«Il vincitore! Nell’angolo blu!» L’annunciatore in smoking urlò nel microfono, e la sua voce potente riecheggiò nell’arena. «Per kappao, a due minuti e venti secondi del terzo round! Il pugile non professionista che rappresenterà gli Stati Uniti! Nei pesi medio-massimi! Alle Olimpiadi di Barcellona del 1992, in Spagna! Henry “Puddin” Pye! Pye!»
Joseph Mary «Mac» McGee veleggiò attraverso il ring fino al suo pugile. Mac era l’allenatore di Puddin, e baciò il ragazzo su entrambe le guance. Gli tolse il casco e lo accompagnò sotto le luci. Dopo la vittoria per kappao Puddin era tutto sorrisi e vene pompanti. E mentre alzava i guantoni in segno di vittoria, l’entusiasmo della folla si fece sentire ancora più forte. Poi Puddin andò verso il suo avversario barcollante, gli strinse la mano e gli disse: «Bel match, fratello!» dopo di che tornò sui suoi passi e abbracciò Mac. Il loro primo obbiettivo, arrivare alle Olimpiadi, l’avevano raggiunto. Puddin avrebbe compiuto diciotto anni nel mese di maggio. Era alto quasi uno e novanta e sarebbe cresciuto ancora. Per rientrare nel limite degli ottantasette chili al momento del peso era partito dai suoi novantadue. Mac era stupefatto da quel ragazzo. Immaginava che nel giro di due o tre anni sarebbe stato un pugile perfetto.
La madre di Puddin, Willa, era tra il pubblico con i due figli minori, Felcie e Velcie, che avevano gridato fino a rimanere senza voce. Gli occhi di Willa erano pieni di lacrime. Ringraziò il Signore innanzitutto perché il suo bambino non si era fatto male, e poi perché aveva vinto, e poi si voltò verso gli spettatori che le stavano intorno. La sua voce si levò sul frastuono della folla.
«Quello è il mio bambino! Quello è il mio angioletto! Quello è il mio Puddin!»
Il padre di Puddin, un postino, era sottoterra. L’avevano ammazzato mentre consegnava la posta a South Central, un giorno che era finito per caso in mezzo a una sparatoria tra membri dei Crips e dei Bloods. Puddin si considerava l’uomo di famiglia, e avvertiva questa responsabilità nei confronti della madre e dei fratelli. Il suo prossimo obiettivo era la medaglia d’oro. Aveva già battuto i migliori, inclusi i cubani, nel corso di diverse competizioni internazionali, sia in Europa sia in America Latina, e veniva dato come sicuro vincitore a Barcellona.
Ma nella nobile arte c’era un mucchio di cose da imparare, e fin dall’inizio Mac aveva insegnato al ragazzo a pensare sul ring e a combattere con eleganza. Il combattente elegante faceva l’uomo, e combattere con eleganza significava muoversi con eleganza, e sferrare pugni con eleganza, ed evitarli con eleganza; significava essere capaci di attaccare come di difendersi, e farlo meglio che l’avversario; e significava muoversi nell’atto di colpire, in modo da disorientare l’avversario e schivare o attutire i suoi colpi. Così la prima cosa che Mac aveva insegnato a Puddin era che l’equilibrio significava potere; che il potere significava rapidità; e che la rapidità significava autorità, perché dietro alla rapidità c’erano l’equilibrio e il potere, non i muscoli.
Ma vincere come non professionista significava anche battere i giudici, che talvolta propendevano per un verdetto casalingo se il pugile locale era nelle grazie delle autorità non professioniste del posto. Era ignobile, ma era vero, e troppe volte ragazzi più che promettenti se la prendevano e si ritiravano a causa di ciò. Succedeva anche a livello internazionale. I giudici corrotti delle Olimpiadi coreane erano l’esempio classico.
A Puddin erano stati rubati l’ottavo, il decimo e l’undicesimo match, quando i giudici gli avevano sottratto vittorie che gli appartenevano chiaramente. Un kappao mette fine a qualsiasi discussione, ma l’uso del casco protettivo e dei guantoni grossi fa sì che i kappao siano più rari tra i dilettanti che tra i professionisti, per i quali comunque sconfiggere a quel modo l’avversario non è facile. Le regole che prevedono il casco protettivo e i guantoni grossi erano state introdotte per proteggere i pugili dilettanti, e Mac era d’accordo, ma, come accadeva con tutte le regole, non tutti le rispettavano. Mac era tentato dalla possibilità di allenare Puddin come un vero professionista, perché avrebbe mandato a nanna un mucchio di avversari. Ma uno stile da professionista sarebbe andato contro le regole per dilettanti a cui doveva attenersi Puddin, secondo cui era il numero dei colpi andati a segno a contare, e non i danni da essi provocati – a meno che non ci si trovasse di fronte a un kappao.
Un kappao tuttavia tra i dilettanti contava solo per un pugno, mentre tra i professionisti equivaleva a due punti, ovvero alla differenza che passava tra vincere e perdere. Tra i dilettanti, di solito i giudici penalizzavano i ragazzi che combattevano come professionisti, obbiettando che non sferravano abbastanza pugni. Ma anche uno stile da perfetto non professionista poteva causare qualche problema. Certi ottimi pugili dilettanti non avevano mai fatto carriera tra i professionisti perché non erano riusciti a cambiare stile.
Così Mac allenava Puddin in entrambe le direzioni. Il ragazzo, durante i primi due round, adoperava principalmente il suo fantastico jab e il diretto destro, mirando soprattutto alla testa, tipico comportamento da non professionista. Se Mac era sicuro che Puddin aveva vinto i primi due round ai punti, allora gli faceva assumere uno stile da professionista, cosa che implicava colpi alla figura oltre che alla testa, e ganci e uppercut, nonché diretti alla mandibola, in cerca del kappao.
«Ricorda, se vuoi colpirlo al corpo, punta prima alla testa, così da fargli alzare le mani, giusto? Se vuoi colpirlo alla testa, prima colpiscilo al corpo, in modo da fargli abbassare le mani. Fregalo. La boxe è uno sport fatto di bugie.»
«La boxe è uno sport fatto di bugie.»
Puddin mandava a nanna i suoi avversari con colpi alla mandibola, ma anche con colpi alla figura, alle costole, al plesso solare e al fegato. E c’erano altri colpi autorizzati altrettanto terribili. Arrivando dagli juniores, Puddin aveva perso meritatamente alcuni incontri contro pugili più esperti, ma ne aveva vinti altri per kappao, riuscendo così a battere anche i giudici corrotti. E mirare alla figura per lui voleva dire prepararsi al salto tra i professionisti.
I colpi ai reni e quelli sotto la cintura erano illegali sia tra i professionisti sia tra i dilettanti. Per Mac il miglior colpo proibito della boxe era quello al nervo sciatico, nel culo, perché gli arbitri non intervenivano quasi mai, e la maggior parte della gente non sapeva che per mettere fuori combattimento un pugile basta tirargli qualche pugno nel culo. Mac aveva insegnato a Puddin tutti i trucchi del mestiere perché doveva essere in grado di difendersi nel caso l’avversario cominciasse a adoperarne qualcuno, cosa che prima o poi sarebbe successa di sicuro. Ma non voleva che Puddin li adoperasse per primo.
«Non cominciare mai con le stronzate. Ma se capita, fai quello che devi per farti rispettare.»
«Fai quello che devi per farti rispettare.» Puddin ripeteva ad alta voce le cose importanti, e non le dimenticava mai.
Il doppio stile del ragazzo non piaceva alle giurie, ma una volta che i primi due round erano dalla sua e Puddin aveva rispettato le regole, non c’era nulla che i giudici potessero fare per cambiare le sorti dell’incontro. E mentre Puddin Pye si faceva un nome tra i dilettanti a livello internazionale, i giudici cominciarono ad ammirare la sua boxe malgrado loro stessi, e a rimanere seduti a guardare quant’era elegante come nessun altro.
Guardarlo combattere era come guardare una partita di scacchi con i pugni. Instillava paura negli avversari come il giovane Mike Tyson, salvo che Puddin lo faceva con classe, al modo di Sugar Ray Robinson. Quando Puddin poteva lasciarsi andare nel terzo round, i suoi avversari di solito andavano giù nel giro di un paio di minuti – non sempre a causa di un colpo da kappao sferrato loro sul volto, ma anche per via della paura di un kappao, uno di quelli che li avrebbe lasciati doloranti per giorni.
Con la medaglia d’oro a Barcellona, Puddin avrebbe avuto dietro di sé una fila di manager ansiosi di rappresentarlo. I promoter si sarebbero leccati i baffi. E questo faceva piacere a Mac, che voleva portare avanti Puddin lentamente, magari con un paio d’anni tra i mediomassimi, al di là della fretta con cui i suoi manager avrebbero voluto farlo combattere tra i massimi. Lui voleva farlo combattere non contro degli incapaci, ma contro tipi in grado di svezzarlo, pugili con esperienza sufficiente a farlo riflettere, tipi che desiderassero vincere e che fossero in grado di picchiare forte abbastanza da insegnargli a tenere alte le mani. Tipi che avrebbero tirato fuori da Puddin il meglio.
«Tu colpisci l’avversario, giusto?»
«Giusto.»
«E chi è il predatore?»
«Sono io il predatore!»
Fin dall’inizio, ecco che cosa gli aveva insegnato.
«Il predatore è quello che mangia, capisci? Quando una zebra colpisce un leone sul muso, il leone muore di fame perché ha la mascella rotta, giusto? Lo stesso vale per il lupo, viene colpito e muore di fame. Il compito del predatore è vincere senza farsi colpire, o almeno senza farsi colpire così duramente da non poter più mangiare la sua preda. Per i pugili è lo stesso. Vedi, se tu prendi troppi pugni per battere il tuo avversario, non durerai a lungo. E se ci riuscissi, potresti fare la fine dei pugili suonati. Capisci?»
«Sì.»
Mac voleva esserne sicuro. «Diciamo che lui ti attacca, e magari ti assesta un bel pugno. Tu non gli vai dietro, non ti metti a combattere muso contro muso, capito? Gli sgusci di fianco, saltelli, ti muovi, lo confondi, lo aggiri e fai in modo che ti manchi, e quand’è stanco, e ti assicuro che lo sarà perché avrà trattenuto il respiro cercando di beccarti, gli salti addosso, gli stai attaccato come un chiodo.»
«Uh-huh, come un chiodo. Ti seguo.»
L’obiettivo di Mac non era trasformare il ragazzo in un animale, ma esattamente il contrario. Il punto era riuscire a dargli il potere, il potere fisico e mentale che lo avrebbe aiutato a non diventare un animale quando la pressione esercitata su di lui avrebbe complottato in quel senso.
«Prendi i tori, giusto?» disse Mac. «Più coraggiosi di una mamma orsa. Caricano anche un treno se li si separa dal gruppo. Ma essere coraggiosi non basta se a vincere è il treno, giusto? Ed essere duri non basta se prendi tanti di quei pugni che un giorno comincerai a perdere. O se il corpo ti abbandona, dicendoti ne ho abbastanza, ne ho prese a sufficienza. Sono l’abilità e le gambe e la rapidità e il cervello che ti fanno andare avanti. La boxe, lassù sul ring, è una cosa limpida, pura. Fatta di volontà e rispetto. Ma non potrebbe esistere senza l’arbitro e le corde, e la testa del guerriero.»
«Uh-huh!»
Mentre Mac parlava, le spalle di Puddin si muovevano impercettibilmente, a causa dei nervi della sua spina dorsale che mandavano messaggi alle dita e ai piedi.
Mac disse: «Bisogna sapersi muovere, e pensare come un predatore, e sapere come si respira».
«Pensare come un predatore» disse Puddin.
«Esatto.»
«E respirare ogni volta che si sferra un pugno, ogni volta che si fa un passo» disse Puddin.
«Ci siamo capiti, Toyota.»
Mac McGee era un poliziotto in pensione che aveva combattuto da ragazzo nei Golden Gloves, allenandosi alla vecchia palestra di Main Street. Aveva combattuto tra i pesi welter in Marina, ed era diventato un campione della Flotta del Pacifico dopo aver mentito sulla sua età nel 1943 e aver messo la firma a diciassette anni. Durante la battaglia del Golfo di Leyte aveva vinto la Silver Star. Era rimasto un altro po’ in Marina dopo la Seconda Guerra Mondi...