Iseult si stupì di come il paesaggio potesse cambiare in un giorno.
La notte precedente c’erano abeti e sorbo rosso, erba e ortiche. All’alba i sempreverdi avevano preso il posto delle latifoglie e i ciuffi verdi avevano ceduto il passo alle carici. I sentieri erano diventati sempre più stretti, fin quando lei e Leopold erano stati costretti a lasciare indietro i cavalli.
«Tornatene a casa» disse Leopold al castrone dopo aver preso dalla sella le poche provviste rimaste. Con stupore di Iseult, Rolf parve capire davvero. Si voltò e svanì tra i pini nani, e la giumenta rubata lo seguì obbediente.
«Non è lontana casa tua?» chiese lei dando un’occhiata guardinga a Mirtillo. Il pipistrello di montagna volava alto sopra di loro e, anche se Gufetta aveva promesso loro che non si sarebbe mangiato i cavalli, Iseult non era del tutto convinta.
«Piuttosto lontana.» Leopold sorrise, e nei Fili guizzò una sfumatura maliziosa. «Te l’ho detto, è un cavallo molto ben addestrato.»
Senza le cavalcature, la loro avanzata rallentò. Gufetta non riusciva a tenere il passo e il terreno diventava sempre più ripido. A metà mattina, la neve e il ghiaccio coprivano ogni cosa: piccoli alberi, rocce di granito, vecchi bivacchi abbandonati da tempo. Il sole trasformava la ghiaia ghiacciata in pietrisco scivoloso.
Iseult cadde due volte. Leopold cadde due volte. Gufetta, invece, non cadeva mai. La piccola Strega della Terra sapeva sempre dove mettere i piedi. O, forse, ordinava alle pietre di starsene ferme, e quelle obbedivano.
Alla fine anche i sempreverdi nani scomparvero. Avevano superato la linea della vegetazione: da lì in poi dominavano roccia e neve. Iseult non aveva mai visto tanta neve in vita sua, e decise che non le andava molto a genio.
Era fredda, era bagnata e sembrava non avere mai fine.
Non era mai stata nemmeno a tali altezze. Non aveva mai saputo, e neppure immaginato, che il cielo potesse apparire così sconfinato. Così enorme, azzurro, deserto. Soprattutto quando raggiunsero la fine del sentiero, oltre il quale non c’era nulla all’infuori di un dirupo affacciato su un fiume, alcune centinaia di metri più in basso.
Con la schiena schiacciata contro la parete di granito, Iseult fissava il precipizio a dieci passi da lei. Si erano appena levate raffiche di vento che facevano rotolare la nebbia lungo la cornice di roccia come onde sulla riva del mare. Comunque, il fatto di non vedere il burrone e il vuoto in cui rischiavano di cadere rendeva l’altezza ancora più spaventosa.
Gufetta si strinse al suo fianco, con le piccole dita ficcate nel mantello della ragazza e i Fili percorsi da spirali di terrore, e, anche se sapeva di rappresentare per lei una scelta di ripiego – Mirtillo volteggiava su correnti d’aria troppo in alto perché potesse vederlo –, ciò le dava una strana sensazione. Un calore che non era proprio piacere, e di certo non amore, ma… qualcosa.
Qualcosa di bello che le fece arricciare il naso. Qualcosa di bello che la fece pensare a Aeduan, perché, a quanto pareva, anche lei come Gufetta non aveva rinunciato alla speranza.
Leopold, intanto, perlustrava il dirupo in cerca di un “traghetto aereo” che a suo dire li stava aspettando. Ogni tanto si sporgeva pericolosamente sul ciglio, al che Iseult sentiva l’impulso di vomitare, mentre Gufetta attaccava a frignare e a lamentarsi.
Dopo sei tentativi, i Fili del giovane si accesero infine di trionfo e lui scoccò a Iseult uno dei suoi sorrisi irresistibili. «L’ ho trovato. Te l’avevo detto!»
Il principe aveva tenuto fede alla parola data: dalla sera precedente non aveva più simulato alcuna emozione. E, malgrado quanto avesse dichiarato, ciò non l’aveva affatto reso inerme. Anzi, semmai era ancora più affascinante quando il suo viso si accordava con le sue sensazioni.
Ciò che Leopold aveva trovato si rivelò una lastra di pietra circolare coperta da un centinaio di ciottoli; dopo aver calciato i sassi nel canalone invaso dalla nebbia – altra cosa che diede la nausea a Iseult –, il principe cominciò a picchiettare con la punta del piede un ritmo elaborato. “Un incantesimo di chiusura” pensò lei all’inizio, finché a un certo punto il traghetto cominciò ad apparire. Un centimetro alla volta, un colpetto del piede dopo l’altro, prese forma tra la foschia.
Al manifestarsi dell’incantesimo, un timore reverenziale dilagò nella mente della ragazza. Il traghetto, che aveva la forma di un’ampia chiatta fluviale, era legato a una lunga catena arrugginita che saliva obliqua svanendo tra le nubi. Al centro del ponte aveva una puleggia dai denti d’acciaio intorno alla quale era avvolta la catena.
Leopold spalancò le braccia. «Non ti ho promesso un viaggio in tutta comodità? Questo si arrampica al posto nostro.»
Gufetta fu la prima a parlare. Diede un colpetto alla gamba di Iseult. «Morto» sussurrò indicando il traghetto. Nei suoi Fili c’erano grumi di confusione bruna.
Davanti allo stupore nei Fili di Leopold, Iseult tradusse per lui: «Dice che è morto».
«Sì, be’.» Lui sollevò una spalla. «Certo, il legno è morto. Ma non per questo non è sicuro. Vedi?» Per dimostrarlo, gettò a bordo una sacca delle provviste. Atterrò sul ponte, accanto alla carrucola, facendolo scricchiolare proprio come il legno di una nave in mare.
Il traghetto, però, quasi non si mosse.
Iseult e Gufetta comunque non si avvicinarono. Iseult non aveva interesse a staccare la schiena dalla parete della montagna, e Gufetta non aveva interesse a staccarsi da lei.
«L’ hai già usato prima?» chiese la ragazza.
«Molte volte.»
«Quante?»
Leopold lanciò la seconda sacca sul traghetto, scatenando un altro concerto di cigolii. «Quattro? Cinque, forse? Lo ammetto, non lo uso tutte le volte che vengo in visita.»
Per quel che riguardava Iseult, “cinque” non equivaleva a “molte”.
«E quante volte saresti venuto in visita?» continuò, anche se sapeva che lo stava facendo solo per guadagnare tempo.
Leopold le diede corda con un sorriso. L’ aria fresca gli giovava. Aveva le guance rosee e lucenti. «Sono stato qui più volte di quante riesca a ricordare, Iseult. Fin da quando ero un ragazzino. Il nuovo abate è il sesto figlio di un nobile cartorrano, e l’abate prima di lui era l’ottavo figlio. Capisci che uomini del genere sono utili ai principi.»
A dire il vero lei non capiva, ma immaginò che avrebbe scoperto presto che cosa intendesse Leopold. Doveva smetterla di starsene lì abbracciata a Gufetta. Doveva trovare da sola il coraggio. Prese tre bei respiri e si accucciò accanto alla bambina.
«Dobbiamo continuare» le disse nel suo tono più gentile. «So che fa paura, ma non possiamo fermarci qui.»
«Perché?» I Fili di Gufetta pulsavano di cocciutaggine rossa.
«Perché è il solo modo per arrivare al Monastero. E questo non è un buon posto per accamparci» disse indicando la nebbia e il sentiero stretto.
«Perché?»
«Perché… cosa?» Iseult arricciò il naso. Non voleva mettersi a discutere. Con Gufetta era andato tutto così bene dalla sera precedente. “Ti prego, Madre Luna, fa’ che continui così.” «Perché non possiamo accamparci qui o perché stiamo andando al Monastero?»
La piccola annuì, e Iseult immaginò che stesse rispondendo alla seconda domanda. «Perché con i monaci saremo al sicuro.»
«Non voglio.» A quel punto, prima che lei potesse fermarla, centinaia di sassolini scivolarono sul corpo della bambina, sommergendola del tutto nel giro di mezzo secondo.
Quella volta a Iseult pizzicò davvero il naso. “Devi restare immobile” si disse, anche se le bruciavano le punte delle dita.
«Mi piace qui» osservò Gufetta. Nel mucchio di sassi era comparsa una boccuccia. «Perciò resto qui.»
“Ah” pensò lei, e di colpo la sua esasperazione si dileguò. Aveva già udito quelle parole. Aveva già pronunciato quelle parole, dieci anni prima. “Mi piace qui. Perciò resto qui.” Sua madre aveva cercato di farla scendere da un albero nell’insediamento di Midenzi. L’ albero dove Iseult cercava sempre rifugio quando gli altri bambini ce l’avevano con lei.
Quel giorno, in particolare, si era rifiutata di scendere quando Gretchya l’aveva chiamata, così sua madre aveva detto seccamente: “Bene” e se n’era andata. Iseult si era sentita il cuore sotto i piedi, il corpo svuotato. Avrebbe voluto che sua madre si mettesse a discutere con lei. Avrebbe voluto che le chiedesse che cosa ci faceva nascosta dentro un tronco di quercia.
Ma Gretchya non gliel’aveva chiesto, né quel giorno né mai.
Iseult non avrebbe commesso il medesimo errore.
Rivolse un sorriso stiracchiato alle pietre. «Perché non vuoi andare?»
«Morto» rispose Gufetta.
«Sì, ma ci sono tante cose morte. La locanda dove ci siamo fermati era morta. Il cuoio della sella su cui stavi seduta era morto. Non vuol dire che non sia sicuro.»
La confusione nei Fili della piccola crebbe. Poi il suo visino si accigliò di nuovo.
«Solo così possiamo raggiungere il Monastero, Gufetta. Dobbiamo prendere il traghetto.»
«Potresti dire ai sassi di portarti.» Un tremito scosse la terra, facendo trasalire Iseult e cadere le pietre dal dirupo.
I Fili di Leopold lampeggiarono di preoccupazione.
Lei, però, mantenne il corpo fermo e il viso impassibile. «Io non possiedo la tua magia, Gufetta. Ricordi? E nemmeno il principe. Non possiamo chiedere alle rocce di portarci. Dobbiamo prendere il traghetto. Sai, scommetto che c’è salito anche Aeduan.»
Fu l’argomento giusto. Un bagliore di curiosità verde guizzò nei Fili della bambina. «Lo troveremo là?»
Iseult si grattò il naso. Non voleva mentirle, ma temeva ciò che sarebbe potuto accadere se le avesse detto di no. «Forse» rispose in tono indifferente, e si disse che poteva davvero essere così. Forse sarebbe arrivato lassù anche lui. Prima o poi.
Il verde si acuì, a segnalare l’accrescersi dell’interesse di Gufetta. Da un momento all’altro sarebbe uscita dal suo nascondiglio.
Iseult dunque osservò con distacco il traghetto, dove il principe, a onor del vero, era già salito e se ne stava appoggiato al parapetto a esaminarsi le unghie. Il perfetto ritratto dell’eroe impavido. “Vedete?” diceva il suo corpo. “È facile. Non c’è da aver paura.”
I suoi Fili, però, erano dello stesso colore di quelli della bambina: interesse verde brillante e una pennellata di ansia color crema.
«Aeduan è cresciuto in quel Monastero» proseguì Iseult. «Non vuoi vedere com’è fatto? Io sì.»
A quelle parole i sassi rotolarono via e Gufetta apparve. La piccola tremava ancora, però, e la ghiaia continuava a sussultare. Impercettibilmente, come spostata dal vento, ma, se una volta arrivati al Monastero avesse deciso di far rimbalzare i ciottoli, o addirittura dei macigni…
«Gufetta» le disse Iseult in tono più autoritario, «al Monastero dovrai smettere di usare la tua magia. Proprio come ti ha raccomandato Aeduan prima di entrare a Tirla, dovrai tenerla nascosta.»
Per una volta la bambina non chiese: “Perché?”, ma la domanda si coglieva benissimo nei suoi occhioni spaventati.
«La magia si può sempre rubare» le spiegò Iseult. «Là fuori ci sono Stregoni delle Maledizioni capaci di togliere a una persona i...