Non appena il sole toccava il pannello di resina verde dalla voliera s’alzavano gorgheggi e pigolii sempre più forti. Era la stagione degli amori e i canarini, aggrappati alle sbarre con le zampe sottili, cantavano col petto in fuori come avessero un fischietto al posto dei polmoni. Mio padre era euforico, aveva installato i nidi piazzando delle uova finte per convincere le femmine con scarso istinto materno a covare. Era un’abitudine degli imprenditori locali tentare un mini allevamento di canarini in casa, un altro modo di declinare la loro smania da demiurghi. Tra i suoi soci c’era chi partecipava ai campionati, fiere in cui vinceva il gibber dalla gobba più concava, ma mio padre no, non amava fanatismi al di fuori dei suoi affari.
Avrei voluto silenziarli tutti. Non mi facevano studiare – avevo da poco ripreso il manuale di istologia, e il loro canto mi metteva in allarme. La primavera mi aveva messo in ginocchio come uno spintone. L’aumento della temperatura, le giornate senza nuvole, il profumo insostenibile del rincospermo, i fuochi d’artificio che esplodevano ogni sera, ora che le ville per ricevimenti accoglievano prime comunioni e matrimoni, mi rendevano smanioso. Come facevo a starmene in casa? Mi masturbavo ogni mattina appena sveglio. Poi, per calmarmi, facevo una pennica calcolata, dopo pranzo, non più di mezz’ora.
Era passata quasi una settimana da quando Saverio mi aveva spinto nel camerino. Non pensavo di doverlo cercare ancora. Ma avvertivo come un bruciore, di quelli che restano sulla guancia dopo uno schiaffo. La vibrazione della pelle che si irradia su tutti i nervi pronti a reagire.
Pi, pi, cri cri, piu, piu, piu.
Chiusi il manuale con forza e uscii sul terrazzo piazzandomi di fronte alla voliera. Gli uccelli svolazzarono negli angoli delle gabbie e restarono fermi, gli occhi vitrei. Un soffio di vento sollevò le piume sparse a terra, solleticando i peli delle mie gambe. Alzai lo sguardo e quasi non riconobbi il panorama di tetti, verande e antenne, ammantato dalla luce del sole di un colore suadente, un rosa salmone. Era sempre stato così? O ero io che andavo allestendo una nuova scenografia per i giorni a venire?
Scaricai un’app per incontri.
Durante il liceo eravamo sempre stati attratti dal mondo delle chat, in cui cercavamo una facile soluzione, una realtà aumentata che permettesse di scavalcare secoli di amor cortese e portare dritti al sesso, all’inappuntabilità di un incontro al buio. Ma era un passatempo di breve durata dove, ancora una volta, Angelo aveva collezionato più successi di tutti.
Al primo ingresso in chat, il mio profilo anonimo – non avevo compilato nessuno dei dati richiesti: età, altezza, preferenze, foto – fu gettato in una vetrina che si aggiornava automaticamente. Come un bussolotto, bastava scorrere in basso per estrarre nuovi profili. Lo spoglio dei nuovi utenti era sempre diverso. Dava l’illusione di infinite possibilità a portata di mano. Tenevo il cellulare come un talismano.
Facevo il primo accesso di mattina, non appena mettevo piede fuori del treno. Lontano da casa, all’aria aperta, l’eccitazione era meno frustrante. Non frequentavo più il Policlinico. Avevo trovato un buco nelle aule di Scienze Naturali. Si stava al fresco e in giro non c’era nessuna vecchia conoscenza, di quelle che ti costringono a riassumere in breve cosa hai fatto negli ultimi mesi. Passavo lunghe pause caffè da solo. A fine giornata mi ritrovavo a canticchiare lungo la strada di casa solo per assicurarmi di non aver perso la parola, che il diaframma non si fosse anchilosato. Angelo non si faceva sentire da mesi e per la prima volta avevo il campo libero. Preferivo stare sospeso, a primavera iniziata, tra la vita di prima, di cui non soffrivo i rimorsi, e una vita nuova di cui non avvertivo nulla se non il presagio.
“Cosa cerchi?”
In chat era la domanda più frequente. Dopo un po’ capii che potevo rispondere con un bagaglio limitato di alternative: sex, incontro, amicizia. Se mi chiedevano altre foto provavo a tergiversare. Ci misi un po’ a capire che con a o p mi stavano chiedendo, sbrigativi, le preferenze per il sesso penetrativo. Imparavo un linguaggio nuovo ma, se sbagliavo, non succedeva nulla. Tutto sommato la chat era una piattaforma ampiamente democratica, ero libero di interagire con chi volevo: lo studente universitario, il parrucchiere romantico, il vecchio feticista, il quarantenne sposato, l’etero curioso, chi, senza presentazioni, inviava le foto del proprio buco del culo, chi cercava una storia seria, massaggiatori a pagamento, filippini che a stento scrivevano in italiano. Era tutto approssimativo, se non squallido, ma bastava che non mi mettessi troppo in gioco e rimanessi al riparo, dietro lo schermo. Questa rassicurazione era poco credibile. Era solo questione di tempo. Prima o poi avrebbero estratto anche il mio numero.
La situazione si sbloccò grazie a un cortocircuito. Prima del profilo arrivò la persona.
Nei dintorni dell’aula studio – il posto in cui mi connettevo più spesso – a soli pochi metri da me si aggirava sempre lo stesso utente. La foto del suo profilo, leggermente sgranata, lo ritraeva controluce, lungo un sentiero di montagna. Poco si intuiva del suo viso, del corpo si notava solo l’altezza, riportata anche nelle informazioni del suo account: 187 cm, 82 kg, tonico, single. C’era anche il suo nome ben in vista: Alessio. Ogni mattina io e l’Alessio virtuale ci tenevamo compagnia mantenendo la stessa posizione in vetrina. Fino a che non ci incontrammo in ascensore. Trattenni il fiato, temevo di gonfiarmi per la paura come un pesce palla. Ma Alessio nemmeno si era accorto della mia presenza. Nella mezz’ora successiva, di nuovo sui libri, leggevo e rileggevo lo stesso paragrafo sulle fibre collagene senza memorizzare nulla.
Dovevo scrivergli.
“Ciao.”
“Ciao.”
“Come va?”
“Bene, tu?”
“Ci siamo incontrati poco fa.”
“Davvero?”
“In ascensore. Ora sono in aula studio.”
“Chissà. Embè, vuoi fare pausa?”
Da quando avevo aperto il manuale avevo sì e no sfogliato due, tre pagine. Lo studio non bastava a tenermi tranquillo. Ero già oltre l’ostacolo.
“Alle macchinette?”
“Tra dieci minuti.”
Si presentò, aumentando l’artificiosità del nostro incontro, con una stretta di mano: «Alessio».
Era alto e aveva una leggera gobba, i capelli scuri, corti, anonimi. Vestiva una felpa di una misura in più e dei jeans scoloriti che nascondevano la forma delle gambe. La conversazione non fu piacevole. C’erano dei silenzi inspiegabili. Studiava veterinaria: «Ma voglio specializzarmi all’estero». Odiava Napoli e sperava di lasciarla al più presto. Sembrava insofferente anche alla mia compagnia, guardava sempre altrove. Del resto anch’io non credo di aver sollevato lo sguardo oltre l’aiuola.
«È il mio terzo caffè» spiegai dopo una lunga pausa agitando il monouso.
«Mh.»
Ci salutammo delusi, i polsi storti in una goffa stretta di mano.
Gli scrissi di nuovo dopo le cinque.
Non aveva senso. Tra le aiuole del chiostro non c’era stato spazio per un flirt, nessuna impennata di simpatia reciproca. Non mi piaceva, quei jeans erano imbarazzanti tanto quanto gli occhiali da sole che gli scoprii solo dopo, infilati nel colletto della felpa, piccoli e scuri, improbabili. Ero però guidato da una determinazione sconosciuta. L’algoritmo della chat aveva innescato una forma di competizione, come giocassi a un videogioco in cui non avevo raggiunto ancora alcun record personale.
“Ci vediamo alla chiusura.”
Mi aspettò appoggiato a una cabina telefonica. A una distanza fissa di mezzo metro, prendemmo a passeggiare a vuoto per le vie del centro storico. Più simile a una ronda che non a una passeggiata. Camminammo senza sosta, tanto che mi era difficile bere dalla bottiglia e la birra mi si fece calda. L’esito della serata era una previsione oltre la mia capacità immaginativa. Parlammo poco, anche lì lasciavo che fosse lui a prendere l’iniziativa, ma Alessio riusciva solo a ripetere commenti beffardi sull’abitudine di parcheggiare le auto in doppia fila: «Qua fa tutto schifo». Di fronte a un parcheggiatore abusivo che sistemava le auto sui marciapiedi se ne uscì: «A Berlino vivevo solo di bike sharing».
«Io non amo viaggiare» ribattei, mettendo fine ai suoi discorsi.
Ci eravamo seduti sulle fioriere alle luci dell’obelisco di piazza San Domenico quando mi chiese, a bruciapelo: «Con quanti ragazzi sei stato?».
«Due» mentii. Trovai la domanda fuori luogo oltre che avvilente. Almeno aveva buttato una nuova luce sui nostri discorsi. «Io ho perso il conto» replicò.
La città si era rabbuiata. La luce del sole veniva debole oltre i palazzi, dal mare. La piazza vibrava per l’eco di voci, chitarre e vetro. Mi rendeva nervoso. Avevo bisogno del bagno. Stavo per deviare verso un bar quando lui mi fermò.
«La fai a casa mia» disse come un ordine, giocherellando con un mazzo di chiavi in tasca. «Abito in fondo alla strada.»
«C’è un asciugamano, nell’ultimo cassetto.»
Avevo il suo braccio infilato dietro il collo, rigido. Niente avevo premeditato. Solo, per iniziare, mi era venuto in mente il consiglio di mio padre e mi ero sfilato le mutande suscitando un risolino sorpreso ma persuaso. Spogliarsi era stato divertente. La mia intraprendenza si basava sull’idea che a qualsiasi mia iniziativa sarebbe seguita un’azione a me sconosciuta ma in qualche modo corrispondente. Il sistema, alla luce tenue dei lampioni della strada, sembrava funzionare – potevo nascondere le smorfie per la sorpresa – fino a che non arrivò il mio turno. Eravamo al buio. Mi ritrovai il suo pisello tra le mani senza sapere cosa farne, come un cacciavite a stella. Lo reggevo senza entusiasmo. Alessio allora risalì sul mio corpo e lo avvicinò alla mia bocca. Mi paralizzai. La tenni aperta come fossi dal dentista, non sapevo come posizionare i denti. Dopo poco rinunciò. Io mi allontanai e mi stesi sul fianco del letto.
«Non ti piace partecipare, eh?»
Alessio si allungò verso di me, prese la mia mano e mi guidò con calma.
«Sei vergine?»
Feci di no con la testa.
«Sei un bel ragazzo. Fobie? Malattie? Preferenze?»
«È una serata no.»
Serata no. Potevo inventarmi di meglio ma verbalizzare quanto stava succedendo forse era più mortificante.
Alessio venne per conto proprio, senza molto entusiasmo. Si sporse verso di me e agguantò un rotolo di carta igienica dal comodino.
«Vuoi dell’acqua?» chiese.
Feci di sì con la testa. Lui si tirò su e scomparve nella penombra del corridoio. La camera era spoglia: una brandina più che un letto, l’armadio senza ante, il parquet impolverato. Ci misi un po’ a rivestirmi. Trovai le mutande intrappolate dal peso del materasso, i calzini erano finiti dall’altra parte della stanza. «Questi li togliamo» aveva detto dopo avermi spogliato. Ora che riprendevo fiato, la meccanica con cui ero venuto non mi sembrava così deprimente, per quanto la mia partecipazione si fosse limitata a una posa plastica, steso a pancia in su in attesa che lui si sbrigasse: «Te la prendi comoda, eh?».
Mi rivestii allo specchio, a luci accese.
In cucina mi offrì un bicchiere pieno fino all’orlo. Bevevo a sorsi forzati – avrei di gran lunga preferito sciacqui di collutorio. Alessio mi dava le spalle, lavava i piatti lasciati in ammollo, il suono delle stoviglie stranamente intimo. Più volte si girò nella mia direzione come sorpreso della mia presenza silenziosa. Poggiò l’ultimo piatto della pila e disse: «Senti... io non so tu cosa cerchi ma io di sicuro niente di più di quanto è successo dieci minuti fa».
Non capii molto del suo discorso. Del resto anch’io, come lui, ero concentrato su tutt’altro. Avevo bisogno di una doccia, di riacquistare l’equilibrio chimico del mio corpo che emanava odori estranei. Sarei rimasto lì impalato ancora a lungo, ma tanto io ero imbranato quanto lui volgare così che, con la mano sul mio fianco, come fossi un’auto in panne, mi accompagnò alla porta, lasciandomi con un consiglio: «Forse ti serve solo un po’ di palestra. Una scopata a settimana almeno».
Nel piazzale della stazione fui preso da una fame violenta. Forse era solo il bisogno di ricoprire la bocca con un altro sapore. Aperta a tutte le ore c’era una rosticceria dall’insegna blu, ritrovo di netturbini, carabinieri, e ragazzi fatti. Presi un trancio di pizza. Diedi tre morsi famelici e lo buttai via.
A quell’ora gli autobus riposavano già nel deposito e in strada si dileguava una piccola carovana di pendolari ritardatari. Tutto sommato, pensavo mentre mi incamminavo anch’io lungo la provinciale, la mia serata non era andata male. Avevo conosciuto una persona nuova. Sotto quei vestiti sformati Alessio nascondeva una fisicità longilinea, atletica. La pelle al tatto era liscia.
Ripensai alle amiche di Angelo, i loro corpi flaccidi, i seni inesistenti, i capelli spumosi. A quanto poco mi suggerissero. Ma anche il corpo di Alessio non aveva scaturito la reazione nucleare che mi aspettavo. Mi sentii in pericolo, come vittima di una purezza claustrale. Non potevo sapere che si trattava di semplice inesperienza, non conoscevo il ruolo fondamentale dell’intimità.
Rientrai in casa in punta di piedi. Dalla cucina veniva la luce fredda della tv accesa – mio padre si costringeva ad andare a letto tardi così da non svegliarsi all’alba con le mani in mano. Adagiai piano le chiavi sulla console dell’ingresso. A gambe larghe raggiunsi la mia camera. Era tutto in ordine. Rafilina aveva fatto il suo dovere. Gli oggetti immobili, in attesa del mio rientro, il letto rifatto pronto ad accogliermi. Dal collo e dalle mie mani veniva però ancora un odore umido, estraneo. In bagno mi sciacquai prima le ascelle, poi il viso, e il collo. Mi insaponai in silenzio. Il mio corpo adesso sapeva di argan. Non mi bastava. Temevo o forse cercavo in giro per casa tracce della mia metamorfosi, come se dopo la muta avessi lasciato da qualche parte una pelle da serpente. Uscii a prendere aria. Dal buio del terrazzo luccicavano le luci del quartiere, qualche auto passava lenta. I canarini dormivano nelle gabbie con la testa incassata sotto le ali. Ma anche lì non c’era nulla da vedere. Il quartiere dormiva e avrei fatto bene a riposare pure io.