
- 816 pagine
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
E ATTRAVERSAMMO LA CAVERNA DEI RATTI.
E ATTRAVERSAMMO IL SENTIERO DEL VAPORE BOLLENTE.
E ATTRAVERSAMMO IL PAESE DEI CIECHI.
E ATTRAVERSAMMO L'ABISSO DELL'AVVILIMENTO.
E ATTRAVERSAMMO LA VALLE DI LACRIME.
E GIUNGEMMO, FINALMENTE, ALLE CAVERNE DEL GHIACCIO.
Da Non ho bocca, e devo urlare a Soldato, da «Pentiti, Arlecchino!» disse il Tictacchiere a Un ragazzo e il suo cane, il meglio della produzione di un autore leggendario distillato in sessantasei racconti che hanno fatto la storia della fantascienza.
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Informazioni
Print ISBN
9788804725442eBook ISBN
9788835708100TUTTE LE MENZOGNE CHE SONO LA MIA VITA
Jimmy Crowstairs è stato sepolto oggi.
Il mio più intimo, più vecchio, migliore amico: il celebre fantasista, Kercher Oliver James Crowstairs.
Lo hanno messo nella fossa rettangolare stamattina, e io ero una delle dodici persone al di qua delle corde imbottite di lussuoso velluto nero. A parte me, tra i pochi eletti, c’erano: un ex presidente degli Stati Uniti, per il quale io non avevo votato; due attrici, una delle quali, sebbene trentenne, e a dispetto della sua bravura come attrice seria, continua a essere scelta per interpretare ruoli da pollastrella sotto i vent’anni, soprattutto in virtù delle sue guance paffute e di due tette che – perdonatemi il pragmatismo – sono appena più piccole della Bosnia e dell’Erzegovina; l’altra non la conoscevo, ma mi ha fatto buona impressione quando, mentre risalivamo la collina dalle limousine fino alla tomba, ha allontanato con grazia un manipolo di avvoltoi a caccia del suo autografo; l’editore di Jimmy, la cui fama deriva principalmente dall’aver rifiutato il primo romanzo di Jerzy Kosinski, che aveva giudicato morboso e deprimente, e dalla sua ininterrotta partecipazione, in qualità di membro della giuria, a un quiz televisivo giunto ormai al settimo anno di programmazione; la sorella di Jimmy, maggiore di lui di otto anni, con la quale non parlava da vent’anni e che chiamava SylviaLaBagascia, tutto attaccato; un romanziere inglese, grande, grosso e peloso come un orso; un regista francese, vestito in maniera così elegante da far sembrare tutti gli altri dei poveracci in fila per il pane; un fisico del plasma dell’Università di Princeton, candidato al Nobel di quest’anno per un’importante scoperta sulla fusione a confinamento magnetico; e, infine, due coppie sposate che Jimmy considerava amici intimi, specialmente perché gli avevano dimostrato, come esempi viventi, che l’Uomo e la Donna possono vivere attaccati sotto lo stesso tetto, vincolati dal Contratto (come lo chiamava sempre), senza sventrarsi emotivamente a vicenda. Quanti eravamo? Contando anche me, tredici. Be’, d’accordo, tredici e non dodici. Comunque, anche così eravamo un gruppetto selezionato di dolenti.
Separati mediante le corde imbottite di lussuoso velluto nero dall’immensa calca dei suoi ammiratori e dalle groupie indolenti degli illustri, i quasi-illustri, i famosi e gli emisemifamosi.
La storia ci racconta che, quando Victor Hugo morì il 22 maggio del 1885, oltre due milioni di parigini seguirono il carro funebre dei poveri da lui richiesto dall’Arco di Trionfo al Pantheon, dove fu sepolto.
Il seguito di Jimmy non era così numeroso; ma per essere un autore contemporaneo, in una nazione dove l’analfabetismo è andato oltre la semplice totemizzazione, sconfinando ampiamente nella divinizzazione… la cerimonia è stata più che soddisfacente. Forse, due o tremila persone. Niente affatto male, per uno che si ostinavano a definire “scrittore di fantascienza”.
Noterete che io non uso mai quell’orrendo neologismo.
Jimmy ha passato gli ultimi venticinque anni della sua vita cercando di affrancare i suoi libri e le biografie che hanno scritto su di lui da quella brutta definizione. Scriveva fantasy, se proprio si avverte il bisogno di etichettarlo; ma lui insisteva affinché lo si chiamasse semplicemente “scrittore”. Non gradiva nemmeno essere definito “autore”. Una volta, mi spiegò la differenza tra un autore e uno scrittore per come la vedeva lui: «Autore» disse «è la professione che uno scrive sul passaporto, perché in Europa pensano che scrittore equivalga a giornalista. Un autore è uno il cui nome sta scritto sui dorsi di volumi rilegati in pelle che nessuno legge mai; uno scrittore, invece, è una persona che si fa venire le emorroidi a furia di star seduta sulle chiappe tutta la vita… a scrivere».
In ogni caso, in qualunque modo lo chiamassero, è riuscito, attraverso il duro lavoro e l’attenta manipolazione della sua immagine pubblica, a diventare tre cose, ciascuna delle quali esclude quasi sempre le altre: un romanziere di successo incredibilmente ricco, un artista serio preso sul serio da tutti i critici “seri”, e una leggenda del suo tempo. Un nome conosciutissimo, al pari di Salk o Babe Ruth o Hemingway… o Nixon o Jack lo Squartatore o Hitler.
E questa mattina l’hanno calato nell’oscurità, e il rabbino ashkenazita, monsignor McCalla, il dottor Ehlen, Carl Sagan e il sottoscritto hanno letto parole meravigliose sulle sue spoglie. Le mie sono state le migliori.
Naturalmente; io lo conoscevo meglio di tutti. E come Jimmy diceva spesso a chi lo intervistava, con quella sua umile magnanimità che lo ha reso tanto benvoluto alle riviste «People», «Paris Review» e «National Enquirer»: «Larry Bedloe è uno scrittore davvero valido; c’è un talento non indifferente nel suo lavoro».
Queste sue parole mi sono tornate alla mente mentre me ne stavo là, a guardarli abbassare la bara di alluminio anodizzato color canna di fucile. Direttamente davanti a me, dall’altra parte delle corde imbottite di lussuoso velluto nero, c’era una donnina grassoccia con indosso il classico abito scuro e una collana di perle. Il suo viso era gonfio di pianto. Teneva stretto al petto il cofanetto della sua trilogia Radimore, edito dalla Literary Guild. Le possibilità che riuscisse a farselo autografare erano assai scarse.
Kerch, come lo chiamavano tutti a parte me e la sua ex moglie Leslie, era già avviato al successo quando lo conobbi. Entrambi eravamo appena ventenni, io avevo solo sei mesi più di lui – cosa che lo autorizzava a chiamarmi “vecchio” per metà dell’anno, e autorizzava me ad ammonirlo di parlare con rispetto alle persone più anziane – ed entrambi eravamo amanti della fantascienza.
Ogni circolo ristretto ha il suo alone di mistero, la sua follia. I massoni hanno strette di mano segrete; i musicisti jazz usano un gergo speciale, incomprensibile per i tradizionalisti; solo nell’industria cinematografica si ride per la barzelletta dell’attrice polacca… che andò a letto con lo scrittore; i librai antiquari condividono arcani rituali di compravendita che li accomunano in termini di verso, recto, fioriture, margini interni e autentiche prime edizioni.
Le folli tradizioni legate ai “fandom” della fantascienza sono irresistibilmente allettanti, in particolare per quei pochi ragazzi e quelle poche ragazze che vengono emarginati alle scuole superiori a causa dei loro processi mentali instabili, della loro inclinazione per il bizzarro e dell’aspetto fisico che nega loro i privilegi dell’appartenenza alle sorellanze, o un ruolo nella squadra di football. Per i brufolosi, i bassi di statura, gli strani e gli intelligenti… per coloro che sono spaventati dal sesso e visitati da bizzarri sogni nel bel mezzo dell’ora di studio individuale, lo spirito di squadra del fandom è una luminosa, seducente Erewhon; una famiglia allargata di altri rammolliti, fighette, svitati e stramboidi.
Non ci eravamo mai incontrati, sebbene avessimo intrattenuto una fitta corrispondenza per diversi anni. Il fulcro della nostra nascente amicizia fu il vortice delle pubblicazioni per appassionati: le fanzine. Riviste amatoriali stampate a ciclostile, contenenti opinioni su scrittori e opere di genere, più una spolverata di noiosissima fanfiction. La fanzine di Kerch si chiamava, con opportuna modestia, «La Più Grande Fanzine di Fantascienza del Mondo, Venere Incluso»; la mia si chiamava «Visitazioni».
Ma fu in occasione della decima World Science Fiction Convention annuale (ribattezzata ChiCon II), tenutasi a Chicago nel 1952, che ci incontrammo di persona.
Io stavo percorrendo l’atrio dell’hotel Morrison. Poiché ero a corto di fondi, avevo programmato di alloggiare in una suite a due stanze insieme a cinque o sei altri appassionati provenienti da varie parti del paese; stavo cercando il tizio che aveva prenotato le camere a suo nome, affinché potessi prendere la chiave e lasciare la valigia in stanza.
L’atrio era pieno zeppo di fan che facevano il check-in, rinnovavano vecchie conoscenze, chiedevano informazioni gridando in mezzo a vasi di piante, spingevano carrelli con scatoloni di libri usati da portare nella stanza dei rivenditori, organizzavano cene a base di cheeseburger per quella sera. E nel bel mezzo di quel torrente ciclico di ammiratori sudati, venuti in macchina o in aereo o in autostop o a piedi da Minneapolis, Kansas City e Cleveland, Jake Repnich riuscì a scovarmi.
Sentii una mano afferrarmi il retro della camicia mentre cercavo di farmi strada a gomitate attraverso un gruppetto di ragazzini che stavano mettendo insieme i propri bagagli per arrivare agli ascensori (così da risparmiare i soldi della mancia del facchino), e vacillai all’indietro non appena mi sentii tirare. Poi, qualcuno mi assestò un pugno sul rene.
Pencolai in avanti, ma non potei cadere perché il retro della mia camicia stava ancora stretto nel pugno sconosciuto, così i miei piedi slittarono e io piombai a terra in ginocchio. Cercai di guardarmi alle spalle; provavo un tale squisito dolore che non riuscivo neanche a voltare la testa sul collo. Ogni cosa parve sul punto di sprofondare. E dalle espressioni sui visi della folla attorno a me capii che stava per accadere qualcosa di terribile, e che proprio io sarei stato il destinatario di tale innominabile orrore.
Qualcuno mi piantò un piede tra le scapole, la mano mollò la mia camicia e io venni spinto con violenza sulla mia valigia, la quale scivolò per qualche metro e mi trasportò come se fossi su una zattera.
Caddi dal bagaglio, rotolai su me stesso e cercai di mettermi a sedere.
Conquista, Guerra, Carestia e Morte mi fissavano dall’alto.
La coraggiosa e amorevole famiglia allargata si era fatta da parte per lasciare libero uno spazio circolare nel quale io potessi opportunamente essere pestato a sangue. Erewhon era stata invasa.
Il più truce dei Quattro Cavalieri – che io riconobbi all’istante come Morte – si piegò su di me, offrendomi una deliziosa veduta della sua acne all’ultimo stadio, e (nel gergo delle riviste pulp del periodo) borbottò a bassa voce: «Sono Jake Repnich, piccolo figlio di puttana. Vuoi tirarmi le orecchie?».
Tutto divenne tremendamente chiaro. Sei mesi prima, tra le tante fanzine che mi arrivavano via posta in cambio di «Visitazioni», avevo ricevuto una rivistaccia mal poligrafata, chiamata «Uranium-263». Era “diretta” – ammesso che per direzione editoriale si intenda un amalgama di semianalfabetismo, sintassi plurimonca e tirate da studente del secondo anno contro ogni scrittore che aspiri a descrivere qualcosa di più pregevole delle sparatorie spaziali – da un certo Jake Repnich. Proveniva da Secaucus, New Jersey. Serve aggiungere altro?
Vestendo i panni della voce della ragione, avevo gettato ogni prudenza ai Quattro Cavalieri (senza saperlo) e risposto a un articolo particolarmente stupido in cui Repnich affermava che H.P. Lovecraft fosse uno scrittore migliore di Poe; nel mio pezzo, dichiaravo che il buon vecchio Jake aveva la stessa competenza letteraria di un tombino, e che qualcuno avrebbe dovuto tirargli le orecchie. Perché sculacciargli il sederino non sarebbe bastato per punire i crimini intellettuali di un minorato mentale come il buon vecchio Jake, altrimenti conosciuto come Morte.
Adesso Jake e tre dei suoi amichetti, che di certo passavano il tempo libero a tormentare i gattini e a prendersela con gli storpi, erano giunti fino a Chicago da Secaucus, New Jersey, per fare molto di peggio che tirare le orecchie di Larry Bedloe.
Avevano ancora addosso il puzzo delle paludi del Jersey.
E io, allora, non avevo vissuto una vita abbastanza lunga da vedermela scorrere davanti agli occhi.
Con tre storie pubblicate, senza aver mai avuto la possibilità di raggiungere l’immortalità, con il National Book Award, il Best of the Year di Martha Foley e le intime conversazioni con Styron, Mailer, Hemingway e Steinbeck giusto alla mia portata, stavo per diventare un problema per gli addetti alla pulizia della moquette dell’hotel Morrison. Quelle ironie!
All’improvviso, il sangue cominciò a zampillare dal naso di Jake Repnich, il quale roteò su se stesso e crollò in un orrendo gomitolo umano contro il bancone della reception.
A circa mezzo metro dietro il punto dov’era fino a un attimo prima, stava ora una farneticante, allucinata apparizione, in parte pipistrello vampiro, in parte follia sbavante, in parte Furia vendicatrice. La ventiquattrore che aveva usato per rompere il naso a Morte gli penzolava da una manina da folletto. L’altra mano la teneva stretta a pugno e sembrava aspettasse solo l’occasione per colpire.
Con i piedi ben piantati a terr...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione
- VISIONI
- Gli Svitati
- Stazione di soccorso
- La luna maledetta
- Richiesto in sala chirurgica
- Il cielo brucia
- Il mondo di Walkaway
- Mio fratello Paulie
- Amico dell’uomo
- Il Tempo dell’Occhio
- Dolorama
- Gli scarti
- «Pentiti, Arlecchino!» disse il Tictacchiere
- Battaglia senza bandiere
- La voce nel giardino
- Lo faresti per un penny?
- L’ombra in caccia nella Città sull’orlo del mondo
- «Noi piangiamo per tutti…»
- Non ho bocca, e devo urlare
- Soldato
- Frammenti di un folletto di vetro
- Il morso della seggiola
- La bestia che gridava amore al cuore del mondo
- Mondi da uccidere
- Prova con un coltello smussato
- Fenice
- Un obolo, dagli occhi del morto
- Un ragazzo e il suo cane
- La regione intermedia
- Runesmith
- Gli operatori umani
- Il basilisco
- 480 secondi, o la città condannata
- Il guaito dei cani battuti
- L’amica fredda
- L’Uccello di Morte
- Alla deriva appena al largo delle isolette di Langerhans: latitudine 38°54’N longitudine 77°00’13’’O
- Il Gatto
- Croatoan
- Spaccabato
- Il vino è rimasto aperto troppo a lungo e il ricordo si è sgasato
- Bottegaio
- Jeffty ha cinque anni
- L’altro occhio di Polifemo
- Com’è la vita notturna su Sissalda?
- Vivo e vegeto in un viaggio solitario
- Conta le ore che segnano il tempo
- Django
- Il boia dei bambini malformati
- L’uomo ossessionato dalla vendetta
- Oppio
- Nel quarto anno di guerra
- Sudore da flop
- Tutti gli uccelli tornano a posarsi al nido
- Passi
- Tutte le menzogne che sono la mia vita
- Il grande uomo
- L’uomo che mise in banca i ricordi più brutti
- Con Virgil Oddum al Polo Est
- Il paladino dell’ora perduta
- La scimmia soffice
- Il vendicatore della Morte
- Susan
- Dura da scontare
- Quattro chiacchiere con Anubi
- Acqua passata
- Ma guarda, un uomo in miniatura
- Harlan Ellison, il visionario della scrittura. di Sandro Pergameno
- Bibliografia italiana di Harlan Ellison. di Andrea Vaccaro
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