La disciplina di Penelope
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La disciplina di Penelope

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La disciplina di Penelope

Informazioni su questo libro

Penelope si sveglia nella casa di uno sconosciuto, dopo l'ennesima notte sprecata. Va via silenziosa e solitaria, attraverso le strade livide dell'autunno milanese.

Faceva il pubblico ministero, poi un misterioso incidente ha messo drammaticamente fine alla sua carriera. Un giorno si presenta da lei un uomo che è stato indagato per l'omicidio della moglie. Il procedimento si è concluso con l'archiviazione ma non ha cancellato i terribili sospetti da cui era sorto. L'uomo le chiede di occuparsi del caso, per recuperare l'onore perduto, per sapere cosa rispondere alla sua bambina quando, diventata grande, chiederà della madre.

Penelope, dopo un iniziale rifiuto, si lascia convincere dall'insistenza di un suo vecchio amico, cronista di nera.

Comincia così un'appassionante investigazione che si snoda fra vie sconosciute della città e ricordi di una vita che non torna.

Con questo romanzo - ritmato da una scrittura che non lascia scampo - Gianrico Carofiglio ci consegna una figura femminile dai tratti epici. Una donna durissima e fragile, carica di rabbia e di dolente umanità.

Un personaggio che rimane a lungo nel cuore, ben oltre l'ultima pagina del sorprendente finale.

Domande frequenti

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Informazioni

1

Finalmente il suo respiro si fece regolare. Inspirava dal naso ed espirava da un lato della bocca, come un piccolo strumento a mantice. Non era rumoroso; non troppo, non come altri almeno. In condizioni diverse – in una vita diversa – sarebbe stato addirittura possibile dormirci insieme.
Pensai per qualche istante a tutti gli altri; ai suoni grotteschi, quasi caricaturali che alcuni facevano dopo essere sprofondati in un sonno faticoso. Mi venne in mente un libro che era a casa della nonna. Il Paese della Ninna Nanna. Mi ricordavo benissimo le illustrazioni – disegni del passato, il libro era degli anni Trenta – e solo confusamente la storia. C’era una specie di mago che spargeva una polverina per fare addormentare il piccolo protagonista, un bambino con un buffo pigiama a tutina. Che bello sarebbe stato averlo ancora, quel libro. Tornare a casa, sfogliarlo come facevo da bambina quando dormivo dalla nonna, quando lei c’era, quando non era in viaggio. Addormentarmi immaginando che l’uomo del sonno, con la sua polverina magica, arrivasse anche da me. Addormentarmi spensierata. Tanta gente rimane quasi paralizzata quando le domandi a bruciapelo di esprimere un desiderio. Invece se lo chiedessero a me non avrei né dubbi né esitazioni: tornare a addormentarmi come da bambina, a casa di nonna Penelope.
Scivolai con cautela fuori dal letto, attenta a non svegliare l’uomo. Come si chiamava? Alberto, forse, ma non ero sicura, il volume della musica era troppo alto quando c’erano state le presentazioni. Raccolsi le mie cose, sparse fra una poltrona e il pavimento, e raggiunsi il bagno.
Feci scorrere l’acqua in un filo, per non fare rumore. Lo stretto necessario. Poi a casa avrei fatto la doccia e cancellato anche questa esperienza.
Esperienza? Attenta alle parole. Esperienza è quando impari qualcosa, quando sei presente in una situazione e questa situazione ti lascia una traccia, un segno. Non proprio quello che era successo poco prima.
Quasi un’ora di prestazioni ginniche, a un certo punto anche davanti a uno specchio. In modo che potessi ricordarmi bene, aveva detto lui con voce fintamente rauca – l’idea era che fosse erotica –, muovendosi come in un tutorial, contraendo a ritmo i muscoli ipertrofici e contemplandone l’immagine riflessa. Più che sesso, sembrava una gara di culturismo. Quando mi domandò se mai un altro uomo mi avesse fatto godere in quel modo mi dissi che poteva bastare. Simulai un orgasmo di prim’ordine, con tanto di gemiti e sussulti, e anche lui, a quel punto, si sentì autorizzato a terminare l’esibizione.
Dopo essermi lavata non resistetti alla tentazione di aprire gli armadietti ai lati dello specchio. In quello a destra c’erano collutorio, ibuprofene, Toradol, collirio, Rinazina, vitamine, omega 3, curcuma, glucosamina, melatonina, preservativi di vario genere, inclusi quelli al gusto di fragola, che per fortuna mi erano stati risparmiati. Un po’ più nascosti: Levitra e Minias. Il Minias era evidentemente la ragione per cui adesso dormiva così tranquillo. Il Levitra non sapevo cosa fosse e dunque – molto indiscreta, lo so – lessi, e dal foglietto scoprii, senza eccessivo stupore, che si trattava di “farmaco per il trattamento della disfunzione erettile negli uomini adulti”.
Tanto per completare l’ispezione guardai anche nell’altro armadietto: rasoi vari, crema idratante, crema antirughe, lifting per il contorno occhi, siero, patch per eliminare le borse sotto gli occhi, fondotinta, terra effetto bronzage. Sul lato interno dello sportello era attaccata la pagina di una rivista con un elenco di esercizi di ginnastica facciale “per tonificare i muscoli del viso e combattere rughe, linee sottili e altri segni del tempo”. Me lo immaginai mentre tirava la pelle verso le tempie – “a mo’ di cinesino, per intenderci” (così suggeriva l’autore dell’articolo) – per contrastare rughe e zampe di gallina.
A quel punto decisi di dare un’occhiata al resto della casa. La cucina era pulita e ordinatissima. Nel frigorifero c’erano cartoni di latte di soia, petti di pollo, prodotti probiotici, spuntini proteici, bibite da allenamento sportivo, una bottiglia di champagne.
Poi c’era la palestra. Una stanza spaziosa con panca, bilanciere, manubri, barra per trazioni, una spalliera e un sacco da boxe. Il soggiorno era ampio, con una bella vista, mobili nuovi, costosi e insignificanti. Sugli scaffali una ventina di libri: fitness, alimentazione, self-help e Paulo Coelho.
Prima di andarmene rientrai nella stanza da letto in penombra.
Mi avvicinai all’uomo che continuava a dormire pacifico e che, forse per questo, mi suscitò una fugace tenerezza. Quasi mi venne voglia di fargli una carezza, dargli un bacio di addio. Durò qualche secondo. Poi gli feci ciao con la mano, controllai di avere con me il cellulare, lo spray al peperoncino e il calzino pieno di biglie, e uscii.
Il portone del palazzo si chiuse alle mie spalle, davanti a me una Milano livida, attraversata da luci impure. Non faceva troppo freddo – ma non fa mai troppo freddo ormai, dicono.
Un barbone dormiva in un sacco a pelo, circondato da un rifugio di cartoni, vicino all’ingresso di una banca. Età indecifrabile, come quasi tutti quelli che vivono per strada. Ho cominciato a guardare i barboni da quando mi hanno raccontato la storia di un mio compagno del liceo. Prima una brutta separazione, poi il licenziamento, poi non aveva più potuto permettersi la casa in cui abitava e non ne aveva trovata un’altra. Dormiva in una vecchia auto, mangiava alle mense per poveri, viveva di espedienti, elemosina inclusa. Da quando ho saputo di lui, osservo attentamente ogni senzatetto che incontro. Cerco nelle barbe incolte, nei lineamenti deformati dalla solitudine, dalla miseria, dal freddo, dal vino cattivo la fisionomia di quel ragazzino che, in realtà, non ho mai davvero conosciuto. Siamo stati nella stessa classe per cinque anni e non ricordo una sola volta in cui ci ho parlato. Ma adesso vorrei incontrarlo e chiedergli come è potuto accadere, magari aiutarlo. Uno dei tanti miei pensieri senza senso.
L’uomo che dormiva davanti a me, quella notte, non sembrava lui. Ma del resto, chissà se sarei riuscita a riconoscerlo, in caso lo avessi incontrato. Sul rifugio di cartone c’era una frase scritta col pennarello: SE VOLETE, LASCIATE QUALCOSA. VIVO DI QUESTO. Con la virgola e il punto messi al posto giusto, la scrittura diritta, ordinata e infantile, come fosse stata su un quaderno di terza elementare. Presi una banconota da venti e gliela infilai fra le dita. Lui non si accorse di nulla e continuò a dormire.
Poi accesi una sigaretta, misi gli auricolari, cercai Nick Cave e mentre partivano gli accordi di Into My Arms mi avviai verso casa.

2

Arrivai al bar di Diego qualche minuto prima delle undici, ora dell’appuntamento. Per essere novembre la giornata era decisamente bella, luminosa, con un vento fresco ma non freddo. L’aria sembrava addirittura pulita. Avevo dormito poche ore ma mi sentivo lo stesso abbastanza riposata.
«Ciao, Diego, è libero dietro?»
«Ciao, Penny, libero.»
Ho a lungo detestato quel nomignolo, poi mi ci sono abituata. Se qualcuno dei miei amici – pochi – mi chiamasse Penelope mi farebbe un effetto strano.
«Fra qualche minuto arriva un tale per me» dissi avviandomi verso il retro del locale. Era una saletta con due tavolini dove non entrava quasi mai nessuno.
«Lo faccio passare. Che ti porto?»
«Un caffè americano allungato con un dito di Jack.»
Diego mi guardò, poi guardò l’orologio, poi mi guardò di nuovo.
«Penny, sono le undici…»
«Non mi sono espressa bene, colpa mia, eccesso di sintesi. Riformulo: caffè americano in tazza grande con correzione di Jack Daniel’s. Se lo hai finito nessun problema, va bene qualsiasi altra marca. E comunque, per la tua tranquillità, ho molto ridotto. È possibile che non ne tocchi altro fino a stasera.»
Andai a sedermi dopo avere appeso il giubbotto a un gancio sul muro. Un paio di minuti dopo arrivò Diego con il caffè. Bevvi subito un sorso per controllare che si fosse attenuto all’ordinazione.
«Vuoi mangiare qualcosa?»
«Grazie, ho fatto una colazione sana e senza bourbon, a casa.»
Diego rimase lì.
«Vuoi dirmi qualcosa?»
Si schiarì la voce. «Non credi che sarebbe bene parlarne a qualcuno?»
«Ascoltami, Diego. Apprezzo molto la tua amicizia e la tua premura. Ma davvero, non devi preoccuparti. È una cosa sotto controllo, e mi serve. Prendo qualche Tavor in meno, mi bevo qualche bicchiere in più e finisce lì.»
«Lo so che è inutile dirtelo. Ho visto e sentito un sacco di gente fare discorsi identici al tuo.»
«Vuoi dire: gli alcolizzati?»
«Quelli che hanno qualche problema con l’alcol, prima negano che il problema esista. Poi a volte diventano proprio… quello che hai detto tu. Che ci sarebbe di male a parlarne con qualcuno?»
Mi sentii attraversare da un’ondata di insofferenza. La controllai a fatica, evitando che si trasformasse nella solita reazione rabbiosa. Non sarebbe stato giusto. Molti vogliono solo farti la lezione o la morale. Sfogano su di te il loro bisogno di sentirsi migliori. Diego no: era preoccupato. Non si meritava di vedere la parte peggiore di me. Feci un respiro profondo.
«Va bene, Diego. Può anche darsi che tu abbia ragione, voglio ammettere che da parte mia ci sia un difetto di prospettiva. Ti prometto che ci penserò seriamente. Voglio dire: se parlarne con qualcuno. Adesso però vai di là che devi lavorare. E fra poco, anch’io.»
Diego parve sul punto di aggiungere qualcosa. Poi semplicemente annuì, si girò e tornò nell’altra sala. Bevvi un lungo sorso di caffè, dicendomi che non dovevo finirlo subito: Diego avrebbe fatto un sacco di storie per darmene un altro.
Qualche minuto dopo si affacciò l’uomo che stavo aspettando. Alto, piuttosto magro, forse non di una magrezza naturale. La giacca gli andava un po’ larga: o aveva fatto una dieta energica, o era successo qualcosa di spiacevole.
«Buongiorno, la dottoressa Spada?»
«Buongiorno. Si accomodi» dissi indicando con la mano la sedia di fronte alla mia, sull’altro lato del tavolino. Si sedette con circospezione, come temendo che la sedia potesse cedere sotto il suo peso. Poi si rialzò e mi tese la mano.
«Mario Rossi» si presentò. E poi, con una battuta detta chissà quante altre volte: «È il mio vero nome, non uno pseudonimo».
Tirai fuori un sorriso di cortesia, che scomparve un attimo dopo. «Prende un caffè?»
«Ne ho già presi tre, questa mattina. Meglio non esagerare.»
«Va bene. Allora mi dica pure.»
«Credo che Filippo Zanardi le abbia preannunciato la mia visita.»
«Sì, senza dirmi il motivo.»
Lui si aggiustò con un gesto meccanico il nodo della cravatta, che in effetti era abbastanza allentato e mal fatto. Si schiarì la voce.
«Più di un anno fa mia moglie è stata assassinata.»
Esattamente un anno, un mese e tre giorni prima, sua moglie Giuliana Baldi una sera non era rientrata. Capitava abbastanza spesso che tardasse. Faceva l’istruttrice di fitness, lavorava soprattutto come personal trainer e a volte andava a casa di clienti anche sul tardi. A volte poi usciva con delle amiche ma, se tardava, avvertiva sempre.
La sera del 13 ottobre 2016 non era rientrata e nemmeno aveva detto che avrebbe fatto tardi. Il cellulare era staccato. Lui, Mario Rossi, aveva chiamato in palestra: stavano chiudendo e gli avevano detto che quel pomeriggio Giuliana non si era vista. Non c’erano corsi che teneva lei ed evidentemente non aveva nessuna lezione personale in palestra. Forse aveva lavorato a casa di qualche cliente, ma non sapevano chi potesse essere. No, non avevano un elenco dei suoi clienti personali, la palestra prendeva una percentuale su quelli che venivano ad allenarsi lì, per gli altri era un affare privato dell’allenatore o dell’allenatrice.
Quando si era fatto davvero tardi Rossi era andato in questura, aveva aspettato un bel po’ davanti all’ufficio denunce e alla fine era riuscito a parlare con un ispettore. Tutto sommato il poliziotto era stato comprensivo, aveva detto che trattandosi di persona maggiorenne non c’era molto che potessero fare, non si poteva nemmeno escludere che si fosse allontanata di sua spontanea volontà. In ogni caso avrebbe raccolto la denuncia e diramato una nota alle volanti. Poi avrebbero portato l’informativa in pro...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA DISCIPLINA DI PENELOPE
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. Copyright