La donna orso
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La donna orso

  1. 264 pagine
  2. Italian
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La donna orso

Informazioni su questo libro

Il 16 aprile 1542, una giovane nobildonna francese di nome Marguerite de la Rocque si imbarca assieme al suo tutore Jean-François Roberval su una delle prime spedizioni coloniali nel Nuovo Mondo. A causa di uno scandalo sessuale a bordo della nave, viene abbandonata per punizione insieme al suo amante e a una domestica su un'isola desolata e deserta al largo della costa canadese. Marguerite è incinta e si trova all'improvviso in balia di animali selvaggi e di una natura inclemente.

Incredibilmente, contro ogni previsione, a costo di prove durissime, Marguerite riuscirà a sopravvivere a questa esperienza terribile.

Secoli dopo, un'autrice contemporanea - madre di tre bambini, a sua volta alle prese con un inverno rigidissimo e un clima culturale ancor più gelido - si imbatte in alcuni testi che raccontano questa storia. In breve, la "donna orso" diventa per lei un'ossessione e, a poco a poco, la sua vita finisce per intrecciarsi con quella di Marguerite.

Karolina Ramqvist ha saputo creare un delicato equilibrio tra saggistico, autobiografico e immaginario, dando vita a un romanzo storico che non è come gli altri romanzi storici, e nel quale la protagonista centrale è l'autrice stessa e il suo rapporto appassionato con l'inafferrabile e straordinaria Marguerite de la Rocque.

La donna orso non è solo una storia di sopravvivenza, ma anche una potente meditazione sulla femminilità e sull'atto di scrivere che trascende i secoli, una narrazione affascinante e complessa sulla vita, la morte, il corpo, l'anima, la femminilità, il potere, il denaro, il passato e il presente, la genitorialità, la verità, le bugie e il modo in cui la scrittura si lega al racconto della verità.

Un romanzo sorprendente che prende le mosse dalla morte e dall'oscurità, ma che in realtà finisce per raccontarci la vita nei suoi momenti più brucianti.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
Print ISBN
9788804726715
eBook ISBN
9788835707844

La donna orso

«A sentirvi parlare» disse Simontault «sembra che gli uomini traggano piacere a udir parlare male delle donne; e sono sicuro che voi mi riteniate tra quelli. Perciò io provo una gran voglia di parlar bene d’una donna, al fine di non essere preso da tutti per un maldicente.»
«Vi cedo il mio posto» disse Ennasuitte «pregandovi di forzare la vostra natura, per fare il vostro dovere in nostro onore.»
Allora Simontault cominciò: «Non è una novità, mie signore, sentire da voi di qualche atto virtuoso; e se ne capita qualcuno, non mi sembra debba esser celato, ma piuttosto scritto in lettere d’oro, affinché serva d’esempio alle donne e d’ammirazione agli uomini, i quali vedono nel sesso debole ciò che la debolezza rifiuta. È per me l’occasione di raccontare ciò che ho sentito dire…».
MARGHERITA DI NAVARRA
LA SESSANTASEIESIMA NOVELLA
, Heptaméron
Ora mi rendo conto che questa storia non ha né un inizio né una fine. Scrivo che inizia con la morte perché è l’unica cosa di cui sono certa. Il padre muore e lei rimane sola.
È tutto ciò che so.
I primi tempi, quando pensavo a lei immaginavo un disegno. Non sapevo ancora che ce ne fosse davvero uno che la ritraeva sull’isola. Quello che vedevo dentro di me era diverso, tratteggiato con noncuranza a penna nera su un pezzo di carta stropicciato. Mi si presentava insieme al pensiero di lei: l’isola era un piccolo cerchio deformato e una linea curva segnava il confine fra la terra e l’acqua che la circondava.
Probabilmente dipendeva dalla natura straordinaria dell’intera storia, o magari dal modo in cui l’avevo interpretata io la prima volta che ne avevo sentito parlare. Fu un’amica a raccontarmela, molto brevemente. Forse c’era anche qualcun altro, ma non me lo ricordo. È stato tanto tempo fa. Se alzo gli occhi dal computer, giro la testa e guardo i miei figli che dormono in camera loro mentre io sono qui che scrivo, i loro volti e i loro corpi mi ricordano quanti anni sono passati. Me ne rendo conto ogni giorno dalle parole che usano, dai loro giochi e dai movimenti delle dita sugli schermi, dal fatto che adesso quando hanno bisogno di qualcosa invece di urlare vengono da me.
Comunque, la mia amica aveva trovato la storia in un libro che possedeva da tempo, un’antologia sulle donne superstiti di tutti i tempi. Eravamo in un bar dove andavamo spesso, lei lo tirò fuori dalla sua borsa strapiena e me lo mostrò. Non ricordo se all’esterno fosse chiaro o buio, e non ricordo cosa dissi o cosa pensai in quel momento. La mia memoria non è affidabile, e penso che neanche quella degli altri lo sia. Ricordiamo ciò che vogliamo, nel modo in cui lo vogliamo, e il resto ci permettiamo di dimenticarlo. Dimentichiamo le persone che non significano niente per noi, dimentichiamo cose che abbiamo fatto o detto e che altri ricorderanno per sempre, e dimentichiamo ciò che altri hanno fatto o detto a noi.
Ricordo la mia amica che parlava di Marguerite de la Rocque, anche se non credo la chiamasse per nome, e il nome che le diedi io mi venne in mente solo più tardi, tornando a casa in mezzo alla neve. Ricordo che guardavo il tavolo tra noi, le tazze, i bicchieri e i telefoni che ci avevamo appoggiato sopra. A pensarci adesso può darsi che una di noi avesse preso un pezzo di carta e una penna e avesse disegnato l’isola e la sua posizione geografica sulla terra – o forse quel disegno non è mai esistito. Potrei aver creato il ricordo a posteriori. Forse era lì sul tavolo, forse no, ma per molto tempo vidi quel disegno quando mi capitava di pensare a Marguerite, prima che la mia immagine interiore si trasformasse in una sorta di rappresentazione della realtà come l’avevo in mente in quel momento, prima di iniziare tutto questo: l’isola e ciò che la circondava, l’enorme estuario che già all’epoca, come oggi, era considerato il più grande del mondo. E intorno il mare, i blocchi di terra, i ghiacci e tutte le altre isole e isolotti che si congelavano insieme durante l’inverno, quando non c’era anima viva per molte migliaia di chilometri. Infinite distese bianche, deserte e vuote com’era tutta quella parte di mondo, dal Messico all’Alaska. Un vastissimo continente disabitato che si estendeva per migliaia di chilometri da nord a sud e da est a ovest, occupato da una sola persona.
O almeno così è stato descritto.
Più tardi, dopo quell’incontro, mi ritrovai sotto la neve sulle strisce pedonali della nostra via, in mezzo al rombo del traffico, con il voluminoso passeggino gemellare davanti a me simile a una grande nave nera di plastica e nylon. Nevicava ma non era ancora arrivato il vero freddo invernale; quel giorno la temperatura non era scesa molto sotto lo zero, eppure gelavo come se il freddo venisse dall’interno, come se la mia stessa carne fosse congelata. Avevo cominciato a notare che non avevo più alcuna difesa contro il freddo e l’oscurità che ogni autunno si depositavano sulla nostra parte di Nord Europa, e lì restavano per tutto l’inverno fino a primavera.
Mio figlio aveva poco più di un anno e sua sorella, accanto a lui nel passeggino, pochi mesi. La bambina più grande aveva appena iniziato la scuola. Io avevo trentacinque anni. In un certo senso avere tre figli era stata una sorpresa. Mi chiedevano spesso come ci si sentiva e com’era averne due così vicini e io rispondevo sempre che era facile. Lo dicevo perché la vivevo davvero così, forse era l’amore che provavo per i miei bambini a rendermi incapace di vedere la mia realtà per quella che era. Ma so che dentro di me albergavano il desiderio che fosse facile e l’idea che dovesse esserlo, non potevo oscurare ciò che era luminoso: generare una nuova vita, l’esistenza di un’altra persona.
Freddo e oscurità si erano trincerati dentro di me e si rinforzavano a vicenda. Faceva freddo anche in casa, perché il riscaldamento del palazzo non riusciva a sopperire al calo della temperatura, e il gelo costante unito alla mancanza di luce mi stancava: ero sempre esausta, anche senza aver fatto un granché. Giravo per casa con pesanti pantofole di montone e in ogni zona dell’appartamento in cui mi sedevo per leggere, scrivere o allattare la piccola c’erano delle coperte in cui avvolgermi; quando uscivo indossavo biancheria di lana sotto i vestiti e un orribile piumino, acquistato online a poco prezzo, che mi arrivava fino ai piedi. Nonostante ciò non mi sentivo al caldo.
Avevo scoperto che dipendeva dal sistema endocrino, da una ghiandola che influisce sul metabolismo e su una miriade di altri processi, che quando non funziona correttamente può dare più o meno qualsiasi sintomo. Il medico di base aveva detto che era un problema benigno e molto comune tra le donne della mia età che lavoravano e avevano figli. Era normale che peggiorasse dopo gravidanze multiple, parti difficili o ravvicinati, o quando c’erano diversi bambini in famiglia, e il problema veniva ulteriormente acuito da traumi e stress, ma l’unica cosa che si poteva fare era prendere il farmaco prescritto e cercare di ridurre al minimo le tensioni fisiche e mentali.
Non avevo idea di come ciò potesse accadere.
Dai loro sacchi-passeggino imbottiti i bambini fissavano in silenzio l’oscurità del cielo pomeridiano. Era talmente profondo e irraggiungibile da farmi pensare allo spazio – lassù, da qualche parte –, e mentre aspettavo che scattasse il verde anch’io avevo alzato gli occhi, per capire cosa vedessero dal passeggino e perché mai fosse piacevole immaginare uno scorcio di infinito non poi così lontano.
Il semaforo diventò verde. Mi sarebbe bastato attraversare la strada per arrivare a casa, ma non ce la facevo. Non riuscivo a fare neanche un passo con il passeggino doppio in quella fanghiglia. All’angolo accanto al portone c’era l’ingresso del deposito per le biciclette, dove secondo le norme antincendio bisognava lasciare anche i passeggini: era una porta di ferro quasi completamente coperta da graffiti, e quando la vidi sentii il suo peso contro di me. Mi immaginai nel tentativo di aprirla e bloccarla per far scivolare il passeggino in quel corridoio, così stretto che se fosse arrivato qualcuno dalla parte opposta sarei dovuta retrocedere. Poi avrei slacciato le cinghie e sollevato i miei figli per poter riporre il passeggino nell’apposita stanza costruita di recente. Nel palazzo c’erano molti bambini piccoli perché un sacco di coppie sulla trentina compravano casa, si trasferivano e per prima cosa facevano un figlio. Anche per noi era stato così.
La gente attraversava l’incrocio. Bici, passeggini, cani. Io rimasi ferma immaginando il rientro a casa. Mi sarei seduta sullo sgabello in cucina ad allattare pensando che avrei fatto meglio a mettermi più comoda, per non avere dolori, senza però riuscire a cambiare posizione o spostarmi, e mio marito sarebbe tornato dal lavoro o dal pub irlandese del nostro quartiere, che esisteva da quando ne avevo memoria ma ora non c’è più. Avremmo cambiato i bambini, gli avremmo fatto il bagno nella vaschetta che teniamo nella doccia e avremmo cercato di preparare la cena e magari di mettere un po’ a posto la casa, poi avremmo letto o guardato la TV e la giornata sarebbe finita, sarebbe arrivata la notte e poi un altro giorno, sarei dovuta uscire di nuovo e tutto sarebbe continuato così, perché anche dopo quel giorno ce ne sarebbe stato un altro, e un altro ancora, pieno delle stesse cose.
Rimasi dov’ero a guardare la gente muoversi. Staccai la mano dal manubrio del passeggino per prendere il cellulare dalla tasca e composi il numero di mio marito. Rispose subito, gli chiesi dove fosse e aspettai che arrivasse , poi attraversammo insieme ed entrammo in casa.
Da quel giorno non feci che pensare a lei. Quel periodo ora mi si presenta quasi come uno spazio limitato nel tempo, i primi anni con mio marito e tre figli e il modo in cui lei è entrata nella mia vita. Non dipendeva tanto dai pensieri che avevo, che non erano particolarmente sviluppati per come li ricordo, quanto dall’immagine di lei che mi ero fatta. La sentivo così vicina, come se fossimo nella stessa stanza o come se lì dentro si materializzasse il posto lontano in cui aveva vissuto; il suo corpo con indosso la pelle d’orso e il logoro vestito a dolcevita, oppure nudo – con le ecchimosi in bella vista – livido, sporco e arrossato, pallido contro l’oscurità intorno a lei, il suolo, la collinetta e la terra.
All’interno della grotta la debole luce del giorno non la raggiunge. Secondo me non voleva si sapesse nulla della grotta, che lei stesse “vivendo col corpo una vita selvaggia”, ma io scrivo che lei è lì dentro. Ora la vedo là nel buio, oppure nell’immensità del tempo e della nostra storia, il nulla da cui lei emerge solo per poi farvisi inghiottire nuovamente.
André Thevet la nomina per la prima volta nella ventitreesima parte di La Cosmographie Universelle del 1575. Pagina 1019. Solo un nome, Marguerite. A parte questo non ci sono molte informazioni su di lei. Thevet non scrive quando o dove sia nata né chi siano i suoi genitori, anche se è molto probabile che lo sapesse, dato che pur essendo una donna era comunque di discendenza nobile, e dove sia finita dopo ciò che le è successo si evince solo dal fatto che lui nomini il villaggio in cui l’ha incontrata alla fine di tutto:
Nautron, nel Périgord, dove a quel tempo mi trovai con lei, che mi raccontò ampiamente delle sue disavventure e delle sue fortune passate.
È la traduzione di Elizabeth Boyer. Thevet scrive “Nautron”, ma secondo la Boyer in Francia non è mai esistito un villaggio con questo nome. Come molti altri storici, ha tratto la conclusione che si tratti di Nontron e che Thevet lo abbia scritto male, ma a ripensarci mi chiedo se non l’abbia fatto apposta per nascondere al lettore il nome della località.
Nessuna delle fonti svela granché della sua vita prima o dopo questi eventi. È come se fosse esistita soltanto nei loro resoconti, che pensavo avessero scritto principalmente non per interesse nei suoi confronti, ma per il racconto in sé, per il suo valore scientifico e letterario e la possibilità di un tornaconto personale. Almeno all’inizio l’avevo intesa così.
Dicevano tutti che era una storia fantastica, e sentirlo ripetere mi metteva sempre a disagio. Credo che per molti aspetti mi rendesse insicura. Mi interrogavo sulle mie motivazioni, su quale aspetto di questa vicenda attraesse davvero una come me, che non è mai stata particolarmente interessata alle storie fantastiche ed era così stanca della narrativa. Ero ancora stanca della narrativa. La detestavo per ciò che sembrava fare al mondo, perché pareva che le storie fossero tutto mentre la verità e il silenzio non erano più niente.
Forse non c’è niente di nuovo. Forse le persone si sono sempre sentite così. Ora che lo sto scrivendo mi è ancora più chiaro che la finzione – o una sorta di simulazione romanzata – influenza i nostri pensieri e le nostre percezioni e mette in moto il corso degli eventi. Se quando ero una giovane scrittrice qualcuno mi avesse spiegato che sarebbe andata così, probabilmente avrei pensato che mi ci sarei trovata bene, ma non è vero. Ho solo paura. È come essere testimone dell’imperversare di una tempesta ostinata, la violenza della narrativa che distrugge e porta via tutto ciò che trova sulla sua strada. Quello che era il mio mondo è svanito pezzo dopo pezzo, sostituito da una nuova realtà che a tratti mi è incomprensibile, nella quale non riesco più a essere sicura che sia ancora valido ciò di cui credevo di potermi fidare fino a ieri.
Ho una foto della torre di Roberval come sfondo del computer. Non è di quelle scattate quando abbiamo visitato il borgo l’estate scorsa, ma presa da internet, e mostra il luogo in autunno con le foglie dei grandi alberi arancione acceso e marrone spento. Spogli rami neri puntano come spessi tratti di penna verso il cielo bianco e il prato è visibile solo a macchie, il verde prima intenso ora è sbiadito e opaco. Sulla foto, sparsi qua e là, compaiono i miei documenti Word, la maggior parte dei quali contiene solo qualche frase, un appunto o uno dei miei tentativi di cominciare qualcosa di nuovo.
Qualcosa di diverso da questo.
Non ho quasi mai guardato le foto del castello nell’ultimo anno, dal pomeriggio passato lì, ma sono in possesso di un piccolo oggetto che me lo ricorda. Si tratta di un pacchetto di foglie che si sono seccate insieme, non più grande del mio palmo, fragili e bucherellate per tutte le volte che le ho tenute in mano e le ho guardate quando sentivo di aver bisogno di una pausa da questo lavoro. (Ho imparato che fare una pausa aiuta.) Solo le sottili nervature sono intatte e racchiudono ancora il contenuto che ormai non è quasi più protetto. Ho cercato di lavorare su questo mio resoconto ogni giorno d’autunno e per tutto il lungo periodo di buio che è appena passato. Nonostante non ci riuscissi, ho perseverato. Vedo con chiarezza la mia incapacità rileggendo ciò che ho scritto, compreso tutto ciò che mi sono resa conto debba essere messo per iscritto e venire fuori, accanto al resto.
È stato davvero insolito per me non avere la scrittura. Era lì ma non potevo usarla, non era più a mia disposizione. Non appena mi imbattevo in una resistenza, ovvero di continuo, perché questo è scrivere, almeno per me, la mia attenzione si disperdeva, i pensieri scivolavano via e sparivano. Mi allontanavo dal tema; la mia coscienza mi trascinava dal punto del testo in cui dovevo stare verso qualcosa di più leggero e piacevole, come l’ultima mattina prima di lasciare Parigi o il ricordo di quella che ero quando avevo ancora un certo ottimismo.
Certi giorni, per condurre le mie ricerche mettevo il computer su un vecchio scrittoio che prima si trovava in camera nostra e che avevo spostato nell’ingresso quando le ore di luce erano diminuite e l’oscurità che invadeva l’appartamento rendeva difficile scrivere. Pensavo che forse così sarebbe andata meglio. Quando trovai il disegno di lei sull’isola che Thevet aveva usato come illustrazione del capitolo dedicato a lei in La Cosmographie Universelle, lo stampai e lo appesi al muro. È un’immagine grigia, un’acquaforte che nel libro è riprodotta a metà tra due pagine, stampata in maniera stupenda; le linee ravvicinate, i capilettera decorati delle colonne annerite, le annotazioni a margine e la breve didascalia in corsivo.
C’erano anche altre foto appese al muro, ma non le guardavo altrettanto spesso. Era l’acquaforte ad attrarre il mio sguardo; un punto preciso, una piccola figura allungata sulla sinistra che ora so esattamente cosa rappresenta, ma in quel momento era ancora indecifrabile per me.
Scrivo che tutto inizia con la morte, quella di suo padre. Lei guarda la fossa che deve essere riempita con la terra ammucchiata lì accanto. Il becchino e gli uomini che hanno portato la bara dal villaggio aspettano poco distante. Non fissano lei ma si guardano tra loro o da un’altra parte, distolgono lo sguardo come se vedere il suo dolore potesse contagiarli. Indossano i semplici vestiti scuri adatti al loro compito. All’alba hanno attraversato il bosco e i campi neri, hanno trasportato la bara sul sentiero fangoso fino a raggiungere il luogo remoto dedicato ai loro morti, lontano dal villaggio.
Scrivo che è sola accanto alla fossa aperta. È sola o c’è già Damienne?
Damienne è lì per occuparsi di lei, è il suo compito, ma quando e da chi le sia stato assegnato è impossibile saperlo. Non si sa nulla dell’inizio, a parte questa morte. È una certezza assoluta. Il padre muore e lei resta sola.
Se non fosse rimasta orfana da minorenne, il re non avrebbe nominato Roberval suo tutore e non sarebbe mai successo ciò che poi è successo. Non avevo mai saputo che esistesse una persona come lei. I giorni e le ore che ho dedicato a questa storia sarebbero trascorsi in un altro modo.
Sul sieur Jean-François de la Rocque de Roberval ci sono parecchi scritti. Non impiegai molto a scoprire tutti i suoi nomi e titoli, quelli dei suoi genitori e parenti, e di coloro che hanno scritto libri e articoli su di lui e su tutto ciò che ha preso il suo nome, il liceo di Montréal e la cittadina fuori Québec, che oggi è famosa più che altro per una gara di nuoto di oltre trenta chilometri sul lago Saint Jean e per una partita di hockey tra i Montreal Canadiens e i Buffalo Sabres disputata lì nel 2008. Lessi dei collegamenti della sua famiglia con vari conflitti religiosi esplosi in Europa all’epoca, ovvero all’inizio di quella che è stata definita l’Età delle scoperte, e lessi che da bambino era stato un caro amico di Francesco d’Angoulême, il principe incoronato poi come Francesco I, il grande re che avrebbe unificato il paese e creato la Francia moderna e di cui in questo lavoro avrei scoperto sempre più cose pur senza averne intenzione.
Nella cartella delle immagini del mio computer avevo salvato un ritratto di Jean-François de la Rocque de Roberval dipinto dal pittore di corte Jean Clouet intorno al 1540, quando Roberval aveva quarant’anni. Fa parte della collezione del Musée Condé con raffigurazioni di Francesco I e delle persone più vicine a lui. Cercando Roberval su Google, il dipinto compare in molte varianti, spesso rielaborate e con diverse sfumature, ma l’originale è disegnato a sanguigna così come i ritratti del Rinascimento italiano, uno stile molto in voga a corte. Jean-François de la Rocque de Roberval ha barba e baffi e i capelli arricciati sulle tempie, gli zigomi marcati e il naso lungo, ciò nonostante la faccia risulta un po’ arrotondata, più rozz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La donna orso
  4. Copyright