su cuscini e coperte di seta, a inalare i diversi gas dal dolce odore, fino alla morte. I suoi capelli, con l’età, erano diventati castano dorato e il colore dei suoi occhi si era addolcito in una specie di rosa violaceo, con le pupille di arancio intenso. I suoi abiti erano troppo larghi per il suo corpo, ma nonostante si appoggiasse a un bastone di platino intrecciato, foggiato sul metallo incandescente, il suo portamento era ancora altero e la schiena non ancora ricurva.
Un giorno andò a cercare suo figlio, il principe Corum, in una camera dove si suonava musica generata da tubi cavi, ruote che vibravano e pietre rotan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. Armonia di Occhio, Mano e Spada. di Massimo Scorsone
  4. IL CICLO DEL PRINCIPE CORUM
  5. Trilogia delle Spade
  6. Cronache di Corum
  7. Copyright