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Quando suonò la campanella, la Segre mi disse: «Fermati dopo l’ultima ora». Non aggiunse altro, ma sapevo di essere nella merda fino al collo. Passai le ultime due ore a rigirarmi la biro tra le dita, uno dei miei pochi talenti.
Durante la lezione la Segre parlò di qualcosa di cui non mi fregava niente, tipo Guerra fredda o forse la questione palestinese. In Storia ero appena sopra la sufficienza, ma solo grazie alla memoria che, chissà come, ancora funzionava.
Non interrogò e fu cosa buona. La giornata era stata uno scivolo di merda, avevo schivato l’interrogazione d’informatica
(che cazzo interroghi in informatica, poi?)
e avevo consegnato un compito in bianco alla troia di matematica. C’era qualcosa di poetico in un foglio intonso, puro come la mia insufficienza.
Frisc-frusc, faceva la biro tra le dita, frisc-frusc e alla fine la campanella suonò. Feci la cartella e non provai nemmeno a nascondermi nel corso dei compagni di classe che telavano fuori come minatori liberati da una fossa di metano.
«Alì» chiamò la Segre facendomi segno di avvicinarmi alla cattedra. Quando fummo soli, mi disse di sedermi di fronte a lei.
«Che vogliamo fare?» chiese.
Le aule vuote mi avevano sempre trasmesso una caga atavica. Erano come stanze di manicomi abbandonati piene di grida, disperazione e fantasmi. Mi chiesi quanti disgraziati fossero passati su quei banchi, quanti fossero ancora vivi e quanti naufragati.
«Che vogliamo fare?» ripetei.
Volevo uscire, volevo respirare. La puzza di sudore e di gesso mi dava le vertigini e gli occhi della Segre mi scavavano nell’intestino.
La Segre prese la borsa di pelle (la borsa della morte, la chiamava Rami), quella dove teneva i temi e gli appunti e le penne rosse. Una caterva di penne rosse.
Prese un faldone di fogli (i temi di lunedì, ma non poteva averli già corretti) e si mise a cercare con i suoi occhi aguzzi come diamanti, le labbra strette, il naso all’insù, i capelli ricci, la pelle che iniziava a cedere. Era bella, per una supplente.
Mi schiaffò davanti il tema.
«Gira.»
Lo girai e vidi il voto.
«Che vogliamo fare?» ripeté.
Mi strinsi nelle spalle. «Boh.» Guardai l’uno e lo zero e poi lo spazio vuoto sotto, che urlava più di quei due numeretti. In genere la Segre sbrodolava lunghi commenti in rosso sui pregi e difetti del tema, e di solito più il commento era lungo più basso era il voto. Mi ero sempre chiesto perché perdesse tutto quel tempo a correggere e scrivere quando il tema di qualcuno andava male, come se potesse davvero migliorare.
«Hai l’autobus?» chiese.
Scossi il capo.
«D’accordo. Ci vorrà un po’ perché, davvero, non so da dove partire.»
«Provi dall’inizio, prof.»
La Segre non rise. Peccato, quando lo faceva era ancora più bella, forse perché non capitava quasi mai. In media era più giovane delle altre prof e rispetto alla Carmine era scopabilissima. Mi trascinavo dietro la Carmine dalla terza superiore, una troia rara che, non so come, si era convinta fossi uno furbo, di quelli che nei temi pensa di poter scrivere quel che gli pare e fare pure bella figura. Poche settimane prima che si sfasciasse la gamba giù dalle scale (ho goduto come un riccio) mi aveva riconsegnato un tema con un sei meno e uno scarabocchio che diceva “Sei troppo creativo”.
«Sai che anche quest’anno probabilmente non sarai ammesso all’esame?» disse la Segre.
Non ci voleva un genio a indovinarlo. La pagella parlava chiaro. Me ne stetti zitto anche se non mi sarebbe spiaciuto dirle in faccia ecchiccazzosenefrega.
«Ti ricordi cosa ti ho detto la prima volta che ti ho corretto un compito?»
Guardai il dieci. «Che non sono adatto a un tecnico.»
«Questo tema», disse conficcando un’unghia laccata di rosso nel ventre del tema, «è uno dei più belli che abbia letto. Da sempre.»
Come supplente la Segre era stata sbattuta un po’ ovunque, dal classico al professionale. Pure da noi aveva sempre cercato di imporre una disciplina da liceo e c’era quasi riuscita. All’inizio tutti avevano pensato di poterla fottere perché era nuova e abbastanza giovane e i supplenti valgono meno di un cazzo. Invece dopo la prima bordata di due e qualche uno (nessun prof ci aveva mai dato uno), qualche nota e un paio di rapporti, l’atmosfera era cambiata e avevamo iniziato a giocare secondo le sue regole. Ripeteva sempre che noi del tecnico eravamo anche più svegli di quelli del liceo, se volevamo, e la cosa peggiore era che ci credeva sul serio.
«Ho dato pochi dieci in vita mia. Tu quanti ne hai presi, di dieci, con me?»
«Boh.»
Mi mise davanti un foglio con i miei voti da quando era sbarcata nella nostra classe. C’era un otto, poi un nove e il resto dieci perché, a detta sua, all’inizio non sapeva ancora come prendermi, come fossi fatto, se era stato solo un caso e così via. Le interrogazioni oscillavano tra il sei e il sette, con qualche gradazione di quattro.
«Alì, mi vuoi spiegare perché ti stai buttando via?»
La domanda delle domande. Serviva la risposta delle risposte: «Non lo so».
«Nei temi non puoi barare, non puoi copiare. In più, hai fatto solo saggi brevi dall’inizio dell’anno. E una prosa poetica su Rimbaud.»
«Mi piace, Rimbaud.»
«Lo so, l’ho letto il tuo tema. Anche tra le righe.»
Quello riuscì a scuotermi. Che cosa ci aveva visto in un temino su Rimbaud? Ero riuscito a fregarla così alla grande?
«Tu potresti fare tutto. Potresti andare al classico e, se studiassi, riusciresti bene. Potresti anche fare l’università, dopo.»
«Già.»
Sapevamo entrambi che erano stronzate. Ormai ero in quinta (da due anni) ed era troppo tardi per recuperare greco, latino e simili. E lei giù a dirmi riusciresti bene. Mi venne da ridere.
«Perché non studi?»
«Boh.»
«Ma nei temi vai bene.»
«Perché non devo studiare.»
«Qui citi… Ferlinghetti. Secondo te Servi ha idea di chi sia Lawrence Ferlinghetti?»
Stefano Servi (SS per gli amici) era il secchione, quello che avresti voluto prendere a pietrate in faccia. Alcune pietrate, credo, le aveva beccate pure. Di solito si voltava sempre verso me e Rami per chiedere quanto avessimo preso nelle verifiche. Lo faceva con noncuranza, ostentando la sua striscia di baffetti e gli occhi da triglia. Non gli fregava di sapere il mio voto, voleva solo farmi vedere il suo. Con Rami dicevamo che si segava con le verifiche arrotolate sull’uccello.
Un po’ dopo che era arrivata la Segre, però, aveva smesso di voltarsi a chiedere, il coglione. Tempo del primo dieci, e aveva proprio piantato di rivolgermi la parola. Prendere bei voti almeno serviva a qualcosa. Dalla prima diceva che sarebbe passato al liceo, ma non l’aveva mai fatto. Meglio essere un pesce grande in uno stagno piccolo, poi: «Latino non fa per me, non serve a niente, sono sprecato lì dentro» e blablà.
«SS non sa nemmeno trovarsi l’uccello nelle mutande» risposi, e per la prima volta da chissà quanto mi morsi la lingua. Non volevo approfittarne, tirare la corda. O forse volevo mi cacciasse, vai a capire. Diversamente, la Segre mi avrebbe strigliato (e alcuni maniaci avrebbero pagato per farsi strigliare da lei), ma ora eravamo su un altro piano. Potevo parlarle. Potevo dirle qualcosa. Forse avrebbe capito.
«In realtà nessuno dei miei studenti sa chi è Ferlinghetti. Perché tu sì?»
«Perché l’ho letto.»
«E come?»
«Ho trovato una citazione su Instagram, mi ha preso e ho letto le sue poesie.»
«E le hai imparate a memoria? Nel tema ci sono versi interi.»
«Alcune.»
«Mi spieghi perché leggi Ferlinghetti, lo impari a memoria e all’interrogazione non riesci a dirmi una cosa su, che so, d’Annunzio, tranne quello che ho detto io in classe?»
«Ferlinghetti mi piace.»
«E d’Annunzio no?»
«È un paraculo.»
«Lo so, anche secondo me, ma per criticarlo, almeno, devi leggertelo.»
Rimasi zitto.
«Alì, hai già perso un anno, e mi sento un libro stampato a dirlo, ma mi dispiace vedere uno con le tue potenzialità che le butta via così.»
«Non so che dirle.»
«E come pensi di vivere, uscito di qui? Sulle spalle dei tuoi?»
«Non lo so.» Feci per aggiungere: “Finché mi reggono”, ma mi trattenni. Non volevo aprire quel capitolo.
«Leggere Rimbaud e Ferlinghetti non basta.»
Alzai le spalle. Niente di nuovo.
«Hai ancora un po’ di tempo. Cerca di alzare le altre materie. Ai consigli di classe ne ho parlato con gli altri e siamo d’accordo, ma tu devi aiutarci. Studia.»
Scrollai il capo. Ero un mollusco. «Ci provo.»
«E molla Rami e gli altri.»
«Sono amici.»
«Non sono amici.»
«Cos’è, mia madre?»
Non lo dissi con cattiveria. Non lo dissi con nessun tono. In realtà, non volevo una r...